«Infine vale ancora la pena di parlare d’arte o di pittura nel tardo Novembre 1914, sotto il brontolio della battaglia della Francia: se i soldati hanno freddo nelle trincee allagate io non ho caldo quassù, e voi sapete quanto sia grave pensare e scrivere a mani fredde». Esordiva così il giovane Longhi, giusto 100 anni fa, in un saggio che rileggo aprendo quasi a caso il suo libro con gli inediti giovanili (Palazzo non finito). È un saggio da “battaglia”, contrassegnato da una magnifica spavalderia: Longhi si permette giudizi tranchant verso l’arte nordica (il gotico come “maledizione di tabernacolini”), si lancia in una crociata per obbligare a distinguere ciò che è arte da ciò che è solo boria per innovazione tecnica (la pittura ad olio dei fiamminghi, che scivolano in “calligrafa degenerazione”, in “limpidezza banale”, in “ribrezzo lucertolare”). Certamente c’è da storicizzare. È il Longhi idealista, crociano, italofilo. Ma è anche il Longhi che inizia a a mettere a fuoco l’intuizione sulla centralità di Piero (il primo saggio su Piero è proprio dello stesso anno), che capisce come lo stile non sia solo una questione stilistica ma di elaborazione e visione del mondo. Quella a cui si dedica è quella storia che parte «dalle accettate e volontarie costrizioni create per la prima volta dai grandi romanici d’Italia e sollevate a sfere di classiche da Giotto e Michelangelo». È la storia della forma contro quella della “de-forma”…
Ma più che la pars costruens in queste pagine è fantastica la pars destruens. Così linguisticamente avvincente da diventare quasi diabolicamente convincente… verrebbe quasi voglia di proprorne un’antologia…
«Contorto di gotico questo paesaggio barocchio e cartoccioso, questo paesaggio raccontativo, topografico e non cosmico»; «…angoli sgnagherati, finestre cul di bottiglie…»; «questi tiranni inebetiti di borghesi; questi ermeiti abbruttiti di noia; questi piccioni di spirito santo…»; «questa grazie di porcospino…»
I giudizi ovviamente verrano presto rivisti, e saggiamente equilibrati. Ma nella vitalità di queste pagine si vede già lo scarto grazie al quale Longhi ha fatto diventare la storia dell’arte qualcosa di umanamente appassionante. Persino per chi in quel 1914 stava in trincea
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Longhi 1914. Scrivere di storia dell’arte con la Guerra alle porte
Un autunno di mostre mostruose
Pensavo in questi giorni, osservando i lanci stampa delle mostre che arrivano sul tavolo, che siamo nella stagione delle “mostre mostruose”. Qualche esempio: Il Potere e la Grazia, a Palazzo Venezia. Un’enigmatica indagine su ruolo e immagine dei santi patroni, in Europa. Mostra dai grandi mezzi, con qualche prestito da capogiro (arriva la tavoletta di Van Eyck da Torino, un quadro che neanche a Torino tengono espsoto sempre per preservarne le condizioni: vi pare una cosa logica?). Benché ci sia dietro Ravasi, sembra un concertone di grandi nomi che cercano disperatamente un’ultima ribalta. Ma i patroni, giganti della nostra storia, sono ormai figure drammaticamente marginalizzate nella coscienza collettiva. Meglio tentare di rappresentare il dramma di questo oblio che non la retorica dei tempi andati.
Altro esempio: la mostra pavese con la carrellata di seconde scelte del 600 spagnolo provenienti dall’Ermitage. Leggo oggi sul Corriere che la legittimazione culturale della mostra sta nel fatto che nel 1525 a Pavia si combattè la battaglia che consegnò la Lombardia alla Spagna. Dal che uno deduce che si fa una mostra sugli influssi che la cultura figurativa iberica ha avuto sull’arte lombarda del 600, ad esempio sulla cultura dei pittori pestanti. Nient’affatto. Nessun confronto, nessuna indagine sul tema. Semplice carrellata di quadri, trangolati dalle collezioni di Caterina II (l’unica cosa buona è che qualcuno almeno scoprirà che a Pavia c’è la bellissima Pinacoteca Malaspina…).
Tra le mostre malpensate temo ci sia anche quella romana su Caravaggio e Bacon, che come mi riferiscono amici autorevoli è mal allestita e penalizza il grande inglese, finito nel tritatutto della spasmodica mania caravaggesca che ormai pervade l’Italia.
Al che mi sono detto: ma se si voleva fare una mostra per mettere in rapporto Bacon con il passato c’erano almeno tre ipotesi più pertinenti e più intelligenti:
- Portare il ciclo dei papi urlanti di Bacon a casa loro, cioè a fianco del mitico Innocenzo X di Velazquez che ne è il prototipo ispiratore.
