Robe da chiodi

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Tutti a mangiar frutta con Caravaggio e Federico

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Che ci faceva La Canestra di frutta di Caravaggio nelle collezioni del Cardinale Federico? Perché proprio lui volle un quadro di quel grande pittore di cui disprezzava tutto, a partire dai suoi comportamenti? Non si può mancare domani all’Ambrosiana ad ascoltare Cristina Terzaghi, che nel 2004 studiò a fondo al vicenda dedicandole un saggio che ha segnato una svolta nella comprensione di questo capolavoro, «Per la Canestra e Federico Borromeo a Roma» (Studia Borromaica, 18 2004). «Per confortare la testa e per rinfrescarla quando è calda, mi son piaciuti i fiori; et i frutti anchora sopra le tavole, et ho goduto massimamente di havere le premitie di primavera e nell’estate ancora» scrive il cardinale nel manoscritto De nostris studis. Che sintetizza così questa sua “debolezza”: «Un piacere dolce e senza amaritudine tra le spine del mondo».

È il mistero dell’unica opera di Caravaggio destinata alla sua città che sia sopravvissuta. Insieme a Cristina Terzaghi ci sarà Giacomo Berra, autore di una ricostruzione meticolosa sugli anni giovanili di Caravaggio a Milano. Per iscriversi alla conferenza che si concluderà con la visita alla Canestra, basta andare sul sito dell’Associazione Testori.

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Written by giuseppefrangi

Ottobre 23rd, 2009 at 1:52 pm

L'io di Caravaggio

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Conversazione su Caravaggio al Teatro I a Milano, nell’ambito del ciclo Ex Cathedra. Per tema di partenza una domanda: perché Caravaggio mette ogni volta in fila migliaia di persone? La stessa domanda che aveva dettato a Longhi il bellissimo Consuntivo scritto su Paragone all’indomani del travolgente successo della mostra del 1951. E che aveva indotto a André Berne-Joffroy a scrivere quel magnifico libro enciclopedico che è il Dossier Caravage.
Per rispondere alla domanda ho passato in rassegna gli otto quadri in C. si è dipinto. Perché la tesi che volevo verificare è questa: il successo di C. oggi c’entra con la modalità con cui il suo “io” entra dentro le sue opere?
Ecco alcuni appunti conclusivi. Un grazie a Cristina Terzaghi per l’aiuto fornito.  Perdonate la lunghezza del post.

carav-09Caravaggio opera un taglio bruciante con il passato che aveva idealizzato l’io creatore dell’artista e lo aveva portato su una ribalta metastorica (La Scuola di Atene di Raffaello ne è l’emblema). Caravaggio scaraventa l’io, il suo io dentro il presente. Lui è contemporaneo a quel che accade e nello stesso tempo fa sì che quel che accade (e che lui racconta nei suoi quadri) diventi contemporaneo al tempo di ogni uomo. Non c’è rievocazione ma realtà fattuale, sempre. Sulla scena di questa realtà colta nell’atto del suo compiersi, l’io è necessariamente presente, perché il quadro stesso testimonia che lui è lì. È come un fotografo: magari non lo vedi, ma se ha scattato quella foto, va da sé che fosse testimone e protagonista di quell’attimo di storia. Caravaggio consegna a chi guarda questa certezza, che folgora anche lo sguardo degli uomini d’oggi. Quello che vedete è tutto vero: le cose sono andate così. È tale la sua energia nel rendere tutto presente a se stesso, che anche chi guarda alla fine la sente presente a se stesso, alla sua vita di quell’istante. (Nell’immagine, l’autoritratto incluso nella Resurrezione di Lazzaro)

Il presente è anche energia in azione. Cioè è tempo che ci scorre davanti agli occhi. Caravaggio ha questa grande genialità cinematografica. I suoi quadri sanno essere sequenze di attimi presenti. Uno inghiotte l’altro, con la velocità preciptosa della realtà. Non sono un fotogramma solo, sono più fotogrammi che scorrono orizzontalmente come quelli di una pellicola. Il presente se fosse concepito come attimo assoluto, sarebbe irreale. Invece è attimo che corre per lasciare posto all’attimo successivo. Caravaggio ha colto questa caratteristica pressante ma insieme fuggente del presente. È un presente che corre, che scorre veloce, che racconta sequenze. «È un fenomeno non facilmente spiegabile questa passione popolare per Caravaggio. Ci va gente che che non è mai stata in un museo che non è mai entrata a Brera. Sarà che certe sue cose hanno l’evidenza di un film in technicolor», scrive Giorgio Galansino a  André Berne-Joffroy. Il suo essere così espressamente cinematografico lo fa essere contemporaneo: è allineato con la grammatica visiva del nostro tempo.

