L’Italia va sempre setacciata con la massima attenzione. Ho avuto la chance di una giornata a Gubbio, e non c’è come il muoversi a piedi, in lungo e in largo per capire a fondo la “chimica” che rende straordinario un luogo come questo. A Gubbio non ci sono grandi quadri o grandi cicli che “distraggono”. È il contesto così che assorbe giustamente tutta l’attenzione. Un contesto in cui l’architettura la fa da padrona, esaltando un topografia impossibile. C’è dell’orgoglio in questa sfida. Un orgoglio municipale che porta a creare la grande piazza che non c’era, appoggiandola ad un pendio scosceso: guardando da sotto, si scorge un potente segno di Roma negli arconi colossali che reggono la spianata. Un segno che incrocia in modo inedito le vertigini del gotico. La scala del palazzo dei Consoli di Angelo da Orvieto, è come un artiglio allungato sulla piazza (la firma dell’architetto è orgogliosamente sul portale); il palazzo poi si alza spavaldamente come un grattacielo tutto di pietra (idem, per quello di fronte, che fa da sentinella della piazza ad est); all’interno il salone si alza colossale: doveva accogliere le adunate del popolo nella stagione della democrazia comunale. Per capire le ragioni di tanta enormità bisogna salire alla sala che accoglie le Tavole Eugubine (la stele di Rosetta dell’antico umbro): lì si legge che una volta ritrovate nel 1456 vennero comperate dal Comune di Gubbio e subito consacrate (e custodite) come memoria e fonte di una storia di cui ci si sentiva orgogliosamente il prolungamento. È un senso di appartenenza che detta le regole di questo gotico sfrontato.
Si può scendere nei dettagli di questo gotico tanto monumentale quanto ardito, ma poi il percorso di Gubbio viene prodigiosamente spazzato dalla pulizia mentale del duca Federico, che qui nacque (e qui fece nascere l’attesissimo erede). Il Palazzo Ducale, inerpicato in alto, costruito rigorosamente secondo i crismi urbinati dalla coppia Laurana – Francesco Di Giorgio, è un’intromissione che non lacera affatto il tessuto di Gubbio, ma sembra portarlo alla sua naturale evoluzione. È la quadratura di tutte le intemperanze del gotico. Un palazzo senza sbavature, con il modulo della mattonella quadrata e incisa che fa da cellula genetica (il “tipo” lo avrebbe definito Aldo Rossi). La geografia di Gubbio non lascia spazio per un cortile a quattro lati di arcate; così quello verso la montagna è un muro, ricamato in alto da una sequenza di arcatelle che sembrano la tastiera di un pianoforte. Il cortile stesso, sempre per costrizione di spazi, è disegnato a trapezio, e sopra il lato di ingresso si vede sbucare la cuspide della facciata del vicinissimo Duomo. Ha un interno, a navata unica, che si distende in dieci stupende arcate di un gotico di ampio respiro. Verso est la città si allunga, senza variazioni urbanistiche, come un’addizione urbinate: i portoni si allargano, esaltando l’innovazione con il contorno di bugnato (la Gubbio gotica aveva invece le “porte del morto”, strette e sollevate di qualche gradino dal piano della strada…); le finestre si inquartano, con tanto di aggiunta di cornice di arenaria a sottolineare la ritrovata appropriatezza della forma.
Se andate a Gubbio, setacciatela pietra per pietra. Ne vale la pena…
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Gubbio, pietra per pietra
Toccata e fuga nell’Italia bollente/2. A Cortona, l’ala dell’Angelico e il meteorite di Francesco di Giorgio
Martedì 6. Cortona
Museo Diocesano, Duomo, Chiesa di Santa Margherita (con via Crucis di Severini, a mosaico, lungo la rampa che porta alla chiesa); San Francesco; San Domenico, da cui veniva il Beato Angelico, Santa Maria della Grazie al Calcinaio).
A vederlo dal vero capisci che è senza nessun dubbio uno dei grandi quadri della storia l’Annunciazione di Beato Angelico di Cortona. Un gioiello per come la perfetta e rarefatta griglia concettuale e compositiva lascia lievitare tanto sentimento e poesia. Non c’è in nessuna zona del quadro un allentamento di tensione, come capita in altre sue Annunciazioni (otto quelle assegnate a lui). L’Angelo si presenta carico e teso come una fionda, con l’incredibile linea delle sue ali, immense che forano con un’energia quasi indelicata lo spazio sotto l’arco. Ma sono rese agili e leggere da linee dinamiche degne di un progettista aeronautico.
Inaudita davvero la bellezza della veste dell’Angelo, un rosa trapuntato d’oro che toglie il respiro.
E poi c’è la colonna che arditamente regge la costruzione e la divide. Cito da Didi – Huberman: «…la colonna non serve quindi soltanto a sostenere l’edificio della storia. Essa è un luogo emblematico del mistero. A Cortona cela nella sua bianchezza luminosa le parole “FIAT MIHI SECUNDUM…” della Vergine, le parole dell’istante stesso in cui tra libero acconsentimento e profezia il Verbo si incarnerà. Essa segna in quanto soglia, sia la distanza invalicabile sia il misterioso percorso tramite il qaule l’Incarnazione riuscirà a varcare qualsiasi soglia immaginabile».
Tappa finale cortonese a Santa Maria della Grazie al Calcinaio, una chiesa fuori dimensioni oltre che fuori dalle mura, progettata da Francesco di Giorgio Martini. Sembra un meteorite che invece di piovere dal cielo sia affiorato prepotentemente dal cuore della terra e della storia. Una rivisitazione della più grande architettura romana, senza timori o riverenze. Un atto di appartenenza quasi sfacciato, in cui si dichiara e si rende palese il proprio dna. Interno equilibrato son le fasce di arenaria che disegnano muovono e riordinano gli spazi; esterno imperioso, con le finestre a profonda strombatura, che danno valore al volume dei muri. Quasi inquiertante il grande rosone, che si mangia lo spazio come se fosse stato scavato da una macchina perforatrice per tunnel.