Dieci filmati di dieci minuti ciascuno messi sul sito. Tutti dedicati alla figura di Giovanni Battista, attraverso i 120 quadri, conservati nelle raccolte della National Gallery, in cui il santo compare. Il museo londinese inaugura un format semplice e di straordinaria efficacia anche per rispondere a un’emergenza: l’emergenza della progressiva incapacità dei visitatori di “leggere” i soggetti, in particolare dei quadri sacri. È un analfabetismo iconografico dilagante, frutto di una secolarizzazione di cui non si percepisce ancora bene la portata e la profondità. Per un museo come la National però questo è un pericolo che rischia di minare le fondamenta: se le persone che entrano non capiscono quello che stanno guardando, se i soggetti religiosi diventano come degli ideogrammi, alla fine si crea una distanza e una disaffezione. D’altronde è impensabile pensare di drenare i soggetti sacri privilegiando quelli mondani, visto che i numeri sono tutti dalla parte dei primi (basti pensare ai 120 quadri con san Giovanni).
Così alla National hanno provato a vedere cosa succede a prendere il toro per le corne: i dieci filmati si sviluppano in sequenza narrativa seguendo la vita di san Giovanni, visualizzandola sempre con opere delle raccolte. Quindi l’aspetto di alfabetizzazione iconografica è senza dubbio prevalente rispetto ad ogni ragionamento storico o critico. L’obiettivo è chiaro: mettere i visitatori in grado di capire. I filmati molto semplici nella struttura, realizzati nelle sale del museo e costruiti attorno al dialogo tra Jennifer Sliwka assistant curator in Renaissance painting alla National e Ben Quash direttore del Centre for Arts and Sacred del King’s College di Londra. Il percorso non lascia mai zone d’ombre, persino le cose più elementari vengono chiarite (tipo la differenza tra Vecchio e Nuovo Testamento). E ogni particolare narrativo trova rispondenza ed eco poi nelle immagini delle opere.
È un’operazione di “rammendo” della memoria che non funzionerebbe se non potesse far leva sulla carica emotiva delle opere. E infatti colpisce come il dialogo sempre all’insegna della chiarezza, poi si scaldi davanti al modo con cui gli artisti interpretano i vari fatti della vita di san Giovanni. L’aspetto religioso come accade sempre nella bella, grande e sana storia del cristianesimo, alla fine si riaffaccia attraverso l’umano. Provate ad ascoltare le parole di Jennifer Sliwka nel secondo filmato dedicato alla Visitazione, davanti all’opera del Maestro fiammingo del 1518 e capirete cosa intendo dire.
Comunque, chapeau alla National Gallery!
(aggiungo che i filmati hanno anche l’opzione dei sottotitoli in inglese, proprio per non lasciare indietro nessuno).
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Se la National Gallery torna all’abc
Il Cristo rotante di Antonello
Questo pensiero sul Salvator Mundi di Antonello l’ho scritto per la rubrica Riquadri che tengo sul bel sito Piccole note. La ripropongo anche qui, un po’ a bilancio di una mostra che non dimenticherò facilmente.
Ora che si è chiusa la mostra su Antonello al Mart (la più bella del 2013, non solo a parer mio), è importante tornare su un quadro eccezionale che era esposto. È il Salvator Mundi, arrivato dalla National Gallery di Londra. È un quadro chiave, firmato e datato 1465, non solo della storia di Antonello, ma anche della storia della pittura e in un certo senso della “nostra” storia. Il quadro è piccolo, in obbedienza a quella committenza nuova (la “gens nova”: mercanti, borghesi…) che Antonello aveva intercettato e che richiedeva opere a funzione devozionale per ambienti privati. È un’opera che applica però un canone antico: il volto di Cristo benedicente, ha la ieraticità di un’icona. Ha uno sguardo fisso verso di noi, uno sguardo non consumato né consumabile dal tempo. Per quanto la forma del volto sia pienamente compiuta e non solo stilizzata come accade nelle icone, riesce a trasmetter quella dimensione che, nella forma umana, lascia trapelare un’impronta del divino. Il Salvator Mundi è in atteggiamento benedicente, un po’ come gli antichi Cristi Pantocratori delle absidi medievali. Le due mani spuntano da quel piccolo davanzale in primo piano, che ci dà una sensazione di un “da sotto in su”, in contrasto con la frontalità chiara del volto. Ma è proprio questa semplice correzione nella costruzione del quadro, che innesca una sorta di accensione. In più c’è da osservare un particolare chiave: Antonello corregge in corsa la mano benedicente, che in una prima versione era messa più di traverso e che invece nella versione definitiva ruota in posizione frontale, imponendosi così di realizzare uno scorcio della massima difficoltà. Ma questa rotazione è come una leva che spacca e apre lo spazio. Alle due dimensioni della tavola ne aggiunge una terza, che è quella che non va verso il fondo, ma viene verso dove noi siamo.
