Riflettevo leggendo le cronache dalla Biennale architettura (premetto che la curatrice 2010, Kazuyo Sejima mi sta simpatica a pelle: sobria, goffa e poco mediatica): tutto il problema dell’architettura di oggi si esaurisce nell’opposizione tra soluzioni iperspettacolari da archistar, e soluzioni micro per rispondere alla domanda di un inquilino borghese à la page che vuole sentirsi la coscienza pulita (quindi sensibile all’abitare eco sostenibile). Quella che manca è un’idea della casa per noi, uomini comuni: popolo si sarebbe detto una volta. C’è architettura e pensiero architettonico per tutti tranne che per noi.
I motivi sono vari. Primo, perché manca una capacità di sguardo e quindi d’amore per la gente comune. La persona comune non interessa se non come destinataria di sogni non realizzabili, che tutt’al più ne ingolfano l’immaginario. Secondo, perché anche in architettura l’apparenza prevale sulla consistenza reale. Terzo, perché non ci sono grandi idee in giro e ce la si cava con gli effetti speciali, nel macro come nel micro.
Per questo mi ha colpito un servizio apparso sull’ultimo numero di Casabella (sfogliatelo anche online) che racconta e illustra la grande esperienza del Pedregulho di Rio de Janeiro, progettato da Affonso Eduardo Reidy (1946-1958). Un complesso enorme, costruito per accogliere centinaia di famiglie, dotato di tutti i servizi e gli spazi comuni per rendere vivibile la vita, seppur dentro una dimensione di massa. Disse il suo progettista: «Bisogna ottenere non soltanto il comfort ma anche la bellezza indispensabile a qualsiasi vita umana decente» (e si inventò quei semplici ballatoi – loggiati, con pareti di mattone forato a diverse geometrie: bellezza declinata con semplicità).
Inutile dire che Eduardo Reidy tenne una corrispondenza fittissima con Le Corbusier, che negli stessi anno e con le stesse preoccupazioni stava costruendo la sua Unité d’habitation a Marsiglia. Architettura come monumento alla vita quotidiana.