Robe da chiodi

A proposito di patrimonio, da Palazzo Reale a Prato

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Torno alla vecchia consuetudine degli appunti domenicali, contando di essere puntuale…

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A PROPOSITO DI PALAZZO REALE
Non ho visto le mostre in corso appena aperte. Posso solo dire che non mi piace l’enfasi sul fatto che a Milano sia arrivato il N.27 del Whitney museum di NY: ricordo che lo stesso quadro aveva fatto la trasvolata oceanica nel 2002, sempre per arrivare a Palazzo Reale… Ma non è di questo che mi interessa parlare. Nei giorni scorsi a Casa Testori abbiamo proiettato un documentario ritrovato, realizzato su testo di Testori in occasione della mostra sulla Ca’ Granda a Palazzo Reale. Ora, a parte l’emozione di rivedere quell’allestimento stupendo, la cosa che mi ha colpito è la facciata di Palazzo Reale. L’immagine presa dal filmato purtroppo è quel che è, ma rende bene l’idea: un allestimento semplice ma elegantissimo (la grafica era curata da Bob Noorda) che occupava tutta la comunicazione dell’ingresso. Guardate cos’è oggi (e non solo oggi) la facciata di Palazzo Reale: una macedonia di francobolli per annunciare mostre che non hanno quasi mai nessun nesso l’una con l’altra. Io credo che l’importanza di una sede espositiva la si colga proprio da questi particolari: allora Palazzo reale aveva ancora una sua immagine e una sua funzione. Sapeva scegliere “la mostra” senza condannarsi all’ammucchiata di mostre. Sapremo ritornare lì?

COS’È IL PATRIMONIO
Ho trovato questa definizione molto bella nel libro appena uscito, scritto da Montanari, Settis, Alice Leone e Paolo Maddalena (Costituzione incompiuta. Arte, paesaggio, ambiente, Einaudi): «Il patrimonio non è la somma amministrativa dei musei, delle singole opere, dei monumenti, ma è la guaina continua che aderisce al paesaggio, cioè al territorio della “nazione” – come la pelle alla carne di un corpo vivo».

L’OFFICINA PRATESE
Deve essere davvero bella la mostra in corso a Prato sul primo rinascimento nella città della Cintola. È un affondo in quel 400 che cerca di trovare aria e nicchie in cui vivere dopo la terrificante accelerazione impressa da Masaccio. Ma il ragionamento che me ne veniva era questo. Prato è un lampante esempio di cosa significhi “Italia”. Nel 1140 arrivò qui la Cintola, unica reliquia di Maria. Un striscia tessuta in lana di capra e tinta di verde. Un manufatto prezioso. Sarebbe bello indagare il nesso tra la presenza di questa reliquia veneratissima e la fortuna di Prato come città del tessile, fortuna da cui deriva tutto quel che oggi si vede in mostra. È il circolo virtuoso fede-economia-produzione artistica il segreto dell’Italia. O meglio delle “Italie” (questo è il patrimonio, generato da un “corpo vivo”).

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Settembre 29th, 2013 at 10:53 am

Antonello contro Antonello

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Antonello, Annunciazione, Siracusa, Palazzo Bellomo

Antonello, Annunciazione, Siracusa, Palazzo Bellomo

(versione integrale della presentazione della mostra di Antonello al Mart scritto per Panorama)

