Robe da chiodi

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A proposito dei piedi di Cattelan

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Due interventi per Vita e per il Sussidiario a proposito del Padiglione Vaticano in Biennale

C’è un fenomeno curioso che sta segnando questa nuova edizione della Biennale d’arte di Venezia: la cosa di cui più si parla è una cosa di cui non gira neanche un’immagine. Un paradosso per una manifestazione che vive di una ingordigia di immagini a 360 gradi, dai social ai siti fino alla carta stampata. L’oggetto di questo felice paradosso è il Padiglione con cui il Vaticano ha deciso di essere presente alla grande kermesse e che verrà anche visitato dal Papa il prossimo 28 aprile. Gli organizzatori, guidati dal cardinale Tolentino, prefetto del Pontificio Consiglio per la cultura, hanno scelto di pensare e allestire il Padiglione all’interno della casa di detenzione femminile della Giudecca. Dato che per entrare in carcere bisogna lasciare all’ingresso i cellulari, ecco che accade il miracolo: la mostra di cui tutti parlano e per la quale tutti si mettono in coda, è una mostra “invisibile”. Invisibile esattamente come le persone che abitano il luogo in cui è stata allestita. Si è creato così un corto circuito che fa saltare le normali dinamiche della comunicazione:  il silenzio mediatico si dimostra molto più potente dell’affannoso e tante volte insopportabile cicaleccio che pervade il mondo dell’arte. Maurizio Cattelan, un artista che è maestro come pochi nel conquistare visibilità cavalcando l’ansia dei nuovi media, ha ammesso che la scelta del Vaticano «è un gesto rivoluzionario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorato, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà».
“Con i miei occhi” è il cardinal Tolentino ha voluto per il Padiglione vaticano affidando poi la selezione degli artisti a due curatori Chiara Parisi e Bruno Racine. Un titolo che oggi comprendiamo nella sua pienezza: è una mostra che chiede di essere vista con i “nostri” occhi, senza nessuna possibilità di mediazione. Chi l’ha vista con i “suoi” occhi potrà raccontarcela ma niente di più. Tocca noi andare a vedere e andare a sentire le guide speciali che accompagnano tra le opere degli otto artisti: sono infatti le detenute stesse, vestite con le divise bianche e nere che loro stesse hanno disegnato. Non sono soltanto guide, perché elementi delle loro vite sono confluite in alcune delle opere esposte: le placche di lava smaltate realizzate da Simone Fattal contengono parti di poesie scritte dalle detenute. Che vestono la parte di attrici nel cortometraggio girato da Marco Perego e Zoe Saldana. Claire Tabouret ha realizzato le sue opere partendo dai ritratti da bambine delle detenute e dei loro affetti, ritratti installati in una grande quadreria nella sala adiacente alla Cappella. Infine sulla facciata della cappella Maurizio Cattelan ha fatto dipingere su scala gigantesca della pianta di due piedi di un uomo.  “I piedi insieme al cuore portano la stanchezza e il peso della vita”, ha spiegato l’artista. Quasi un avvertimento di cosa si vedrà solo con i nostri occhi oltrepassando la sogl

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Certamente l’immagine più iconica di questa Biennale veneziana da poco inaugurata è il grande murales fatto realizzare da Maurizio Cattelan sulla facciata della cappella della Casa di Reclusione femminile alla Giudecca. La cappella si affaccia sulla Fondamenta delle Convertite ed è l’unica opera fotografabile del Padiglione Vaticano: le altre sono all’interno del carcere, dove per accedere si devono lasciare, come da norme, i cellulari all’ingresso. Vanno dunque viste dal vero, “con i miei occhi” come sottolineato nel titolo stesso dato al Padiglione. 

L’immagine di Cattelan è costituita dalla pianta di due piedi nudi in proporzioni gigantesche che sembrano fuoriuscire dallo spazio stesso della cappella. Oltre che nudi sono sporchi di terra, profondamente segnati dalla fatica del cammino. È un’immagine sofferente, che si rifà al taglio ardito del “Cristo morto” di Mantegna. Ma che in realtà ha più affinità con la clamorosa ostensione dei piedi dei pellegrini inginocchiati davanti alla Madonna di Loreto, nel capolavoro di Caravaggio custodito nella chiesa di Sant’Agostino a Roma: piedi consumati dal cammino e mossi da una grande fede che ci troviamo davanti al naso, con quella meravigliosa brutalità di cui non saremo mai sufficientemente grati a Caravaggio (vedi anche il caso del dito di Tommaso infilato nella piaga di Cristo, nell’altro capolavoro conservato a Potsdam). «I piedi insieme al cuore portano la stanchezza e il peso della vita»: così con molta semplicità Cattelan ha voluto spiegare la sua scelta. Del resto il Padiglione Vaticano, ha detto sempre l’artista, «è un gesto rivoluzionario perché ci obbliga a mettere piede in un territorio inesplorato, a guardare negli occhi chi ha perso la libertà». 