- Mettere Bacon a confronto con i disegni di corpi di Michelangelo, altro punto genetico della sua pittura.
- La più fascinosa: Bacon con il Crocifisso aretino di Cimabue. Nel suo studio di Londra lo teneva appeso rovesciato, per percepirne con più forza la straordinaria torsione. Non ci vuol molto a capire quanto potente sia stata quella suggestione su di lui.
A la prochaine…
Ritratti, tremendi ritratti
C’è Andrea Doria, dipinto dal Bronzino; c’è Federico da Montefeltro, dipinto da Giusto di Gant; c’è Federico III. Elettore di Sassonia, dipinto da Dürer; c’è Raffaello, che si è fatto il ritratto con a fianco il suo maestro di scherma; c’è Camilla Gonzaga, contessa di San Secondo, immortalata dal Parmigianino; c’è il profilo senza tempo che Piero della Francesca fece a Sigismondo Malatesta. L’elenco potrebbe continuare a lungo, perché la mostra del Ritratto nel rinascimento, in questi mesi al Prado (sino al 7 settembre; poi dal 15 ottobre alla National Gallery di Londra) è certamente una sfilata impressionante di capolavori. Ma è anche un incontro, un vis à vis con un’infinità di personaggi che hanno, poco o tanto, cambiato la storia.
Ricordo l’impressione ricevuta entrando a Palazzo Venezia, a Roma, in occasione della recente stupenda mostra di Sebastiano del Piombo. Nel grande salone dove erano stati raccolti i ritratti del grande pittore (tra gli altri spiccava anche lì un Andrea Doria), si aveva l’impressione prepotente di aver a che fare con uomini che tenevano il mondo nel pugno. Il ritratto nel Rinascimento aveva proprio questa funzione di rappresentazione non tanto di un ruolo quanto di una capacità di dominare la storia. Non era pensato a memoria dei posteri, era un’operazione pensata strategicamente per consolidare l’egemonia e la gloria presente. Così restava poco o nessuno spazio per l’intimismo e la psicologia; il ritratto non era mai un fatto privato, era un’operazione scopertamente pubblica. Tutti dovevano vedere, tutti dovevano sapere. Lo stesso Filippo II, con quel suo carattere ombroso e introverso, con quel volto un po’ troppo flaccido, passato attarverso il pennello e le tele di Tiziano si trasfigura in una sagoma inscalfibile, acquisice una saldezza che intimoriva e riempiva di meraviglia. Il ritratto, nel Rinascimento, è quindi una sorta di consacrazione.
Ma alla mostra di Madrid c’è un piccolo, straordinario capolavoro che sembra andare in controtendenza. E’ un gioiello arrivato da Bruges, dipinto dal più grande pittore fiammingo del 1400, Jan Van Eyck, e rappresenta la moglie dell’artista. Evidentemente si tratta di un quadro privato: la donna, Margaretha, guarda fissa “nell’obiettivo”, cioè negli occhi del marito che la sta dipingendo. Sembra che intrattenga con lui un dialogo esclusivo, che sguardi estreni non siano stati neppure messi nel conto. Ma è davvero così?
Margaretha in quel 1439 aveva 33 anni, anche se obiettivamente ne dimostra qualcuno di più. È vestita con eleganza un po’ troppo sontuosa per essere una ricca borghese delle fiorentissime Fiandre di quegli anni. Ha l’abito bordato di pelliccia, che era un requisito tipico della nobiltà. Tipico, ma evidentemente non più esclusivo. Quel che più colpisce l’occhio è però quell’elaboratissimo copricapo che Van Eyck dipinge con la minuzia implacabile di un miniatore. Tanta è la precisione che verrebbe la tentazione di guardare quei particolari attraverso un microscopio per sorprendere almeno qualche sbavatura. Se lo si osserva con attenzione, si scopre che l’arricciatura di quel velo è fatta di ben sette strati e che Van Eyck l’ha dipinto con una determinazione, quasi volesse ostentare un simbolo. Dovevano essere ben rari veli di quella ricchezza: così alla fine viene il dubbio che quel ritratto così intimo, abbia, come tutti gli altri capolavori che lo circondano nelle sale del Prado, un’identica funzione: rendere pubblico uno status conquistato. Il più grande pittore fiammingo non era più semplicemente un iscritto alla corporazione di un pur nobile mestiere. Era un mattatore del suo tempo. Un protagonista. Un borghese capace di guardare lontano e consapevole di avere il mondo ai suoi piedi. Per questo tutti dovevano guardare, contare e ammirare i stette veli del copricapo di sua moglie Margaretha.
Scritto per Monsieur