Antonello contro Antonello. A distanza di appena sette anni, una delle star del nostro 1400 torna protagonista di una grande mostra. Una prossimità cronologica che certo incuriosisce, visto che per rintracciare un’altra rassegna dedicata al genio messinese bisogna risalire al 1953, anno della leggendaria esposizione allestita a Messina da Carlo Scarpa. Ma la mostra di Roma 2006 e questa che si apre il 5 ottobre al Mart di Rovereto non sono soltanto molto diverse per impostazione. È profondamente diverso, soprattutto, l’Antonello che ne esce.
Basta mettere a paragone gli elenchi delle opere esposte per rendersene conto. A Roma Antonello era presenza assolutamente egemone, al Mart invece Antonello dialoga con tante figure rappresentative dei suoi anni, compresi grandi come Van Eyck, Jean Fouquet. A Roma era prevalsa l’idea dell’artista che nasce da se stesso, genio e quindi un po’ feticcio; la nuova mostra invece rilancia l’immagine di un artista nato dentro un crogiuolo straordinario di relazioni, che vanno dalla pittura fiamminga, passando per gli influssi valenciani e borgognoni sino all’incontro con la rivoluzionaria visione introdotta da Piero della Francesca. È l’Antonello nato dalle intuizioni e dagli studi del più grande storico dell’arte del 900, Roberto Longhi: cioè l’artista che meglio sintetizza la civiltà della circolazione mediterranea.
In occasione della mostra di Roma questa interpretazione longhiana era stata accantonata, suscitando perplessità e anche qualche stroncatura furiosa; al Mart invece la si rilancia, supportata da nuovi studi. Non a caso come curatore è arrivato Ferdinando Bologna, grande storico dell’arte, che era stato collaboratore di Longhi e che ha accettato la sfida con entusiasmo ed energia, a dispetto dei suoi 88 anni. Insieme a lui, a firmare la mostra, c’è un altro studioso di cultura longhiana, ma di un paio di generazioni più giovane, Federico De Melis. In catalogo (Electa), anziché il consueto saggio, ci sarà una sua lunga intervista a Ferdinando Bologna. Il titolo è molto indicativo: “Antonello e gli altri”
«Antonello è un pittore congiunturale», sottolinea De Melis. «Per questo il percorso della mostra si annuncia multistrato, ricco di incroci, con tante opere che vogliono documentare puntualmente tutti gli scambi da cui Antonello ha tratto linfa per dar vita alla sua meravigliosa poetica». Si approfondiscono i contatti determinanti degli inizi palermitani, città di cultura internazionale, come dimostra lo straordinario Trionfo della Morte oggi a Palazzo Abatellis; si scoprono le correlazioni con un grande artista mediterraneo come il Maestro di San Giovanni da Capestrano, presente in mostra con uno straordinario Sant’Antonio. Non manca naturalmente un riferimento a Piero, vera pietra angolare della visione longhiana, evocato da un Ritratto di Alfonso d’Aragona (dal Musée Jacquemart-André di Parigi), probabile replica di un originale perduto del genio di Borgo Sansepolcro: proprio a Napoli, secondo Fedrinando Bologna, potrebbe esserci stato l’incontro tra lui e Antonello.

Written by gfrangi

Settembre 26th, 2013 at 10:09 pm

Il Papa e Caravaggio

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(Questo brano è tratto dall’intevista di Papa Francesco ad Antonio Spadaro direttore di Civiltà Cattolica. Così bello da non aver bisogno di nessun commento)

«…venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi. «Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No questi soldi sono miei! Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a pontefice».

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Settembre 19th, 2013 at 7:16 pm

La “grecitudine” di Piero

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Ultimo scampolo del resoconto estivo. Tappa ad Urbino.
Per capire cosa sia l’Italia bisogna una volta provare a starsene la sera seduti sul sedile di pietra del Palazzo del Duca, con la piazza davanti e il muro a far da schienale, con le finestre perfette ritagliate da Laurana nel muro grezzo, con quei portali pensati per far entrare e non per tener fuori, circondati da spazi così esatti e così abitabili. Si fa esperienza di una bellezza assoluta ma inclusiva, perfetta ma piena di respiro, impeccabile ma dentro il tempo.

