Robe da chiodi

Il vizietto dell’Ambrosiana

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Leggo un comunicato della Pinacoteca Ambrosiana in cui si attacca, con in termini maldestramente parodistici, la mostra di Luini a Palazzo Reale, perché un quadro concesso in prestito (“Sacra Famiglia con Sant’Anna e san Giovannino”) non è stato esposto come autografo di Luini, bensì come posteriore a Luini. Ora, a parte che la funzione delle mostre serie è proprio quella di essere occasione di studio e di approfondimento, e quindi di sviluppo della conoscenza, il quadro in questione è discusso da tanti esperti e non solo dai curatori della mostra, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa. La stessa curatrice del catalogo in uscita da Allemandi, Cristina Quattrini è molto dubbiosa. Ma non voglio entrare nel merito di una questione critica che va lasciata a chi ha gli strumenti per affrontarla seriamente. Quello che invece voglio sottolineare è il modo di intervento dell’Ambrosiana, che si accorge a quasi due mesi dall’inizio della mostra di questa attribuzione, che non accetta il confronto e parla con un disprezzo davvero sconcertante di curatori e organizzatori della mostra. Oggi il quadro è stato ritirato (sarà curioso capire se il Comune a questo punto pagherà comunque il fee chiesto dalla Pinacoteca…).
Personalmente ero stato coinvolto in un caso di ben minore peso, ma che ha qualche analogia: richiesta un’immagine del Presepe di Federico Barocci per un manifesto natalizio, mi ero attenuto nella scheda di accompagnamento ai termini presenti sulla scheda di catalogo messa sul sito della Pinacoteca stessa, che diceva “ambito di Federico Barocci”, con tanto di riferimento preciso al collaboratore, Alessandro Vitali, che l’avrebbe realizzato (l’originale autografo è infatti custodito al Prado). Ebbene, la concessione dell’immagine venne rilasciata solo a patto che il quadro risultasse come Federico Barocci a tutti gli effetti. Oggi sul sito, resta ancora l’attribuzione al collaboratore…
Ps: Chi, per curiosità, volesse vedere di persona il quadro luinesco ritirato, prepari 15 euro, più 1,50 “per diritti di prevendita con prenotazione obbligatoria” (risparmio ironie, davanti alla tristezza di un museo sempre semivuoto), perché tanto costa il biglietto per vedere l’Ambrosiana (chissà che ne direbbe il cardinal Federico…). Se non ci credete guardate qui. Se invece volete risparmiare e vedere l’opera dal sito del museo, potete rinunciarvi, perché nella ricerca la voce Luini non dà nessun risultato…

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Giugno 9th, 2014 at 3:41 pm

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Don Milani e la ragione dei colori

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Don Milani, Autoritratto, 1942

