Due pagine del Corsera parlando delle possibili scelte del Vaticano per la prossima Biennale. Niente di particolarmente nuovo, se non la conferma di questo punto di mediazione tra istituzione ecclesiale e arte: escludere la “fisicità” per trovare un terreno d’incontro. Quindi fuori tutti i provocatori e largo agli “aniconici”. A naso nulla di nuovo e quindi anche poco di interessante. Speriamo in uno scarto dell’ultim’ora… «La volgarità delle forme non è un problema, è l’inutilità del pensiero ad essere abominevole», diceva Eugéne Delacroix per difendere i primi libertari dalle accuse feroci da parte dell’accademia. Non è la vecchia insulsa divisione tra figurativi e astratti, ma tra un’arte tutto sommato accomodante e un’arte che rischi e crei sommovimento, con qualsiasi linguaggio lo ricerchi. Siccome la Biennale è un terreno che ha senso per essere terreno di sfide, io avrei provato a mettere a tema una narrazione contemporanea del fatto cristiano. Magari affidandola a uomini dei mondi nuovi e uscendo da questo occidentalismo che sta mostrando tanta cerebralità e una pericolosa vocazione all’anoressia espressiva. Per non ritrovarci ancora una volta in afasica compagnia con i pur eccellenti Spalletti, Parmeggiani o chi per loro…
È stata la settimana del presunto scoop di Paris Match sul ritrovamento della parte mancante del celebre quadro di Courbet L’origine du monde. Sarebbe la testa della modella che Courbet usava in quegli anni, l’irlandese Joanna Hiffernan, fidanzata di un altro artista, James Whistler. L’ipotesi ha incontrato molto scetticismo e comunque non aggiunge molto a quel quadro che evidentemente Courbet ha immaginato come un omaggio all’organo genitale femminile, “sparato” senza timidezza in primo piano. Non si sa se questa tela sia frutto di un progetto di Courbet o richiesta del diplomatico turco che ne fu il primo possessore. Ma anche in questo caso le cose cambiano poco. Il fattore decisivo e dirompente del quadro è a monte: è nella capacità di Courbet di trasformare un soggetto pornografico in qualcosa di assolutamente naturale. La scelta del titolo gioca un ruolo in questo senso: l’organo genitale femminile prima che terminale di un desiderio e di un’attrazione viene visto come finestra spalancata sulla vita. Come potente scaturigine del futuro. È un “luogo sorgivo”, e mi viene in mente la vocazione di Courbet a cercare luoghi sorgivi come soggetti della sua pittura: quante vole ha dipinto ad esempio les Sources de la Loue, il fiume che attraversa Ornans, suo paese natale? Per questo non c’è nulla di vizioso né tanto meno di pruriginoso in questo quadro, che io vedo come un grande atto d’amore, grande anche per la sua spregiudicatezza e libertà. Per questo non si può non amare un pittore come Courbet, grande alleato della realtà. Certamente non a rischio di anoressia umana…
Più che di mostre è stata una settimana di teatro. Ho incrociato in tv il Macbeth verdiano con la regia di Bob Wilson al Comunale di Bologna: una messa in scena da restare a bocca aperta, per la pulizia con cui riesce a governare quel dramma truce e a renderlo contemporaneo (guardate qui una sequenza delle scene) Dal vivo ho invece visto Il panico, regia di Ronconi dal testo di un autore argentino, Rafael Spregelburd («Si tratta di costruire un’opera sulla Trascendenza usando solo mattoncini della Banalità», ha spiegato). Visto dalla Galleria del Piccolo, quindi molto in verticale sul palcoscenico, è stata un’esperienza visiva indimenticabile. L’immenso palcoscenico lasciato sostanzialmente vuoto chiuso da due enormi velari bianchi messi ad angolo e scandito da geometrie oblique ma perfette. Una somma di asimmetrie insistite, inquiete per accompagnare il tema (il panico) ma sempre perfettamente controllate. Credo che un artista avrebbe molto da assimilare da due messe in scena così.