Poi, di giorno, si varca il portale (l’unico che dà accesso al palazzo, e non è quello al centro: quando Francesco di Giorgio padroneggiava il progetto non temeva le asimmetrie). E oltre il portale c’è sempre Piero ad attenderti.
Sulla Flagellazione, crocevia di tutti i misteri, ho riletto il libro di Carlo Ginzburg e letto quello di Silvia Ronchey (nel sito ben fatto, tutto il dibattito sollevato dal suo libro). Sulla scia dell’intuizione di Kenneth Clark (1951; ma anche Longhi aveva capito che si dovesse andare in quella direzione) lavorano con dovizia di indizi, di suggestioni e di ipotesi attorno all’ipotesi del quadro come metafora della questione “bizantina”: quadro connesso con il tentativo estremo (Concilio di Firenze e di Ferrara 1435) di riagganciare il destino dell’occidente con quello dell’oriente; con il tentativo assai più patetico (concilio di Mantova, 1459) di rimediare al disastro della caduta di Bisanzio e di consumare una tardiva vendetta (la fallimentare Crociata di Pio II). La Flagellazione dunque come metafora della chiesa d’oriente umiliata; Giovanni Paleologo, che segue impotente, sarebbe nei panni di Pilato; il turco di spalle interpreta la prepotenza dei vincitori. La metafora proseguirebbe nei personaggi di destra, registi del piano impossibile di riportare indietro la storia: il cardinale ex greco ora latino Belisario, a sinistra; il più giovane dei Paleologhi, Tommaso, senza i calzari rossi simbolo del potere imperiale, al centro; e il duca d’Este, regista italiano, a destra (ipotesi Ronchey).
Per quanto sia affascinante la ricostruzione di questo reticolo entro cui si troverebbe la formula segreta che spiega il quadro, restano ancora tanti passaggi non convincenti. Ma alla fine delle letture si scopre una cosa ancora più importante: che lo scavare in quell’intuizione di Kenneth Clark fa capire davvero qualcosa di Piero che aiuta a decifrarlo. Quel qualcosa è la sua “grecitudine”.
Sono molto belle le pagine della Ronchey in cui ricostruisce l’invasione di Firenze (arrivarono in più di 700) da parte di quell’elite intellettuale della chiesa d’Oriente: ultimi, grandi interpreti della tradizione platonica (il leader più autorevole e anche oltranzista si chiamava Pletone; i personaggi principali sono tutti nel Corteo dei Magi di Benozzo a Palazzo Medici). Piero giovane era lì in quei mesi, ed è in quel crogiuolo transnazionale che aveva probabilmente messo a fuoco il pensiero che avrebbe strutturato la sua visione.
Piero è l’eccezione “greca” dentro un ‘400 che era tutto (ovviamente) appoggiato sulla romanità. L’“arma assoluta” (Clark) della prospettiva per lui non è strumento di aggressione dello spazio (Donatello, Mantegna), ma di ricerca del punto assoluto, in cui il tempo diventa un congegno dell’eterno. Quella capacità di cristallizzare la realtà ha qualcosa dell’automaticità delle icone. In realtà Piero non ha nulla di automatico, ma è tutto altissima capacità di controllo. Eppure quella calma, quella distanza dalla scena cruenta della vita (di cui pur non ci risparmia nulla) sembra davvero frutto di quella fascinazione “greca” che aveva fatto sua.

Written by gfrangi

Settembre 2nd, 2013 at 10:39 pm

Paolo Rosa, poeta ad alta tecnologia

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Paolo Rosa, particolare dell'installazione al Padiglione vaticano alla Biennale