Don Milani, Autoritratto, 1942

Vedendo la mostra sul don Milani pittore al Museo diocesano di Milano ho scoperto che era nato 15 giorni dopo Giovanni Testori. E che come Testori in quegli anni tra 41 e 43 si era immaginato un destino da pittore. Per poi, ancora in perfetta analogia, cancellare in un sol colpo quell’esperienza (per Testori era accaduto nel 1949). Certamente don Milani era meno pittore di Testori. Le opere di questa esperienza, per quanto vissuta con grande convinzione (si iscrisse anche a Brera), sono opere alquanto balbettanti. Ed è difficile rintracciarne tracce significative nell’esperienza del don Milani prete, anche se nelle foto e in un filmato lo vediamo alle prese con i suoi allievi muniti di artigianalissimi cavalletti per le lezioni di educazione artistica. Per cui le cose più interessanti sono quelle che spiegano l’uscita dall’esperienza artistica: spiegazioni che rivelano già una lucidità e anche una determinazione che non lasciavano scampo. Scrive al suo maestro Staude, che gli chiedeva il perché del ripensamento: «È tutta colpa tua perché tu mi hai parlato di cercare sempre l’essenziale, di eliminare i dettagli e di semplificare, di vedere le cose come unità dove una parte dipende dall’altra. A me non bastava fare tutto questo su un pezzo di carta. Non mi bastava cercare rapporti tra i colori. Ho voluto cercarli tra la mia vita e le persone del mondo. E ho preso un’altra strada». E poi in un’altra lettera a Oreste del Buono (suo compagno al Berchet): «Cominciai ad andare in Duomo perché, come pittore, mi interessava dipingere i paramenti dei proporti in certi riti solenni. Pensai che se esistevano quei colori, doveva esserci una ragione. E la cercai…»
Cercare la ragione del perché esistono i colori (che, dalle tante testimonianze a Don Milani, continuavano a piacere: li segnalava sempre ai suoi ragazzi): ma quello è un compito della vita e non della pittura…
La pittura per don Milani ha quel peccato originale di dar troppo rilievo all’“io”. Lui era tutto il contrario. (Rothko gli avrebbe dato ragione…) «Ad esempio perché teneva sempre la tonaca?», dice di lui un prete amico, don Giubbolini. «La tonaca era un simbolo, perché in questo grande sacco spariva l’uomo, l’uomo-prete completamente coperto dalla tonaca».
Restava spazio per un creare collettivo, come gli accadde quando si decise ad abbellire la chiesa di Barbiana, ovviamente mettendo all’opera i suoi ragazzi che avevano potuto fare un’esperienza in una scuola in Germania, durante la prima gita all’estero. Ne sono venute fuori vetrate più che discrete, realizzate usando solo materiali di scarto. La più bella è la più “donmilaniana”: si vede un monaco in piedi in un prato pieno di fiori, con tanto di aureola; un libro aperto gli copre il volto. Il titolo, bellissimo, lo diede don Milani stesso: il Santo scolaro. Non molto ortodosso, ma a papa Francesco piacerebbe moltissimo…

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Giugno 8th, 2014 at 9:26 pm

Tre pensieri a proposito di Maria

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Ci sono giorni in cui sembra davvero di non riuscire a star dietro alle cose belle e interessanti che ti capitano davanti. Ti verrebbe voglia di approfondire, di ragionarci di più…
Riassumo tre spunti, che hanno un filo conduttore: Maria (visto che siamo nel suo mese).

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Questa “tavoletta graffita Madonna” di Lucio Fontana, del 1934 va all’asta settimana prossima a Milano da Sotheby’s. È una cosa piccola, senza pretese, molto delicata e semplice. Si scorge una devozione istintiva in questo sovrapporsi di azzurre aree velate. C’è anche una memoria formale della Madonna della Misericordia, nell’allargarsi della massa verso la base: come il senso grafico di un abbraccio. Difficile per un pittore moderno riprendere il tema iconografico più diffuso della storia. Sono davvero rari i casi degni di nota (Matisse, of course, Nolde, le simil Madonne di Andy Warhol…; mi piace ricordare la Madonna a 36gradi “corporei” di Alberto Garutti; poi Pignatelli, Piccoli. E anche una cosa magica di Sigmar Polke).
Ps: Mi sono dato una ragione di questa difficoltà. Maria obbliga alla semplicità, al non intellettualismo. Esige di essere almeno un po’ gente di popolo. Fontana questo lo ha nelle sue corde…

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A proposito di Madonna, alla Beyeler apre la mostra di Richter curata da Obrist. Ci sarà la replica dall’Annunciazione di Tiziano. Non avevo colto che le varianti su quel soggetto fossero ben cinque, e tutte indirizzata verso una precisa direzione, quella di enfatizzare il buco di luce centrale, assimilando il bagliore atmosferico con quello misterioso che scende dal cielo. Così la versione 4 (nella foto), presente a Basilea, perde le figure che restano solo come impronte cromatiche e lascia che sia proprio la luce a plasmare la pittura. Forse è la versione più bella, perché porta il Tiziano del 1540 là dove sarebbe arrivato (l’inarrivabile) Tiziano del 1565 di San Salvador.

Sempre a proposito di Maria. Leggendo il piccolo libro (stupendo, assolutamente da non farsi scappare; Emi, 11,90 euro) che raccoglie alcuni testi del Papa sui Gesuiti e su Sant’Ignazio, sono incappato in questa riflessione iconografica di Bergoglio. È Ignazio, dice, a introdurre il concetto “figurativo” di pietà, per cui le Madonne della Misericordia nel XVI vengono sostituite dalle Pietà. Le sue parole (di Bergoglio): «Nel convulso secolo XVI, la Pietà è la madre con il figlio straziato e morto in braccio, fiduciosa che in quello strazio c’è la resurrezione. Questa speranza, culmine della teologia ignaziana del peccato (e anche del peccato dei gesuiti) manca alla concezione luterana dell’angoscia, non potrà mai fare altro che mancarle, non è una promessa nel suo orizzonte. La Pietà è un’espressione della rivoluzione dell’affetto con cui Dio ha voluto salvare l’uomo».
Buona domenica.