I piedi dunque, e non certamente a caso. Quante volte infatti ricorrono nelle narrazioni dei Vangeli? Si va dai due episodi analoghi di Maria sorella di Lazzaro e della peccatrice in casa del fariseo, che lavano e profumano i piedi di Gesù in segno di amore e adorazione, fino alla lavanda dei piedi degli apostoli prima della Passione. I piedi sono la cartina al tornasole della verità della Resurrezione: «Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!» (Lc 24,29); «Ed esse, avvicinatesi, gli presero i piedi e lo adorarono» (Mt 28,9). Così la componente più umile e “bassa” del corpo umano assurge ad un’imprevista centralità. Verrebbe da chiedersi perché? Una risposta la suggeriscono le parole del papa pronunciate in occasione del suo viaggio a Venezia dove ha visitato il Padiglione vaticano: i piedi hanno a che vedere con la povertà. Povertà come condizione strutturale dell’uomo, ma povertà anche come scandalo sociale. Una povertà che il mondo d’oggi con la sua ossessione cosmetica vuole cancellare dal suo orizzonte mentale e che invece un’opera come quella di Cattelan rimette rumorosamente davanti agli occhi di tutti. Al Papa piace essere esplicito, così in quel discorso ha fatto leva su un neologismo: “aporofobia”, «questo terribile neologismo che significa “fobia dei poveri”». Quell’immagine di piedi giganteschi, feriti dalla fatica della vita sono dunque una breccia aperta nel muro dell’“aporofobia”. E, sia detto per inciso, sono anche un suggerimento di percorso e di senso per l’arte di oggi. 

Written by gfrangi

Maggio 1st, 2024 at 1:19 pm

San Giuseppe, Artemisia e il potere del sonno

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Artemisia Gentileschi, Allegoria della pittura

Articolo pubblicato su Il Sussidiario il 17 gennaio

Si sa che papa Francesco su un mobiletto all’ingresso del suo appartamento di Santa Marta tiene una statuetta particolare: è un san Giuseppe che dorme disteso per terra. Se lo era fatto arrivare da Buenos Aires appena dopo l’elezione, in una valigia che conteneva tutti gli oggetti a lui più cari. Una devozione che lui stesso aveva rivelato pubblicamente in occasione del discorso alle famiglie a Manila nel gennaio 2015: «Vorrei anche dirvi una cosa molto personale. Io amo molto san Giuseppe, perché è un uomo forte e silenzioso. Sul mio tavolo ho un’immagine di san Giuseppe che dorme. E mentre dorme si prende cura della Chiesa! Sì! Può farlo, lo sappiamo». Francesco poi raccontava che il suo san Giuseppe non dormiva più per terra, perché sotto la statuetta s’era formato un “materasso” fatto dai biglietti che lui stesso abitualmente mette per affidare al sonno del santo le questioni che lo preoccupano. «Così io dormo più tranquillo», ha detto il papa che ha sempre ammesso di «dormire come un legno».

Il sonno di san Giuseppe del resto, a leggere i Vangeli, non è davvero tempo perso, visto quante volte Dio si è fatto vivo con lui attraverso i sogni per fargli poi prendere le decisioni giuste per la sua strana famiglia. Il sonno quindi non è un momento “morto”, ma è un momento in cui uno stato di abbandono e di “affidamento” si accompagna a un di più di sapienza e di coscienza delle cose. 

Orazio Gentileschi, dettaglio di San Giuseppe addormentato nella Fuga in Egitto

Non si può non guardare con simpatia e anche gratitudine a questa devozione di Francesco, anche per quella sua portata così provvidenzialmente tranquillizzante e anti ansiotica. È una devozione semplice, che in realtà nasconde una profonda intelligenza della realtà.