Paolo Rosa, particolare dell’installazione al Padiglione vaticano alla Biennale


L’ultima volta che ci siamo visti, scherzando, l’ho salutato chiamandolo “monsignor Rosa”. Lui ha abbozzato un sorriso. Sapeva che quello che poteva sembrare uno sberleffo, in realtà nascondeva un complimento. Paolo Rosa, morto improvvisamente mentre era in vacanza a Corfù, era uno dei tre artisti a cui il Vaticano ha chiesto di partecipare al Padiglione della Biennale veneziana inaugurata a giugno. Un Padiglione storico, perché per la prima volta la Santa Sede si affacciava sul palcoscenico più ambito e discusso dell’arte contemporanea. Paolo Rosa, oltre ad essere l’artista di straordinarie capacità innovative, era laico, e con una storia chiaramente di sinistra. Eppure aveva preso quell’invito straordinariamente sul serio, lavorando a fondo sul progetto che prevedeva una riflessione sul tema della Creazione e del primo capitolo del Genesi. Chi ha potuto vedere a Venezia il Padiglione a Venezia (ma c’è tempo sino a novembre) si è trovato davanti tre schermi giganteschi ad altezza terra su cui vengono proiettate immagini di persone che camminano in uno spazio indefinito. Se lo spettatore appoggia la mano su una delle figure, questa si ferma e si rivolge verso di lui “pronunciando” alcune parole. Nel terzo schermo, il più emozionante e commovente, i protagonisti sono alcuni detenuti del carcere di Bollate. Quando vengono toccati si fermano e appoggiano entrambe le loro mani sullo schermo pronunciando il proprio nome, quello dei genitori e dei genitori dei genitori. Cosa voleva dire Paolo Rosa raccontando in questo modo la “creazione”? Che l’uomo è creato proprio per pronunciare il proprio nome, per dire «io», come ha giustamente suggerito il nostro No Name in un reportage dalla Biennale.
Pensare che un artista laico come lui, sia arrivato a formulare un’idea così profonda e così religiosamente vera, rende bene il profilo di Paolo Rosa. Scherzando sul suo cognome, nel 1982, insieme ad alcuni amici aveva fondato Studio Azzurro (guradte che bella l’home page in suo ricordo), un gruppo che ha segnato la storia dell’arte visiva in Italia. Erano un gruppo perché le competenze diverse erano necessarie per la loro sfida: quella di padroneggiare le nuove tecnologie, per usarle come strumento di espressione artistica. Paolo Rosa nel gruppo era la testa pensante. O meglio il cuore poetico che si preoccupava sempre di riportare anche l’esito più innovativo e ardito dentro il binario di una comunicazione che colpisse ed emozionasse il visitatore. Insomma, pur usando uno strumento d’avanguardia, non era mai presso dalla febbre di stupire, sconcertare, provocare.
La tecnologia video nelle sue mani era diventata uno strumento per indagare in profondità la bellezza dei corpi e della realtà. Per «progettare opere che si prolunghino nei gesti delle persone e che rimettano in gioco valori etici di grande importanza» (parole sue). In questo modo Paolo Rosa ha reinventato anche il modo di concepire un certo tipo di mostre, rivitalizzandole, come accadde in occasione della stupendo omaggio fatto a Fabrizio De André a Palazzo Ducale a Genova.
Paolo Rosa era nato a Rimini, ma aveva sempre lavorato e vissuto a Milano. E di Milano ha incarnato l’anima migliore: la capacità (istillata da Leonardo nei suoi 22 anni di permanenza) di far camminare insieme l’arte con la scienza e la tecnologia. A questa capacità ha aggiunto la poesia del suo sguardo, sempre pronto a riempirsi di meraviglia di fronte allo svelarsi della realtà.

Written by gfrangi

Agosto 22nd, 2013 at 11:14 am

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Toccata e fuga nell’Italia bollente/4. Assisi e le sue donne

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Non ci tornavo addirittura da prima del terremoto 1997. Basilica tenuta benissimo, tolte alcune orrende inserzioni contemporanee (il gigantesco crocefisso che copre la Crocifissione gemella a quella di Cimabue nella Basilica superiore). Il primo strappo emotivo lo spetimento davanti alla Deposizione di Lorenzetti, uno di quei vertici toccati i quali un artista si può considerare sazio per tutta la vita, come quei record del mondo ottenuti oltre i propri limiti per un incrocio di condizioni assolutamente uniche (e irripetibili). Lo snodarsi del corpo di Cristo, allungato su tutto lo spazio a disposizione è una di quelle invenzioni che non ti levi più dalla testa.
Nella Basilica Superiore le ferite del terremoto sono dure a vedersi, ma con il libro di Serena Romano tra le mani, è straordinario constatare dal vivo capire come i due riquadri con le storie di Isacco diano un’accelerata che è rottura drastica con lo schema che funzionava sino al riquadro a fianco. È un linguaggio quasi shakespiriano che improvvisamente irrompe, con una ricchezza di sottolineature drammatiche precise e già straordinariamente moderne (basti il particolare di Rachele che si volta e viene presa di spalle, per non assistere allo spodestamento di Esaù di cui è stata per altro la regista; Giacobbe, un po’ pavido, invece se la fila e spunta aldiqua della scatola spaziale prevista). Se è Giotto, certo è un esordio con grancassa.
Sotto, Giotto (e che se non uno di quella statura?) gioca a bucare lo spazio, a costruire scatole una via l’altra, a creare prospettive che scappano, che si rovesciano, che sfondano anche in verticale. Un fuoco di invenzioni controllate con la massima saldezza di polso. Mai un’incertezza, mai una soluzione lasciata nell’ambiguità: il lato destro della navata è uno dei più grandi e affascinanti film che la storia dell’arte ci abbia lasciato.
Assisi, fuori è città in ordine, con le insegne dei negozi giustamente tenute incassate e i profili delle vie tenuti quindi puliti (basta un criterio elementare come questo per garantire la tenuta di un contesto).
Insieme a Francesco è sepolta anche Jacopa dei Settesoli, l’amica perugina a cui aveva chiesto di arrivare e portare i suoi biscotti quando era in punto di morte. Ci sarebbe stata bene anche Chiara, che come ben si sa Francesco non aveva problemi a mixare i generi. Invece Chiara è sotto la sua basilica, in una cripta sciaguratamente ristrutturata, con gusto e soluzioni da far accapponar la pelle: persino quella straordinaria texture che spunta ovunque ad Assisi (una vera metafora della città) a partire dalla Basilica Inferiore, con il quadrato rosso fasciato da cornice bianca che raddoppia il quadrato stesso, viene adulterata con rotazioni e sfumature di sapore new age. Peccato, la grande, libera, appassionata Chiara (per capirla basta vederla nella scena del funerale di Francesco: donna che corre ad abbracciare il corpo dell’amico santo), Chiara non meritava questo.
(E vi risparmio quel che hanno fatto nel chiostro di Santa Maria Degli Angeli, con le lunettone affidate a un pittore che ha trasposto le immagini del kolossal, dove Chiara diventa una sciatta eroina di una mediocre saga mediovaleggiante)

