Robe da chiodi

Lepanto, con Cy Twombly la storia si fa lirica

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In questi giorni di rinnovate e demenziali tensioni tra Islam e Occidente, il pensiero corre alla sala con il ciclo dedicato alla battaglia di Lepanto, appena visto al Museo Brandhorst di Monaco. Sono 12 tele di Cy Twombly, presentate alla Biennale del 2001 (il gioco delle date…), e che oggi occupano in sede definitiva la grande sala a mezzaluna al terzo piano del nuovo museo di Monaco. Non credo che nessuno risolverà l’enigma che sta dietro la scelta di Cy Twombly di concentrarsi su un tema del genere, in un momento come questo della nostra storia (ma c’entra certo il desiderio di esplorare il proprio dna occidentale). Ma l’arte va accettata anche con i suoi enigmi: inutile pretendere di risolvere tutto. Vista nella collocazione ideale del museo (illuminazione perfetta), il crescendo narrativo del ciclo emerge in modo molto più chiaro che non a Venezia. C’è un approccio lirico alla battaglia, con la narrazione affidata a codici semplici, quasi infantili, ma di un’incisività simbolica via via sempre più ferrea. Si comincia da sinistra con un mare che è ancora azzurro e con le flotte schierate, si intervallano immagini in cui il giallo e il rosso del fuoco e del sangue incendiano la tela raccontando l’acme della battaglia. Le pause si fanno sempre più disfatte e cupe, con le sagome delle navi che sembrano come insetti contratti e assediati.

Più che la dimensione di grandezza, Cy Twombly colpisce per questa sua capacità di essere elementare. Di saldare secoli di storia dentro codici semplici ma “archetipici”. Facile il riferimento al linguaggio delle incisioni rupestri (vedi a conferma, qui sotto, la versione della nave in multiplo inciso) che Cy Twombly fa reimergere dal profondo della coscienza e della storia, incendiandoli poi con un furore cinematografico laddove la battaglia non lascia più scampo. Ma la crudeltà e la ferocia non sono certo l’ultima parola: l’andamento, il legante direi, alla fine è irriducibilmente lirico. La storia ribolle, ma alla fine sfuma.

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Settembre 11th, 2010 at 7:23 am

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Ancora su Würzburg. Tiepolo, la spedizione a cielo aperto

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Mi scrive Paola: «Rimane un mistero di come un giorno Tiepolo (che sempre mi appariva leggero e occupato in lievi fluttuamenti) senza perdere nulla della sua leggerezza abbia organizzato coi suoi figli quella spedizione da tutte le terre abitate al cielo aperto». Dunque: Tiepolo parte con i due figli e un aiutante per Würzburg nell’inverno del 1750, con un contratto principesco in mano che riguarda una sala della Residenza, non ancora la volta dello scalone. La Sala del Principe è già corredata con gli stucchi fantasmagorici di Antonio Bossi e c’è un programma iconografico molto preciso da seguire, che vuole rappresentare la legittimità del potere del vescovo principe della Franconia. Nell’estate 1751 Tiepolo dipinge il soffitto e una delle due scene sulle pareti (ma non si devono dimenticare i meravigliosi monocromi verdi sull’oro, e quelle figure su fondo bianco, messe sopra i cornicioni che sembrano precipitare nella sala). Nell’estate 1752 Tiepolo conclude l’opera, ma nel frattempo si è guadagnato la commissione impossibile, i 600 metri quadri della volta sopra lo scalone. A giugno mettono l’immensa impalcatura. Tiepolo attacca dal centro. Poi arriva l’inverno. Si riprende nella primavera del 1753. Le idee devono essere chiarissime, perché ad agosto il lavoro è praticamente concluso. Ad ottobre Tiepolo chiude il cantiere e il 13 novembre riparte per Venezia. Provate a pensare a quella partenza per sempre, lasciandosi alle spalle quell’immenso pezzo di felicità fatta pittura. Quel chiudere la spedizione a cielo aperto e ritornare nelle terre abitate. Quel prendere e andare senza nessuna nostalgia, per attendere con puntualità professionale ad altri impegni. Ci sarebbe stato da accasarsi sotto quel cielo, e invece…  Invece, la vita, Venezia, i figli, il lavoro. Chissà.

Una nota: gli stucchi di Bossi, frutto di un rococò ipereccitato e impazzito, sembrano presagire quel che sarebbe stato dipinto nella Stanza del Principe: qerché sembrano accendersi di una febbre che li scuote convergendo verso il centro del soffitto. Straordinario il corto circuito tra la tensione che li fa sembrare come lucertole dorate e la calma suprema con cui Tiepolo occupa il centro della scena… Ma forse c’è stato un pensieor posteriore. Gli stucchi erano bianchi, come quelli della magnifica stanza che precede la Sala del Principe. Era stato Tiepolo a farli dorare, moltiplicandone l’eccitazione.