Ho potuto averne una conferma leggendo l’ultimo libro di Giorgio Agamben, “Studiolo” (Einaudi). Un piccolo libro, quasi un vademecum che scavando in alcune immagini coglie dimensioni profonde del vivere. Ebbene ad un certo punto Agamben si sofferma su un quadro di Artemisia Gentileschi, un’Allegoria della pittura. L’aspetto insolito del quadro è che la pittura nell’allegoria è rappresentata come una donna prosperosa che dorme per terra, tra tavolozza e pennelli. Come spiegare una simile stranezza? Agamben, rifacendosi al De Anima di Aristotele, spiega che il sonno coincide con quella situazione in cui l’anima possiede la scienza prima e indipendentemente dal suo esercizio (che avviene invece nello stato di veglia). Scrive il filosofo: «La potenza – questa è la tesi geniale, anche se in apparenza ovvia di Aristotele –è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non –esercizio, cioè dal suo poter stare allo stato dormiente». Banalizzando vuol dire che nel momento del sonno un artista sperimenta la pienezza del proprio essere artista, proprio perché il dono ricevuto è libero dall’intenzionalità e dal calcolo legato inevitabilmente all’agire. Evidentemente non si vive dormendo, ma imparare a fidarsi del sonno è qualcosa che ci rende più umani.

Written by gfrangi

Gennaio 22nd, 2020 at 11:25 am

Tre pensieri a proposito di Maria

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Ci sono giorni in cui sembra davvero di non riuscire a star dietro alle cose belle e interessanti che ti capitano davanti. Ti verrebbe voglia di approfondire, di ragionarci di più…
Riassumo tre spunti, che hanno un filo conduttore: Maria (visto che siamo nel suo mese).

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Questa “tavoletta graffita Madonna” di Lucio Fontana, del 1934 va all’asta settimana prossima a Milano da Sotheby’s. È una cosa piccola, senza pretese, molto delicata e semplice. Si scorge una devozione istintiva in questo sovrapporsi di azzurre aree velate. C’è anche una memoria formale della Madonna della Misericordia, nell’allargarsi della massa verso la base: come il senso grafico di un abbraccio. Difficile per un pittore moderno riprendere il tema iconografico più diffuso della storia. Sono davvero rari i casi degni di nota (Matisse, of course, Nolde, le simil Madonne di Andy Warhol…; mi piace ricordare la Madonna a 36gradi “corporei” di Alberto Garutti; poi Pignatelli, Piccoli. E anche una cosa magica di Sigmar Polke).
Ps: Mi sono dato una ragione di questa difficoltà. Maria obbliga alla semplicità, al non intellettualismo. Esige di essere almeno un po’ gente di popolo. Fontana questo lo ha nelle sue corde…

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A proposito di Madonna, alla Beyeler apre la mostra di Richter curata da Obrist. Ci sarà la replica dall’Annunciazione di Tiziano. Non avevo colto che le varianti su quel soggetto fossero ben cinque, e tutte indirizzata verso una precisa direzione, quella di enfatizzare il buco di luce centrale, assimilando il bagliore atmosferico con quello misterioso che scende dal cielo. Così la versione 4 (nella foto), presente a Basilea, perde le figure che restano solo come impronte cromatiche e lascia che sia proprio la luce a plasmare la pittura. Forse è la versione più bella, perché porta il Tiziano del 1540 là dove sarebbe arrivato (l’inarrivabile) Tiziano del 1565 di San Salvador.

Sempre a proposito di Maria. Leggendo il piccolo libro (stupendo, assolutamente da non farsi scappare; Emi, 11,90 euro) che raccoglie alcuni testi del Papa sui Gesuiti e su Sant’Ignazio, sono incappato in questa riflessione iconografica di Bergoglio. È Ignazio, dice, a introdurre il concetto “figurativo” di pietà, per cui le Madonne della Misericordia nel XVI vengono sostituite dalle Pietà. Le sue parole (di Bergoglio): «Nel convulso secolo XVI, la Pietà è la madre con il figlio straziato e morto in braccio, fiduciosa che in quello strazio c’è la resurrezione. Questa speranza, culmine della teologia ignaziana del peccato (e anche del peccato dei gesuiti) manca alla concezione luterana dell’angoscia, non potrà mai fare altro che mancarle, non è una promessa nel suo orizzonte. La Pietà è un’espressione della rivoluzione dell’affetto con cui Dio ha voluto salvare l’uomo».
Buona domenica.