Written by gfrangi

Agosto 17th, 2013 at 10:42 am

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Toccata e fuga nell’Italia bollente/3. Piero ubiquo a Perugia

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Mercoledì 7 siamo a Perugia. Temperatura oscillante tra i 38 e i 40 gradi.
La mattinata è per la Galleria Nazionale: è un godere vedere un museo tenuto così bene, con un allestimento ben pausato che sa sfrutta al meglio i meravigliosi ambienti in cui è ospitato. Il Palazzo dei Priori è un capolavoro in cui si respira quella misteriosa e meravigliosa transizione che fa uscire l’Italia dal gotico e la consegna al primo Rinascimento. Unico neo della Galleria sono le didascalie, in corpo davvero troppo piccolo. In compenso le schedone che accompagnano le sale, spiegando volta per volta il senso, sono molto ben fatte e meriterebbero di essere messe anche sul sito, che invece, come in tutti i grandi musei italiani, è asfittico e sostanzialmente inutile.
Meraviglioso il salone iniziale, con il 200 perugino, con i resti della Fontana di Arnolfo da una parte e alcuni pezzi di quella di Giovanni Pisano dall’altro lato. Ma è proprio quel tema della transizione il mood della Galleria. Che raggiunge il suo apice nelle due sale con i polittici di Beato Angelico e di Piero Della Francesca. Dell’Angelico commuove quel trasformarsi del fondo oro, in sedile, ovviamente d’oro, per i santi. L’astrazione codificata che non tiene più alla spinta di ciò che il pittore davvero vede. Nello schedone si racconta anche quel che contiene il libro ostentato da San Domenico con dedica alla committente bibliofila.
Ovviamente ben più genialmente choccante è il polittico di Piero, che nella parte centrale mantiene, pur se con continue fratture linguistiche lo schema del polittico, mentre in alto irrompe con qualcosa di inaudito, come l’Annunciazione improvvisamente a cielo aperto, con una prospettiva profonda e di un’esattezza che toglie il respiro (l'”arma assoluta” di Piero l’aveva definita Kenneth Clark), e che si chiude con quell’arco sigillato da una chiusura marmorizzata a simbolizzare l’avvenuta incarnazione.
Ma sono le forzature del polittico i particolari che più stregano: le aureole come dischi volanti, oggetti già da fantascienza, schegge arrivate da un’ipermodernità, in cui si specchiano le capigliature dei santi, compresa la tonsura di Sant’Antonio e San Francesco. Lo specchiamento invece risparmia il Bambino, la cui aureola è segnata dai raggi rossi di una croce. Ardito, e quasi provocatorio, l’inserimento dell’absidiola della Vergine nello spazio trapuntato del fondo oro; vagamente irrisorio lo sfondamento del basamento del trono, per pochi centimetri, nei su pannelli laterali. E si potrebbe continuare. Piero ti soggioga con la sua capacità di controllo e di transizioni continue che dovrebbero produrre contraddizioni e invece in lui approdano sempre ad unitarietà. Dolcezza e arditezza; passato e futuro, tutti sotto lo stesso cielo.

