Oggi Venerdì Santo, sul tavolo mi ritrovo il catalogo della Mostra dedicata a Bellini a Brera. Ovviamente domina l’immagine della Pietà, uno dei quadri più commoventi del mondo. Da questo dettaglio dei volti, in particolare, non si distogliorebbero mai gli occhi. È un puro elenco il mio: quel loro sfiorarsi delicatissimo; lo sguardo di indicibile dolcezza della madre, trafitto dal dolore ma segnato soprattutto da un amore che non conosce limiti (l’amore di chi consiste tutto/a nella creatura amata); la sua bocca socchiusa non per un lamento ma per quello che sembra un cenno di bacio; l’arrossamento che segna il profilo degli occhi, come una partecipazione alla sofferenza del Figlio; il mento e la guancia che si trattengono ad un millimetro ma non toccano quel Figlio amato. Dall’altra c’è Gesù, di cui è difficile dire, perché in pochi sono arrivati a rendere in questo modo la tenerezza del suo mistero. Il senso di abbandono che lo contraddistingue è qualcosa che va già aldilà della morte: è un affidarsi come situazione risolutiva dell’esperienza umana. Le palpebre abbassate, la bocca socchiusa, il volto reclinato dicono questo, nella cornice di una bellezza da guardare, accarezzare, adorare. Non una fine ma un passaggio. È un Gesù che non si può non amare, che chiama le lacrime come recita la stupenda firma del quadro, per un troppo di densità affettiva.