Written by gfrangi

Settembre 4th, 2010 at 7:25 pm

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Pedregulho, la bellezza destinata al quotidiano

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Riflettevo leggendo le cronache dalla Biennale architettura (premetto che la curatrice 2010, Kazuyo Sejima mi sta simpatica a pelle: sobria, goffa e poco mediatica): tutto il problema dell’architettura di oggi si esaurisce nell’opposizione tra soluzioni iperspettacolari da archistar, e soluzioni micro per rispondere alla domanda di un inquilino borghese à la page che vuole sentirsi la coscienza pulita (quindi sensibile all’abitare eco sostenibile). Quella che manca è un’idea della casa per noi, uomini comuni: popolo si sarebbe detto una volta. C’è architettura e pensiero architettonico per tutti tranne che per noi.

I motivi sono vari. Primo, perché manca una capacità di sguardo e quindi d’amore per la gente comune. La persona comune non interessa se non come destinataria di sogni non realizzabili, che tutt’al più ne ingolfano l’immaginario. Secondo, perché anche in architettura l’apparenza prevale sulla consistenza reale. Terzo, perché non ci sono grandi idee in giro e ce la si cava con gli effetti speciali, nel macro come nel micro.

Per questo mi ha colpito un servizio apparso sull’ultimo numero di Casabella (sfogliatelo anche online) che racconta e illustra la grande esperienza del Pedregulho di Rio de Janeiro, progettato da Affonso Eduardo Reidy (1946-1958). Un complesso enorme, costruito per accogliere centinaia di famiglie, dotato di tutti i servizi e gli spazi comuni per rendere vivibile la vita, seppur dentro una dimensione di massa. Disse il suo progettista: «Bisogna ottenere non soltanto il comfort ma anche la bellezza indispensabile a qualsiasi vita umana decente» (e si inventò quei semplici ballatoi – loggiati, con pareti di mattone forato a diverse geometrie: bellezza declinata con semplicità).

Inutile dire che Eduardo Reidy tenne una corrispondenza fittissima con Le Corbusier, che negli stessi anno e con le stesse preoccupazioni stava costruendo la sua Unité d’habitation a Marsiglia. Architettura come monumento alla vita quotidiana.

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Agosto 31st, 2010 at 7:09 am

Indovina un po’ quale Van Gogh hanno rubato…

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Ma qual è il Van Gogh rubato al Mahmoud Khalil Museum del Cairo? Su quasi tutti i giornali italiani è apparsa l’immagine di un Vaso di papaveri, margherite e peonie conservato al Ministero della Cultura olandese, in prestito permanente dal Museo di Otterloo (immagine a sinistra). Evidentemente non è quello il quadro sparito. L’equivoco è nato dal titolo fatto girare da qualche agenzia: un vaso di papaveri. In realtà il quadro è un altro, Vaso di viscarie e altri fiori (che potrebbero essere in effetti due papaveri), dipinto negli stessi mesi del 1886 (immagine a destra). È il momento in cui Van Gogh sente con più intensità l’influsso di Monticelli, il grande e oscuro maestro marsigliese a cui lui guardava con l’occhio devoto del discepolo. Questo era il vero indizio (il nome di Monticelli era fatto in qualche dispaccio di agenzia) che poteva aiutare a riconoscere il quadro, con quei toni terra che discendono proprio da Monticelli. Per altro la tela non è piccola come è stato scritto ma è di 65 x 54 cm.

La cosa curiosa è che se su Google si fa ricerca in italiano esce l’immagine sbagliata. Se la si fa in inglese ece invece il quadro giusto. Vorrà dir qualcosa? Soliti peccati di superficialità…

Written by gfrangi

Agosto 23rd, 2010 at 10:02 pm

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Il cielo senza fine di Tiepolo

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Un 20 agosto a Würzburg, Bassa Franconia, sguardi all’insù sotto l’immensa volta (30 metri per 19) dipinta da Tiepolo nel 1752. È molto di più di quanto uno si aspetti. Ecco qualche riflessione, provando a razionalizzare.