Visti a Perugia: Basilica di San Pietro; San Bernardino; Duomo; Collegio del Cambio con piccola mostra su Sassoferrato; affresco giovanile di Raffaello.

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2013 at 9:37 am

Toccata e fuga nell’Italia bollente/2. A Cortona, l’ala dell’Angelico e il meteorite di Francesco di Giorgio

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Martedì 6. Cortona

Museo Diocesano, Duomo, Chiesa di Santa Margherita (con via Crucis di Severini, a mosaico, lungo la rampa che porta alla chiesa); San Francesco; San Domenico, da cui veniva il Beato Angelico, Santa Maria della Grazie al Calcinaio).

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A vederlo dal vero capisci che è senza nessun dubbio uno dei grandi quadri della storia l’Annunciazione di Beato Angelico di Cortona. Un gioiello per come la perfetta e rarefatta griglia concettuale e compositiva lascia lievitare tanto sentimento e poesia. Non c’è in nessuna zona del quadro un allentamento di tensione, come capita in altre sue Annunciazioni (otto quelle assegnate a lui). L’Angelo si presenta carico e teso come una fionda, con l’incredibile linea delle sue ali, immense che forano con un’energia quasi indelicata lo spazio sotto l’arco. Ma sono rese agili e leggere da linee dinamiche degne di un progettista aeronautico.
Inaudita davvero la bellezza della veste dell’Angelo, un rosa trapuntato d’oro che toglie il respiro.
E poi c’è la colonna che arditamente regge la costruzione e la divide. Cito da Didi – Huberman: «…la colonna non serve quindi soltanto a sostenere l’edificio della storia. Essa è un luogo emblematico del mistero. A Cortona cela nella sua bianchezza luminosa le parole “FIAT MIHI SECUNDUM…” della Vergine, le parole dell’istante stesso in cui tra libero acconsentimento e profezia il Verbo si incarnerà. Essa segna in quanto soglia, sia la distanza invalicabile sia il misterioso percorso tramite il qaule l’Incarnazione riuscirà a varcare qualsiasi soglia immaginabile».

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Tappa finale cortonese a Santa Maria della Grazie al Calcinaio, una chiesa fuori dimensioni oltre che fuori dalle mura, progettata da Francesco di Giorgio Martini. Sembra un meteorite che invece di piovere dal cielo sia affiorato prepotentemente dal cuore della terra e della storia. Una rivisitazione della più grande architettura romana, senza timori o riverenze. Un atto di appartenenza quasi sfacciato, in cui si dichiara e si rende palese il proprio dna. Interno equilibrato son le fasce di arenaria che disegnano muovono e riordinano gli spazi; esterno imperioso, con le finestre a profonda strombatura, che danno valore al volume dei muri. Quasi inquiertante il grande rosone, che si mangia lo spazio come se fosse stato scavato da una macchina perforatrice per tunnel.

Written by gfrangi

Agosto 11th, 2013 at 2:05 pm

Toccata e fuga nell’Italia bollente/1. Alvar Aalto a Riola, grazie per tanta grazia

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Torno dopo un silenzio un po’ prolungato, di cui mi scuso…
Quelle che seguiranno, a puntate sono note di un viaggio – scorribanda dal 5 all’11 agosto in Centr’Italia.