Antonello mettendo in campo le innovazioni della nuova pittura italiana capace di aprire profondità e volumi, ne fa uno strumento per creare una contiguità tra lo spazio dove Cristo è e quello dove noi siamo. Dieci anni dopo avrebbe fatto la stessa cosa con la mano allungata della sua meravigliosa Annunciata. Ma qui c’è lo stupore della prima volta. E anche la sensazione di un’audacia messa in campo. È questo che dà un’elettricità e una vibrazione così contemporanea, a questa icona così disciplinatamente antica. (Non è un caso che Romeo Castellucci l’avesse scelta, riprodotta su scala enorme, come sfondo del spettacolo tanto stupidamente discusso ma tanto vero, Sul concetto di volto del figlio di Dio).
Dove porti la strada avviata con la rotazione delle dita benedicenti, lo si vede nel Cristo alla colonna del Louvre, pure presente in mostra. Lì la rotazione è di tutti i volumi; è una torsione che non provoca nessuna distorsione delle forme, e che racconta uno stato vertiginoso del dolore che non si esprime con lacerazioni ma con una spasmodica compostezza compositiva.
Il capolavoro incamminato del giovane Tiziano
La prima cosa che colpisce di questo quadro sono le dimensioni: 336 cm di base per 206 di altezza. In secondo luogo colpiscono le proporzioni, con quell’orizzontalità così accentuata e così genialmente sfruttata dal giovane Tiziano. Sto parlando della Fuga in Egitto che dopo un lunghissimo restauro da parte dell’Ermitage è di scena a Londra alla National Gallery e che poi sosterrà a Venezia, città per il quale era stata dipinta, su commissione di Andrea Loredan titolare del palazzo che attualmente ospita il Casinò. Sarà a Venezia dal 29 agosto, prima di tornare definitivamente in Russia. Il dipinto studiato da Antonio Mazzotta, un giovane studioso che è curatore della mostra londinese, è un dipinto favoloso. L’aggettivo non riguarda tanto la qualità quanto la capacità di invenzione di Tiziano, che s’immagina una rappresentazione del tutto asimmetrica, in cui le figurine entrano da sinistra con il loro passo affaticato, lasciando la centralità della scena a quell’immenso paesaggio che Tiziano aveva “rovesciato” sulla tela quasi a rivendicare le proprie radici cadorine e “montane”. C’è dappertutto un brulicare di animali, di foglie, di erba, di vento agitato: Giuseppe, Maria e il Bambino guidati dal giovanotto che fa da angelo, transitano senza che nulla di quel brulichio venga sospeso. È questa la bellezza dell’invenzione di Tiziano, che si permette di soprassedere sugli effetti speciali e inserisce quel viaggio nel flusso normalissimo della vita del mondo (come diceva in una bella poesia Auden, le grandi cose che segnano la storia avvengono in momenti che non hanno nulla di particolare: il tran tran non si ferma..). Il transito poi ha un altro effetto, direi quasi filmico: ci aspettiamo i prossimi passi, quasi che invece di esser davanti ad una tela fossimo davanti ad un video. È una tela “incamminata” questa di Tiziano: nel segno del passo di Giuseppe, del passo dell’asinello e di quello del ragazzo angelo. E noi che la guardiamo siamo quasi indotti a seguirla, non solo con lo sguardo ma con i nostri passi.
Poi ci sono i particolari, come il cielo alpino intriso d’acqua, il verde tenero dei prati, l’ordine obbediente degli animali; e quel tenero gesto di Maria che protegge con il volto il bambino addormentato…
Ma siete mai entrati nel sito degli Uffizi?