Innanzitutto, è un soffitto che non ha un confine: certo, c’è il cornicione, ma Tiepolo lo ha usato come piano d’appoggio per le raffigurazioni dei quattro continenti. Quindi è come un balcone continuo, popolato da immagini travolgenti e dietro cui si profilano paesaggi lontani. L’escamotage enfatizza l’immensità. Al centro c’è un enorme cielo che sembra salire sino all’infinito, cosicché quello che potrebbe sembrare un grande vuoto centrale, diventa uno straordinario pieno. È uno dei più bei cieli che abbia mai visti dipinti, denso, con nuvole potenti, tanto da trasformarsi in terrazze per gli dei in rosa che le popolano; un cielo con striature di una bellezza che commuove. Un cielo di una bellezza senza ritegno, immaginato come una spirale di paradiso, in cui il dato di natura è riproposto ma non con occhio di uomo… Vorrei dire, questo è il cielo visto con l’occhio di Dio.

Poi colpisce il coraggio di affrontare un’avventura di queste dimensioni, di governarla, lasciando galoppare la golosità quasi ingorda della propria pittura, ma senza mai perderla di controllo. Non è un caso che sul lato forte della balconata compaiano tutti i protagonisti dell’impresa (l’architetto Neumann, il folle stuccatore Antonio Bossi; e lui, Tiepolo, con i due figli), nella consapevolezza di aver fatto qualcosa che non ha bisogno di aspettare un giudizio. È grandezza che parla da sé.

È una di quelle mete che una volta nella vita bisognerebbe mettere in agenda. La sorpresa del cielo senza fine che si spalanca man mano che si  esce dal vestibolo basso e si sale per lo scalone non è restuibile con nessuna foto…


Written by gfrangi

Agosto 22nd, 2010 at 10:06 pm

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Diario ticinese, con macchina digitale

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Bella la formula con cui Alias di sabato scorso ha raccontato il cantiere di una mostra da non perdere. Rinascimento nelle valli ticinesi si aprirà a Rancate il prossimo 10 ottobre. La curano Giovanni Agosti, Jacopo Stoppa e Marco Tanzi. Proprio Agosti ha tenuto il diario di sei mesi di vagabondaggi sul territorio, tra chiese, case private e palazzi per setacciare le opere da portare in mostra. È un diario continuamente contaminato da osservazioni extra artistiche, da incontri, da notazioni collaterali. Ma così si capisce come quei manufatti, spesso nascosti e dimenticati, non siano incapsulati in un passato lontano e di interesse solo per gli specialisti. È come se si “creaturalizzassero” di nuovo, mantenendo la loro identità periferica. Gli sguardi sono a volte sorpresi, a volte severi («Como, San Fedele. l’affresco di Giovanni Andrea De Magistris, la sua prima opera datata, 1504, è già modesto»). Ma sempre soccorre una simpatia verso questo sistema di produzione artistica che non tralasciava neanche il lembo più dimenticato del nostro territorio (ad esempio: Cuzzago, frazione di Premosello Chiovenda, bassa Val d’Ossola, 326 abitanti: «Il Compianto sta in un ambiente laterale, protetto da una tenda rossa. Moquette rosa domestica per terra. Gentilezza di don Simone. La Madonna restaurata gratis da Gritti è svincolata dal contesto, quasi una creatura di Bernini. Sembra ridere e provare piacere. Per don Simone perché sa il destino di Gesù, per noi perché ha vissuto. Altre due statue, il san Giovanni e una Maria, sono restaurate: erano quelle esposte a Milano. Grandezza di Giovanni Angelo Del Maino»).

Dimenticavo: il diario non è solo a parole. È visivo. La macchina fotografica digitale, scrive Agosti, «ha mutato, dall’interno, lo sguardo e fatto funzionare diversamente i relais delle memorie: si tratta di uno stacco epocale di cui è necessario prendere consapevolezza». (La regola per le immagini è uguale a quella che vale per il diario scritto. Così ci scappa una foto di una tv accesa su un film di Paul Newman, immagine presa nella casa di un collezionista comasco, dal 1996 immobilizzato dalla sclerosi multipla).

Written by gfrangi

Agosto 12th, 2010 at 2:23 pm

Hanno fatto il lilfting ad Antonello

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Il ministero dei Beni culturali festeggia un dato positivo di ingresso ai musei italiani nel primo semestre 2010. Più 12,20% annuncia il manifesto. Il dato è relativo ai musei statali. Il numero complessivo è di 18.430 mln di visitatori, con un numero davvero spropositato di visitatori a ingresso gratuito (11,552 mln, più 16,5%). Sarebbe interessante capire chi c’è in questo esercito di “portoghesi”: tutti under 18 e over 65?

