Per una coincidenza mi è capitato di ragionare a distanza di pochi giorni su Hopper (per via della mostra milanese) e su Warhol (per l’uscita da Donzelli di America, che non era mai stato pubblicato in italiano; a sinistra la copertina dell’edizione originale, 1985). Perdonatemi la partigianeria, il confronto si è risolto con la certezza dell’assoluta grandezza di Warhol. Hopper rappresenta l’America della prima metà del secolo, W. la seconda. H. è il primo americano integrale ma non provinciale: il suo mondo, per quanto circoscrivibile e topograficamente identificabile, ha connotati di universalità. Sono luoghi interiori, stati di attesa, prospettive tese verso un punto di fuga fuori quadro, ma che non sembrerebbe fuori tiro (se il fiotto di luce entra dalla finestra, se gli sguardi sono puntati, qualcosa c’è o è lì lì per palesarsi). Hopper è un artista semplice, mai presuntuoso, a volte un po’ piccolo rispetto alla vastità del continente in cui gli è stato dato di vivere e di esprimersi (se pensate che negli stessi anni in Europa giganteggiavano Matisse o Picasso: l’America di Hopper sembra ancora un mondo in miniatura…).
Warhol invece è americano integrale con una punta di Europa orientale nel sangue (era Andrej Warhola, figlio di immigrati slovacchi). È uno a cui riesce un gioco impossibile: dare patente di eternità alla paccottiglia del consumismo americano. Per farlo non ricorre a nessun escamotage nobilitante: la serialità delle sue opere assimilano il suo fare arte alla dinamica, sempre uguale a se stessa, di una macchina. Ma perché Warhol neutralizza il sé come soggetto operante per lasciar lavorare il sé come produttore automatico? E soprattutto, perché le immagini di Warhol, pur non andando mai oltre la superficie delle cose non restano mai prigioniere della loro provvisorietà? La risposta è una sola: sono icone. Warhol opera questo impensabile trasferimento di una visione senza tempo (quello delle icone del suo originario oriente) nella civiltà più effimera che la storia abbia mai conosciuto. E innesta dentro questa, senza per nulla forzarla, un punto di vista adorante o “contemplativo”. Per questo le immagini di Warhol sono sempre nuove, anche se uguali a se stesse: anche il banale (quotidiano) ha trovato un rimando di gloria.
Ecco perché amo Warhol assai più del nobile Hopper.