Come possiamo definire fenomenologicamente l’io di Caravaggio? È un io certamente inquieto. “stravagante” è l’aggettivo che ricorre più di frequente nei suoi primi biografi. «Con il cervello stravolto», lo definisce il Susinno suo biografo siciliano. E completa «più agitato che non è il mare di Messina colle sue precipitose correnti che or salgono, or scendono». Federico Borromeo che pur era stato un suo collezionista avendogli comperato la Canestra dell’Ambrosiana, in un suo libro De dilectu ingeniorum scrive: «Conobbi nei miei dì in Roma un dipintore il quale era di sozzi costumi, et andava sempre mai coi panni stracciati, e lordi a maraviglia, e si vivea del continuo tra garzoni delle cucine e li S.ri della corte. Questo dipintore non fece mai altro che buono fosse nella sua arte, salvo il rappresentare li tavernieri, et i giocatori, overe le cingare che guardano la mano, overo i baronci, et i fachini et li sgraziati, che si dormivano la notte per le piazze; et era il più contento huomo del mondo, quando havea dipinto un hosteria, et colàentro chi mangiasse et bevesse. Questo procedeva dei suoi costumi, i quali erano simiglianti ai suoi lavori».
È un io violento, a volte intrattabile. Ora, se questo è il profilo psicologico e caratteriale di Caravaggio, viene da porsi una domanda: com’è possibile che date queste caratteristiche riesca a mantenere uno sguardo così preciso, credibile, assolutamente esatto, a volte addirittura tenero sulla realtà? Com’è che a un cervello tanto stravagante riesca di essere tenacemente lucido nell’aderire al piano delle cose?
Caravaggio è il pittore meno ambiguo della storia, dichiara tutto, si mette a nudo.  È il pittore che inventa il buio, ma non è un buio che nasconde nulla. Si vede sempre tutto.  Non credo che ci siano formule che spieghino questa dicotomia e come Caravaggio riesca a risolverla. È cosa che appartiene al mistero, sia artistico che umano che lo riguarda. L’unica cosa che possiamo dire che quello di Caravaggio è un io che si lascia investire pienamente dalla realtà. Non aggiungerei altro.

Ma c’è un altro punto di mistero che chi è credente non può non affrontare. Provo a dirlo. C. è il pittore dei peccati mortali, come lui stesso si dichiara. È pervicace nel reiterare i suoi comportamenti scellerati. È spavaldo, sicuro della propria grandezza.
Per dirla tutta ha una moralità assolutamente discutibile. Com’è possibile che da una persona così vengano le immagini più assolutamente aderenti alla realtà del fatto cristiano, è appunto un mistero?  Di grandi geni capaci di capolavori pur nella vita depravata è piena la storia. Di grandi geni depravati capaci di essere testimoni del fatto cristiano come Caravaggio non ce ne sono. Che sia questa un’altra delle ragioni del suo colpire anche l’uomo d’oggi, spesso del tutto ignaro del senso “iconografico” e morale dei fatti che lui racconti, ma che resta colpito dall’umano che li pervade. Porta davanti ai nostri occhi quel che ognuno inconsapevolmente desidera per la propria vita, senza nessuna connotazione d’ordine morale, senza richieste di precondizioni.
Dovessi dirlo con una formula, non porta certezze, porta evidenze. Come quelle del suo Tommaso che mette le mani nel costato di Cristo. O come quella dell’apostolo di Emmaus che spalanca stupito le braccia davanti a qualcosa di assolutamente inatteso che fa palpitare il cuore. Difficile pensare che non sia tutto vero.

Written by giuseppefrangi

Giugno 30th, 2009 at 10:57 pm