Sin qui i numeri. Un po’ confusi ma positivi. Il gran pasticcio avviene con l’immagine che accompagna la comunicazione. È il Ritratto di personaggio maschile, con berretta rossa di panno in testa, che però è conservato alla National Gallery di Londra. Davvero strana la scelta: quasi che nei musei italiani mancasse un quadro adeguato a desiderata di questi demenziali comunicatori. Che in realtà non si sono limitati a questa scelta davvero improvvida, ma si sono permessi di ritoccare in photoshop il quadro di Antonello per correggergli a tradimento la bocca, intervenendo sulle labbra che nel manifesto sembrano quelle dipinte da uno dei madonnari da strada (immagine a destra). Il tutto per assecondare (immagino) la geniale idea di accendere un sorriso sul volto del misterioso personaggio.

Se proprio volevano un Antonello con il sorriso ce l’avevano a portata di mano in territorio italiano, al Museo Madralisca di Cefalù (Ritratto di ignoto marinaio, con un leggendario e beffardo sorriso stampato sul viso).

Written by gfrangi

Luglio 30th, 2010 at 8:58 am

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La frontalità di Giacometti

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Sono stato a Vence alla mostra dedicata al rapporto tra Giacometti e Maeght. Non c’erano cose che non si fossero mai viste (tolte un paio, vi dirò più avanti), ma Giacometti ti fa sempre l’effetto di non averlo mai visto prima. Ragionandoci, mi sono dato una risposta: è la frontalità come regola ferrea a cui lui sottosta. Le sue figure sono sempre prese in faccia. non guardano altro che lui mentre dipingeva e te che sei lì come visitatore. Ti guardano, e l’intensità della loro posa è tale che lo sguardo sembra proprio per te. È come essere arrivati finalmente ad un appuntamento da cui non si può scantonare. Non sono sguardi che abbiano pretese; ma accadono nell’istante in cui tu li incroci. Per questo in Giacometti non c’è mai l’effetto di cose già viste.

Cosa rechino quegli sguardi, poi sarebbe la vera faccenda da esplorare. Per me sono tesi a un punto ben preciso, che non è affatto vuoto come una lettura sciattamente esistenzialista vorrebbe far credere. Non sono tesi a un vuoto, a un non so che lontano. Dovessi dirla in breve, proverei così. Sono sguardi regolati non da un riferimento spaziale, ma temporale. Un tempo in cui gioca in realtà qualcosa che ha a che fare con l’eterno. E l’eterno con il destino.

Per questo la frontalità è condizione sine qua non. Proprio come per i bizantini. Non vedi quello che guardano, ma intuisci verso cosa guardano. Così Giacometti. Che nei quadri (che meraviglia la sala dei ritratti a Vence! Nella foto quello a Jean Genet, 1955) tiene due punti fermi. Verso i margini riquadra lo spazio della tela, come fosse uno spazio protetto, ritagliato, in un certo senso sacralizzato. Secondo punto, intorno alla testa delle sue figure spalma sempre un alone anche disordinato di colore. in genere più scuro. Come volesse proteggere il magnetismo intenso che lo sguardo genera. Oppure come fosse un effetto di ritorno, restituito da ciò che si è guardato. Un po’ com’era accaduto a Mosè che si era trovato il volto acceso dall’oggetto del suo sguardo.

Ps: le cose che non ricordavo di aver mai visto. Un gruppo di stupefacenti disegni del 1918 (a 17 anni, e già c’è lo schema del riquadro  lungo i margini del foglio); e la Maison Blanche, paesaggio parigino  “vuoto” del 1958.

Written by gfrangi

Luglio 21st, 2010 at 6:09 am

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Hangar Bicocca, la Milano esclamativa

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Sono stato all’Hangar Bicocca. Quasi alle nove di sera, con la luce che cominciava a calare quel pezzo di Milano, dagli spazi immensi, dava l’impressione di una grande contemporaneità ordinata. Anche l’antipaticissima università di Gregotti, appare bella nella scansione precisa e regolarissima delle finestre quadrate e bianche sull’intonaco rosso. Il tutto fa davvero grande metropoli globale, ma attraccata all’eleganza interiore del proprio passato. Milano davvero a volte lascia a bocca aperta.

L’Hangar s’innesta perfetto in questo tessuto, con la grande Sequenza, monumento musicale di Melotti che è la cifra di questo ordine contemporaneo. Dentro la location è grandiosa. E le sette torri di Kiefer sembrano un inno tragico urlato sotto le capriate immense del capannone. Sono giganteschi spezzoni da day after. Sembrano traballare sotto il peso della loro stessa grandezza, ma alla fine l’insieme s’impone, come fossero le note di un ultimativo Dies Irae. Davvero una delle grandi cose dell’arte degli ultimi decenni, senza nulla di calligrafico e senza orpelli politicamente corretti.