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Lunedì 5.
Passaggio a Riola, Appennino bolognese. Si esce dall’autostrada a Rioveggio, si sale a Grizzana Morandi, terra dolce, secca e monocorde: tutto dice di Morandi. Si scende verso la Porretana e si arriva là dove non ti aspetteresti mai di pensare uno sei grandi architetti del 900, per di più finlandese all’opera. A Riola infatti, giace, a fianco del letto del Reno, la chiesa di Maria Assunta, tra le ultime opere di Alvar Aalto, la sua prima chiesa cattolica, voluta negli anni 60 dal Cardinal Lercaro, completata lentamente negli anni 80 (qui ne potete vedere delle immagini). Il fatto che sia inaspettata è importante per comprenderla. Solo una chiesa costitutivamente umile poteva non solo sorgere, ma anche essere pensata in quel luogo. È una chiesa a cui in partenza è impedita ogni possibile enfasi. E così si resta ancora oggi un po’ sorpresi che Aalto abbia accettato sfida. Ma i pensieri preventivi sono quasi sempre pensieri sbagliati. La chiesa nella sua povertà è bellissima. A cominciare da quella facciata tutta compatta, di pietra arenaria color caldo, senza nessuna finestra. Una superficie che finisce in alto con il motivo a sorpresa della parete ritagliata con la leggerezza di un Matisse. Sono come quattro onde, a curvatura lievemente differenziata che rifluiscono leggere verso destra, dando l’impressione di un’architettura non statica ma in cammino. C’è molta grazia in questa soluzione povera, ma c’è anche molta modernità. La parete cieca ha qualcosa di drastico, come si trattasse di un sipario; per cui quel colpo d’ala in cima assume una funzione liberatoria, naturalmente sempre con discrezione.
L’interno non tradisce, luminoso, svela la funzione di quelle forme così fluide sulla facciata: ognuna prosegue aprendo grandi fasci di finestre in alto. A reggere l’insieme ci sono i grandi archi prefabbricati ma ognuno con una diversa curvatura. È un luogo ci sui si sta come a casa. Architettura grembo, che tien ben presente che la Chiesa è sempre un’architettura con un centro.

Written by gfrangi

Agosto 11th, 2013 at 1:32 pm

Biennale 2013. Cinque pensieri

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Le sculture di Hans Josephsohn

Le sculture di Hans Josephsohn


1. Non è una Biennale ambigua, nonostante l’ambiguità del suo proposito: dare spazio all’immaginario dell’uomo, come qualcosa che si autolegittima aldilà della sua forza e del suo effettivo valore. Gioni gioca allo scoperto proponendo un tema per sua natura enigmatico. Il bianco dell’allestimento, protratto anche nelle Corderie, sino a sradicare la straordinarietà di quei luoghi, ha questo senso. Almeno, credo. Gioni comunque si conferma come il miglior regista di mostre sulla piazza.

2. A volte l’immaginario, per fortuna, anziché emergere da mente “allagate” (in sostanza perse), spunta da menti infuocate o da menti ironiche. Sono i momenti migliori della Biennale. La sala di Maria Lassnig (austriaca, 1919), con quei corpi di donne feroci, verdi come rettili pronti all’attacco, sono come una scarica elettrica che è difficile dimenticare. È una che passa dall’immaginario all’azione. Di una classe superiore la fantasia di Fischli e Weiss con le loro centinaia di statue in plastilina, bizzarre creature che arrivano a cogliere le cose per percorsi che non t’aspetti (una per tutti: Herr and Frau Einstein shortly after the conception of their son, the genius Albert 1981).

3. Dal groviglio dell’immaginario umano spesso escono immagini insipienti, tutte calligrafiche ed educate, di outsider che si capisce perché sono rimasti tali. A volte però la mente (e la mano) umana sputa fuori forme selvagge, come compattate e plasmate da una prolungata occlusione. È la scultura a dare a tratti le cose migliori del percorso della Biennale: bella quella paurosamente antidiluviana di Cuoghi. Ma rombante e selvatico anche il popolo di pietre di Hans Josephshon (russo, 1920) o le meteoriti incatenate di Phyllida Barlow (inglese, 1944). Una fisicità che alla fine inghiotte l’esoterismo da sottoscala.

4. Il Padiglione Vaticano delude. Troppa preoccupazione di stabilire un discorso invece che di dare spazio ad esperienze. Troppo controllo della sceneggiatura, che alla fine neutralizza la poesia dei singoli. Si è andati sul sicuro, in fondo mettendosi un po’ su un pulpito e proponendo autori inattaccabili sotto ogni profilo. È un padiglione che si preoccupa di dar risposte invece che di accendere domande.

5. In conclusione, faccio mia una giustissima frase che mi ha mandato Paola M. in una mail in cui mi esterna tutte le sue perplessità su questa Biennale. È di don Michele Attanasio, nel suo libro Con gli occhi della sposa: «Il mistero non è l’inconoscibile ma l’infinitamente conoscibile». Ne farei un telegramma a Gioni, in piena amicizia (e anche a don Ravasi).

Written by gfrangi

Luglio 16th, 2013 at 9:59 pm