Written by gfrangi

Maggio 18th, 2014 at 7:35 am

Fare esperienza di Beuys, a Zurigo

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Una due giorni a Zurigo, per anniversario nozze. L’occasione per tornare nel Kunstmuseum nella nuova sistemazione, per vedere le vetrate di Sigmar Polke al GrossMünster e per mettersi sulle tracce di Morandi al Reinhard di Winterthur (uno delle sue sole mete fuori di Italia).
Al Kunstmuseum la folgorazione è in tre sale del contemporaneo. Prima quella di Cy Twombly con il ciclo del Viaggio di Goethe in Italia. Bellissimo e c’è tutto il felice frastuono che l’Italia può riversare in un’anima tedesca. Una tela, meravigliosa, nuda e bianchissima per un terzo, sotto ha una cascata di pittura color verde e terra. Sembra di vedere l’irruzione di un modo di vedere il mondo. Nella seconda sala enorme c’è il trionfo di Georg Baselitz, con 20 tavole allineate, dipinte e poi grattate con un lucida furia. Sembrano matrici di grandi xilografie che si siano ribellate alla loro funzione di supporto. Di fronte c’è un grande Kiefer: vi assicuro che il confronto lo spegne e lo sospinge lontano. Sembra figlio di un’altra epoca, riaffiorato solo ora. Tanto Baselitz fa breccia, tanto Kiefer affonda nel suo mondo immaginario. E molto letterario. (A destra due grandi Polke, magnifici, enigmatici, eleganti, sofisticati e pop allo stesso tempo).
La terza sala è indimenticabile ancora e più delle altre: è quella in cui sono state sistemate le Oliverstone di Beuys. Sono cinque vasche di pietra del 700 in cui veniva messo l’olio a decantare nelle tenute dell famigila di Lucrezia De Domizio Durini, a Bolognano, in Abruzzo. Beuys fece fare con la stessa pietra, l’arenaria di Lettomanoppello, delle lastre che fungono da tappi. Per cui le cinque vasche diventano come cinque sepolcri. E l’olio è questo tramite tra la morte e la vita: le lastre infatti sono periodicamente unte, con piccole pozze che si formano nelle irregolarità della pietra. La gente ci mette il dito e poi lo pulisce sul muro verso l’uscita, che racconta involontariamente il nostro passaggio. Ma nell’allestimento il colpo d’ala è il quadro quattrocentesco, tedesco, con la Sepoltura di Cristo. È un raccordo semplice e potente, che rende emotivamente indimenticabile quella sala. Aveva detto Beuys: «Io credo che si capisca bene che l’arte deve passare per il sensibile. Si tratta di qualcosa che è diverso dal risultato di un processo di conoscenza. E pertanto io penso che si ha a che fare con un processo di conoscenza quando si prende coscienza di questo». L’arte come punto di incrocio su esperienza sensibile, conoscenza e coscienza: questo avviene in quella sala. Qui vedete un breve filmato che vi porta nella sala VideoSalaBeuys

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Maggio 10th, 2014 at 1:26 pm

Piccole note milanesi. Brera, Triennale e Hangar Bicocca

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Piccole note su visite in queste tre settimane di lavori a spizzichi e bocconi…

Brera. C’è la mostra su Bellini, attorno a quello che resta per me uno dei quadri più belli del mondo (la Pietà). Arriva un paio d’anni dopo quella fatta dal Poldi Pezzoli (torna a Milano la Pietà di Rimini), ha qualche prestito importante (la Cimasa del Pala di Pesaro), ma francamente la sua funzione mi sembra soprattutto quella di attrarre pubblico a Brera (ottima funzione, per altro). Per Milano ci sono tanti manifesti, ne ho visti persino sui tram. E la proliferazione dell’immagine di quel capolavoro fa solo bene agli occhi e al cuore…
En passant, si transita davanti alla nuova collocazione del Cristo di Mantegna. S’è detto tanto, aggiungo due minimi rilievi. È sparita ogni etichetta, come se tutti sapessero di quel quadro: un’opera di destoricizzazione un po’ troppo radicale. Per fare operazione onesta, io dichiarerei invece tutto: che quello è Mantegna “interpretato” dall’occhio moderno e poetico di un maestro come Ermanno Olmi. Magari metendo anche qualche data. Insomma spiegherei in maniera sobria l’operazione. Invece tutto è dato come per “saputo”. E il pubblico passa davanti un po’ sperso… Un grande museo non dovrebbe fare così.