Non è stata un’estate di grandi tour questa per me. Così mi sono divertito a girare per musei via Ipad (grazie Steve!). Non per musei italiani, perché si entra regolarmente in siti che se non sono morti sono in letargo per la pausa estiva: impressione tristissima, a volte davvero deprimente. Tutto l’opposto se si va sui siti di musei esteri. Anche quelli più sussieguosi, come per esempio la National Gallery di Londra, offrono spettacoli visivi che sono un piacere. C’è stabile il ciclo sul quadro del mese, indagabile anche visivamente in maniera spettacolare. Ci sono tre mostre in corso tutte ben illustrate. C’è la presentazione degli eventi futuri. E poi si passa di sala in sala in quella che è la parte stabile sel sito. Insomma, se nessuno ti richiama ci va dentro un’ora buona di navigazione. L’Alte Pinakotek di Monaco offre meno soddisfazioni, ma è pur sempre un bel vedere. L’Home page del Prado presenta le mostre in corso. C’è tra l’altro la trasferta della Deposizione di Caravaggio, ben presentata con un video. E tutte le opere sono visibili, a volte ingrandibili con particolari da capogiro. Bellissima la sezione A fondo, dove una serie di capolavori sono analizzati con testi molto curati e particolari da non credere. Andando oltre si entra nel museo, seguendo gli autori o andando per sale. Al sito del Louvre c’è l’opera del giorno, c’è una più classica possibilità di ricerca delle 30mila opere esposte, con immagine e breve scheda. C’è una selezione di opere in alta definizione, sullo stile di Googleartproject, per ora non visibile da Ipad ma solo su pc. Tornare in Italia è a questo punto come tornare all’età della pietra. Persino i domini dei musei sono complicati, in quanto brera.it è un sito under costruction di amici di Gianni Brera. Se andate su brera.com, vi trovate sul sito di una finanziaria che in home page presneta il cortile della pinacoteca… Quello della pinacoteca è un dominio in subordine: brera.beniculturali.it . Il sito è poi tutto all’osso, e la visita virtuale che viene annunciata e davvero virtuale, in quanto costituita da piantina e opere fotografate come francobolli. E non pensiate che scrivendo uffizi.it entriate nel sito del più importante museo italiano. Nient’affatto. Entrate nel sito di un sito commerciale d’arte dove si vendono le opere di un ceeto Gioacchino Chiesa. Se invece per caso arrivate su uffizi.com vi trovate in un sitaccio turistico- commerciale dedicato al museo. Insomma due domini usurpati, senza che nessuno abbia da ridire… Per entrare agli Uffizi bisogna fare un cammino più tortuoso: http://www.uffizi.beniculturali.it ( e non è detto che sia il primo ad apparire nella ricerca google). Il sito è scarno, mette insieme tutti i musei di Firenze e prevede una sezione Visita il museo che funziona così: elenco sale, elenco opere esposte, rimando per maggiori specifiche al centro di documentazione, in cui se va bene vengono elencate le foto presenti in archivio. Ho tentato di aprirne un paio ma mi sono arreso dopo vari tentativi. In compenso si leggono bene tutti i dtai della società che ha sviluppato il sito (indirizzo, telefono, manca solo la partita Iva).
Non vado oltre. Ma lancio una modesta proposta: invece di inseguire il sogno della Grande Brera se almeno la dotassimo di un sito che fa venire un minimo di desiderio di metterci piede?
Ps: un’amica attenta, stellamaris, mi segnala la classifica dei musei al mondo stilata sui parametri klout (che misurano la capacità di crearsi pubblico con i socialmedia). Ovviamente non c’è ombra di museo italiano. Il vincitore è la Smithsonian di Washington: impressiona visitare il sito, vedere i numeri di traffico (500mila follower in twitter) una cinquantina di diverse pagine in facebook, per segmentare il pubblico a seconda degli interessi. Ma mi ha colpito soprattutto la motivazione con cui spiegano questo loro impegno. C’è davvero da imparare (invece che continuare nei soliti piagnistei).
«For the Smithsonian to remain a vital institution at this important time in our history, we need to fully engage younger generations with our collections and our knowledge. We need to use new digital technologies to their fullest potential so that we can fulfill the Smithsonian’s 19th-century mission—‘the increase and diffusion of knowledge’— in a thoroughly 21st-century way for the benefit of all Americans and people around the globe».
(a proposito: lo Smithsonian per i suoi siti è ricorso al suffisso .edu Una buona idea).
I santi nel legno dei cieli
Ma una mostra che vorrei davvero vedere c’è: The Sacred Made Real, scultura e pittura spagnola tra 1600 e 1700 alla National Gallery di Londra. Sono i precursori straordinari di ogni iperrealismo. Ne parla l’ultimo numero del Giornale dell’Arte (bello il titolo: “I santi nel legno dei cieli”), dove il curatore Xavier Bray intervistato spiega che la scultura aveva una potenza emotiva molto maggiore alla pittura e che lo stesso Velazquez aveva appreso la tecnica della scultura dipinta: «La scultura era la forma d’arte preferita per rendere più immediata e diretta la religione, risvegliava tutti i sensi».
Non è difficile crederlo se si guardano queste due opere stupefacenti esposte alla National Gallery. La prima è il San Giovanni di Dio di Alonso Cano, l’altro è la testa del San Francesco in meditazione di Pedro de Mena, proveniente da Toledo.