Il brutto dell’Hangar vien per chi deve reggere il confronto. Se poi chi ci prova è uno che punta tutto sulla retorica scenografica e sentimentale come Boltanski, il disastro è fatto. L’arte di B. si dimostra tutta letteraria, evocativa nell’ipotesi e velleitaria nelle forme. Boltanski incorpora il limite per me più insopportabile di tanta arte contemporanea: quella di non farsi i fatti suoi e di voler fare le prediche al mondo (che siano prediche anche del tutto corrette nelle intenzioni, non cambia la sostanza. Le prediche ai preti). Oltretutto questo è anche un Boltanski di risulta…

Ultima osservazione: tanta energia di questo luogo è gestita in modo farraginoso. Dalle scelte dei curatori, all’organizzazione del luogo (chiude alle sette di sera, pur ospitando all’interno un bellissimo bar), tutto sembra non  all’altezza. Meno male che c’è Kiefer. (Comunque andateci, magari il giovedì sera, unica sera di apertura sino alle 22…)

Written by gfrangi

Luglio 15th, 2010 at 10:17 pm

I sei jolly di Giorni Felici

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Non dovrei parlarne perché sono in piccola parte parte in causa. Ma la passione e l’entusiasmo sono contagiosi e quindi rompo la convenzione. Ma Giorni Felici a Casa Testori quest’anno ha una carica di energia che va al di là del previsto. Mi sono chiesto il perché e me ne sono venute queste spiegazioni.

1. Il luogo. Ovvio, è bellissimo ma insieme assolutamente normale, con quell’affaccio su strada e ferrovia. È un luogo di sutura tra la vita di ogni giorno e la discese in profondità che gli artisti per destino affrontano con il loro lavoro.

2. Il fatto di essere casa. Addomestica i linguaggi. Quello che fuori di qui può apparire imprendibile o addirittura scostante, invece si presta (si china…) a essere decifrato e poi interpretato con la sensibilità di ciascuno.

3. Le stanze. Gli spazi bene definiti e separati, con i corridoi lasciati liberi, esaltano le individualità senza spegnere la corrente di scambio da una stanza all’altra.

4. Le donne. C’è una triade di presenze a Giorni Felici 2010, che secondo me marca in modo decisivo  tutta la mostra. È quella formata da Julia Krahn, Pippa Bacca e Rossella Roli. Lo marca perché tutt’e tre mettono a nudo la vita con una sincerità e una poesia a cui è difficile resistere. Arrivano al cuore, ciascuna per strade sue. Per due di loro poi la presenza in una casa in cui s’era consumato il rapporto tra Testori e sua mamma, è stato proprio questo tema a esplodere. La doppia foto di Julia e le valigie, che contengono e raccontano pezzi di vita, di Rossella Roli, scavano sui rapporti con le rispettive madri. Un modo con cui un tema, che è di sempre, torna a galla usando la spericolatezza dei linguaggi contemporanei. (…e il Verdi che scopre il suo coté femminile, tutto in rosa, sulle scale, sembra mettersi in scia)

5. Il blocco dei grandi. C’è un’altra triade che sfonda. È quella formata da Enzo Cucchi, Armin Linke e Gianni Dessì. Nelle loro stanze Giorni Felici assume lo spessore e la tenuta quasi da sale da museo. Si è avverte, una strutturazione mentale, un peso specifico diverso, senza che ciò alteri l’equilibrio dell’insieme. C’è una tensione verso la grandezza, che a Testori, come tensione, certamente apparteneva. A loro va aggiunto il grande tocco di classe e simpatia di Alessandro Mendini. La sua stanza è un gioiello felice, con quella giostra di forme e di colori che danno allegria senza frastornare. Non ci si muoverebbe più da lì

6. Il pendolarismo alla rovescia. L’energia attrattiva della Casa chiama “fuori” il pubblico dalla città. È un fatto non scontato. Perché è molto raro che Milano senta bisogno di uscire dal suo territorio, specie se in gioco c’è una materia, l’arte contemporanea, che in città spunta fuori dappertutto. La Casa rappresenta una riscossa del territorio, retrocesso in genere a backstage della città. Il fatto che la chiesa di vetro fotografata da Linke sia lì ad appena un paio di chilometri, capolavoro con oltre 50 anni di vissuto sulle spalle, rende ancora più chiara questa voglia di scombinare gli stereotipi. Non si tratta più di consolare con belle cose un territorio, ma di riaffermarne con orgoglio, la vitalità e l’energia. Direbbe Aldo Bonomi, che questa è la rivincita della città infinita.

Date un occhio qui per farvi un’idea

Written by gfrangi

Giugno 25th, 2010 at 11:15 am