Triennale. Bello il nuovo museo del Design 2014 immaginato quest’anno da Beppe Finessi. Il tema è molto pertinente: come il design si muove nelle ristrettezze imposte dalle varie crisi. La prima è quella originata dall’isolamento dell’Italia fascista e dalla scelta un po’ obbligata per l’autarchia; poi c’è la crisi petrolifera degli anni 70; e infine la nostra, infinita. Quel che si intuisce è che il genio inventivo si alimenta sempre nel rapporto con il mondo produttivo: per cui la prima crisi è quella in cui si incontra più “genio”. Poi sembra stabilirsi una distanza che non giova, che porta ad un’arbitrarietà da cui alla fine emergono solo i “geniacci” intramontabili (vedi Alessandro Mendini). Per cui il percorso risulta un po’ a scendere, dalle sorprese strepitose dell’inizio all’inventiva un po’ sregolata di questi anni. La differenza sta anche nella praticabilità: quello era un design che cercava soluzioni. Questo è un design che sembra solo alludere a delle soluzioni, quasi temesse di restarne ostaggio…

Hangar Bicocca. Dopo la magnifica abbinata di Kartjansson e Dieter Roth, la nuova coppia non tiene il passo. Cildo Meireles, occupa lo spazio vasto attiguo alle Torri di Kiefer con ben 12 Installations. Macchine complesse, a volte macchinose, con retropensieri un po’ ideologici. C’è uno schema che raramente decolla in poesia: e il coinvolgimento cercato del pubblico non scatta, se non in pochi casi. Ma resta al fondo un senso di prepotenza per tutti questi mezzi dispiegati. Più poesia in Micol Assaël, italiana a dispetto del cognome, classe 1979. Sono installazioni che mettono in opera drammatici cortocircuiti le sue, dove la tecnologia precipita in un non sense selvaggio. C’è come una dimensione di potenza e insieme anche di tenerezza per questi strumenti che continuano a rombare nelle loro celle, avendo però perso ogni relazione con la funzione originaria.
Post scriptum: è stato cambiato il grande ambiente delle torri di Kiefer. Una pavimentazione molto ordinata le circonda, permettendo di arrivare più vicino. Ma l’effetto è un po’ choccante: sembrano siano state collocate sul set di una sfilata di moda. Meglio la soluzione di prima, meno cosmetica ma più omogenea all’opera di Kiefer.

Written by gfrangi

Maggio 1st, 2014 at 11:50 am

Le tante Milano di Bernardino Luini

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Questa riflessione sulla mostra di Luini è stata pubblicata oggi come editoriale delle pagine milanesi del Corriere della Sera.