Written by gfrangi

Maggio 18th, 2014 at 7:35 am

Il Papa e Caravaggio

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sanmatteo

(Questo brano è tratto dall’intevista di Papa Francesco ad Antonio Spadaro direttore di Civiltà Cattolica. Così bello da non aver bisogno di nessun commento)

«…venendo a Roma ho sempre abitato in via della Scrofa. Da lì visitavo spesso la chiesa di San Luigi dei Francesi, e lì andavo a contemplare il quadro della vocazione di san Matteo di Caravaggio». Comincio a intuire cosa il Papa vuole dirmi. «Quel dito di Gesù così… verso Matteo. Così sono io. Così mi sento. Come Matteo». E qui il Papa si fa deciso, come se avesse colto l’immagine di sé che andava cercando: «È il gesto di Matteo che mi colpisce: afferra i suoi soldi, come a dire: “no, non me! No questi soldi sono miei! Ecco, questo sono io: “un peccatore al quale il Signore ha rivolto i suoi occhi”. E questo è quel che ho detto quando mi hanno chiesto se accettavo la mia elezione a pontefice».

Written by gfrangi

Settembre 19th, 2013 at 7:16 pm

Tre pensieri sul meraviglioso Papa Francesco

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papacroce

Il primo pensiero mi viene da questa foto (cliccate sopra l’immagine per ingrandirla). Di una bellezza da restare senza fiato: complimenti all’autore, Dan Kitwood. Bella l’immagine ma straordinaria la forza del gesto di Papa Francesco, in una San Pietro che sembra oscurata dal buio del Venerdì Santo, con la pianeta rosso sangue e le scarpe da parroco del mondo. Si percepisce l’intensità di affezione per il Cristo in croce, il senso di immensa gratitudine per una salvezza avvenuta attraverso quel sangue versato. C’è la dimensione di un perdono arrivato davvero e arrivato per grazia.
Una postilla a questa immagine: chiaro, io non posso non pensare al papa colpito da una meteorite di Maurizio Cattelan (lo ricordo nel cuore della Sala delle Caritidi, vuota, appoggiato su un tappeto rosso che copriva l’inetro pavimento). Anche quel Papa aveva una croce tra le braccia, e non credo affatto che l’intenzione di Cattelan fosse né beffarda, né blasfema. Identificava un papa da battaglia, come Wojtyla fu, un papa condottiero. Papa Francesco è diverso. È un papa innamorato, che sente la tenerezza di Dio. E se ne lascia abbracciare. In un certo senso questa foto archivia Cattelan.

Il secondo pensiero mi viene da una frase incredibile che il papa ha rivolto ai sacerdoti di tutta la chiesa. La riporto: «…Da qui deriva precisamente l’insoddisfazione di alcuni, che finiscono per essere tristi, preti tristi, e trasformati in una sorta di collezionisti di antichità oppure di novità, invece di essere pastori con “l’odore delle pecore” – questo io vi chiedo: siate pastori con “l’odore delle pecore”, che si senta quello -; invece di essere pastori in mezzo al proprio gregge e pescatori di uomini». (qui il discorso integrale) L’odore delle pecore! C’è tutto in questa indicazione, c’è l’amore all’altro che è fatto di contiguità, di prossimità non teorica ma fisica, corporale; c’è condivisione reale di destino. È l’antica immagine del buon pastore che ha la pecora sulle spalle, che se ne fa carico non per eroismo ma per amore. Nessuno ci aveva mai pensato, ma a quel pastore resterà sempre addosso “l’odore delle pecore”. Ed è la cosa che lo rende contento. Luca, 15: «…ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta».

Ultimo pensiero, un po’ malizioso.
Dopo Pasqua si svelerà finalmente il progetto elaborato per il Padiglione del Vaticano alla Biennale. Si sa che il tema è l’inizio del Genesi, si sa che il sito è quello che nella Biennale 2011 ospitava il padiglione… dell’Argentina. Ma mi sorge una domanda: a questo papa gliene importerà qualcosa che il Vaticano sia alla Biennale? Non riesco a trovare punti di contatto tra il suo modo d’essere e il mondo che ha espresso il bisogno di “legittimarsi” portando grandi artisti sotto la propria sigla alla Biennale. Papa Francesco è disomogeneo ad ogni intellettualismo, non ha complessi. Secondo me sarebbe del tutto d’accordo con questo auspicio di Paolo VI: «… come sapete, il nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri…».
In formule accessibili: immagino i murales, immagino Diego Rivera… Oppure presumo che si ritroverebbe nel lavoro fatto da Gianriccardo Piccoli per la chiesa di Portovejo, una cittadina in Equador. Una Pentecoste “in formula accessibile” (ma contemporanea). Ma non penso proprio che queli come Piccoli abbiano chance di entrare nell’elite degli invitati alla Biennale…

Written by gfrangi

Marzo 29th, 2013 at 7:10 pm