È sorprendente scoprire come un pittore vissuto 500 anni fa, oggi non certo “à la page” per via di quei suoi soggetti che ricordano tanto le vecchie immaginette, possa trovarsi al centro di un evento dal taglio molto contemporaneo. La mostra che si è appena aperta a Palazzo Reale, infatti non è solo una mostra dedicata a quel grande e popolarissimo divulgatore dell’ardito verbo leonardesco che fu Bernardino Luini. È una mostra che racconta tante cose della Milano di oggi, della sua capacità di fare squadra, delle sue potenzialità così spesso inespresse. Basta guardare l’elenco dei soggetti promotori, per capire che ci troviamo di fronte a qualcosa che non si esaurisce nell’evento espositivo. Innanzitutto naturalmente c’è l’amministrazione pubblica, che prima con Stefano Boeri e ora con Filippo Del Corno (e con lo staff di Palazzo Reale) ha voluto lanciare la sfida di una grande mostra controcorrente, privilegiando il valore civico e la qualità culturale. A ruota c’è l’Università, da cui vengono i due curatori, Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, a garantire l’idea di un progetto che nasce da un lungo percorso di ricerca, che quindi è destinato a far fare un salto in avanti nelle conoscenze non solo di Bernardino Luini ma di una stagione importante della cultura milanese come i primi decenni del ‘500. Dall’Università vengono anche gli studenti che, coordinati da un’altra docente, Rossana Sacchi, hanno realizzato le schede dei tanti e spesso meravigliosi cicli di Luini disseminati sul territorio: il loro lavoro è confluito in un catalogo- bis, un “fuori mostra”, che sarà prezioso anche a esposizione finita. A Palazzo Reale questi cicli ovviamente non potevano arrivare: sono arrivati i filmati, realizzati questa volta dagli studenti del Centro televisivo universitario, che i visitatori possono vedere come intermezzi nel percorso espositivo.
A proposito del percorso, chi entra a Palazzo Reale si trova di fronte un allestimento davvero stupendo, non a caso firmato (a titolo gratuito) da uno dei big del design milanese, Piero Lissoni. L’allestimento è uno dei fattori decisivi della mostra, perché capace di declinare in modo molto contemporaneo (e anche internazionale) un artista con un immaginario e una sensibilità lontani dall’oggi. Il fatto che Cosmit sia tra gli sponsor della mostra, e che la mostra stessa sia stata inaugurata proprio in coincidenza con il Salone del Mobile sottolinea ancora di più questo link che la Milano di oggi vuole stringere con un pezzo del suo passato. Bisognerebbe anche parlare dell’illuminazione per la quale è stato messo a punto un sistema molto innovativo in grado di stanare anche i particolari più segreti dei quadri; del catalogo prodotto con una qualità degna dei tempi d’oro dell’editoria milanese. E alla fine naturalmente c’è Luini, un artista che finiremo tutti per amare, anche per la calma e la semplicità con cui ci svela una Milano che sa fare squadra.

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Aprile 23rd, 2014 at 9:55 pm

Il Venerdì Santo secondo Bellini

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Oggi Venerdì Santo, sul tavolo mi ritrovo il catalogo della Mostra dedicata a Bellini a Brera. Ovviamente domina l’immagine della Pietà, uno dei quadri più commoventi del mondo. Da questo dettaglio dei volti, in particolare, non si distogliorebbero mai gli occhi. È un puro elenco il mio: quel loro sfiorarsi delicatissimo; lo sguardo di indicibile dolcezza della madre, trafitto dal dolore ma segnato soprattutto da un amore che non conosce limiti (l’amore di chi consiste tutto/a nella creatura amata); la sua bocca socchiusa non per un lamento ma per quello che sembra un cenno di bacio; l’arrossamento che segna il profilo degli occhi, come una partecipazione alla sofferenza del Figlio; il mento e la guancia che si trattengono ad un millimetro ma non toccano quel Figlio amato. Dall’altra c’è Gesù, di cui è difficile dire, perché in pochi sono arrivati a rendere in questo modo la tenerezza del suo mistero. Il senso di abbandono che lo contraddistingue è qualcosa che va già aldilà della morte: è un affidarsi come situazione risolutiva dell’esperienza umana. Le palpebre abbassate, la bocca socchiusa, il volto reclinato dicono questo, nella cornice di una bellezza da guardare, accarezzare, adorare. Non una fine ma un passaggio. È un Gesù che non si può non amare, che chiama le lacrime come recita la stupenda firma del quadro, per un troppo di densità affettiva.

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Aprile 18th, 2014 at 3:37 pm

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Il lusso secondo Matisse

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«Da un anno ho fatto uno sforzo enorme nel disegno. Dico sforzo ma è un errore, perché quello che è venuto è una fioritura, dopo 50 anni di sforzi». (1942)

«Il mio lusso non è comunicabile, perché è un bene al di sopra del denaro, alla portata di tutti»
. (a Louis Aragon)

«La mia mano è guidata» (1931)
«Con lo spirito chiarificato posso lasciare andare la mia penna con fiducia» (1939)
«Allora si crea un vuoto e non sono altro che lo spettatore di ciò che faccio» (1950)

Sono alcune frasi di Matisse intercettate nel catalogo della mostra più che dignitosa che gli è stata dedicata al Palazzo dei Diamanti di Ferrara. C’è in questa frasi una chiarezza che fa chiarezza sulla sua pittura. Primo: il lusso. Quello che Matisse lancia sulla scena con il primo quadro importante della sua storia. Cos’è il lusso matissiano? È una sorta di grazia, che non costa nulla. Non è comunicabile nel senso che non è comperabile. Soprattutto è “alla portata di tutti”. Il lusso è come un di più, un qualcosa oltre le aspettative, quindi non messo nel conto. Il lusso va connesso poi agli altri due concetti matissiani: la fioritura come soluzione dello sforzo; e la “mano guidata”. La fioritura non è solo l’esito della somma degli sforzi, è qualcosa che va oltre ciò a cui gli sforzi puntavano. E questo accade perché Matisse arriva ad un punto in cui tutto gli riesce facile, perché con lo spirito chiarificato “può lasciare andare la penna con fiducia”.
Ci sono a Ferrara alcune opere che sembrano la trasposizione anche contenutistica di questa dinamica. Sono quelle della sala più bella, dedicata alle varianti sul tema della Ninfa e il fauno, dal poemetto di Mallarmè. Qui Matisse lavora sul concetto dell’attrazione trattenuta, della libido governata. Il Fauno non “prende” la Ninfa, ma la contempla in quella che Matisse definisce “voluttà sublimata”. Sono due tele di grandi dimensioni quasi quadrate (1,67 di base), solo disegnate a carboncino e sfumino (1935/37) . Matisse mostra una meravigliosa capacità di governare la linea, di intrecciare le figure pur mantenendole a distanza. Sono come dei Noli me tangere, dove il non toccare moltiplica l’energia e la bellezza dell’istante.
Nella sala c’è anche l’altra grande tela, Nymphe dans la foret, ou La Radure (1935/42), dove il corpo di un rosa liquido e delicato della ninfa, abbandonato in una pace da Eden tra gli alberi, viene guardato da sopra dal fauno: si vede il segno della lotta che Matisse ingaggia con se stesso per staccare la figura del fauno dalla sua preda. I pentimenti indicano questa progressiva distanziazione delle due figure. Sopra, un meraviglioso motivo rtimico di alberi tutti regolari e paralleli, chiusi da una triplice cornice. Sostanzialmente un quadro- arazzo.

Written by gfrangi

Aprile 13th, 2014 at 1:23 pm

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Benvenuta l’arte in condominio

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L’arte si sta trasformando in un fenomeno sempre più (felicemente) pervasivo. Domani 30 marzo a Padova l’arte entra anche in un condominio: accade a Padova, in un complesso del quartiere Guizza, dove viene inaugurato Settima onda, un appartamento dell’ultimo piano, che è stato messo a disposizione da chi ne è titolare (una museologa) per diventare spazio indipendente aperto al pubblico. La prima mostra, affidata alla curatela di Daniele Capra e Aurora di Mauro, non poteva che avere come tema la vita stessa di chi abita tra quelle scale e quei pianerottoli. “Mostra di condominio. Sorry, we are open”, questo il titolo della mostra, è, come spiegano i curatori, «un’inedita indagine sulla vita quotidiana e sulle relazioni interpersonali tra gli abitanti alla ricerca dell’umanità nascosta nei gesti quotidiani, nelle pieghe delle abitudini». Il progetto è stato realizzato da un fotografo che si firma con lo pseudonimo di Fratelli Calgaro (è il nome con cui Beppe Calgaro firma i suoi lavori artistici). Sono volti e ritratti di persone colti nei luoghi di lavoro e di intimità, nelle proprie case, nelle proprie cucine, in spazi in cui provenienza, cultura, censo sono visibili oltre le aspettative di una visione cronachistica che fa le persone tutte uguali, appiattite sul presente e senza storia. «La mostra», mi spiega Daniele Capra, «è l’occasione per vedersi/conoscersi ed innescare una relazione tra le persone del quartiere o, almeno, di una parte di esso: un modo per partecipare, per scambiarsi qualche parola, per andare oltre le porte chiuse delle proprie case». Il lavoro di Fratelli Calgaro infatti è stato attento a soprendere momenti veri, il più delle volte momenti come tutti gli altri, senza messe in posa. L’obiettivo entra e coglie attimi della giornata, che trasferiti all’appartamento della Settima Onda diventano occasione di condivisione, di nuovi legami, quasi di rivelazioni che aprono le porte e fanno sentire meno opprimenti i muri. Una bella idea, semplice e forte, che dimostra quanto la narrazione della vita possa rimetter in movimento la vita stessa.
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Marzo 29th, 2014 at 9:08 am

Un pomeriggio con Matisse

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C’è voglia di capire e di scoprire. Il workshop dedicato all’ultimo Matisse proposto sabato 22 a Casa Testori è funzionato per un doppio motivo: perché il contenuto degli interventi è stato alto e non scontato; in secondo luogo, perché la sala era piena, e questa non è affatto una cosa scontata, in un sabato pomeriggio di primavera e con anche una quota prevista per partecipare.
Quindi innazitutto un grazie a tutti quelli che hanno reso possibile da una parte e dall’altra del tavolo la realizzaione di questo workshop.
Sintetizzo per chi non c’era alcuni dei temi emersi. Ha inziato il pomeriggio Davide Dall’Ombra, facendo riscoprire quel contatto tra Matisse e il giovane Testori. Era il 1943 e l’allora ventenne Testori curò un libro sui disegni di Matisse. Un libro anticipatore perché era il secondo uscito in Italia dedicato al maestro francese, e poi perché metteva subtio a tema la centralità del disegno nel percorso di Matisse. Da segnarsi anche i titoli di alcuni interventi di T. sul Corriere e sul Sabato, negli anni 80: “Il re della luce”; “Matisse una croce in Paradiso”.
Sono titoli che hanno dato lo spunto a Marco Meneguzzo per supportare il suo ragionamento affascinante in cui ha cercato di cogliere quella sottile eterogeneità di Matisse rispetto alle grandi famiglie dell’arte del 900. Un punto chiave, perché questa etereogenità è la componente che permette a Matisse di essere così straordinariamente libero rispetto ai passaggi obbligati della storia dell’arte novecentesca. Composizione e decorazione sono due categorie in cui questa libertà si gioca, senza nessuno timore di veder ridimensionato l’esito finale. Matisse, ha spiegato Meneguzzo, è un artista imprendibile se osservato con categorie scolastiche; è uno assolutamente moderno, ma non “collocabile” in nessuna famiglia della modernità. Inevitabile l’aggancio con quei titoli testoriani: è uno che ha avuto la grazia di vedere la pace dopo il dramma, come dimostrano i suoi crocifissi.
Terzo passaggio del pomeriggio, una conversazione con Basilio Rodella sulla campagna fotografica realizzata per il libro sulla cappella di Vence appena pubblicato da Jaca Book. Una campagna che esalta lo spazio come un tutt’uno, realizzata senza il ricorso a luci aritificiali, per cui la luce, voluta da Matisse, quella filtrata dalle straordinarie vetrate che cambia in ogni istante, torna a riempire di sè lo spazio, a far vibrare le piastrelle bianche dei tre grandi riquadri disegnati da Matisse. «Voglio rendere evidente agli altri l’intenerimento del mio cuore», aveva scritto Matisse alla neo suora Jacques-Marie nel 1945. Non c’è didascalia migliore per il “fiore” di Vence (“fleur” lo definiva Matisse, sapendo che in francese anche “fleurt” ha lo stesso suono). Il grande pittore innamorato, forse di una ragazza diventata suora, della natura, del mondo, di Dio… (la foto sopra fa parte del libro: è la stupenda porta del confessionale, in legno intagliato a giorno)
Ha chiuso il pomeriggio la bellissima e sorprendente carrellata di Marco Casentini che ha dimostrato quanto Matisse abbia contaminato l’arte contemporanea. Siamo tutti figli della Finestra a Cailloure (1918) o della grande Danza dipinta per la Barnes collection di Filadelfia, ha dimostrato Casentino, mostrando anche alla fine anche suoi ultimi lavori. Linee continue, colori piatti, figure interrotte, forme concrete e astratte insieme: nessuno come Matisse ha aperto (o reso liberi) tanti orizzonti.
Ma il viaggio continua: prossimo appuntamento il 12 aprile per vedere insieme la mostra di Ferrara.

Written by gfrangi

Marzo 24th, 2014 at 1:13 pm