Recensione delle mostre per gli 80 anni di Gerog Baselitz alla Fondazione Beyelr e al Kunstmuseum di Basilea. Pubblicata su Alias di domenica 8 aprile.
È decisamente profondo il legame tra Georg Baselitz e Basilea, la città dove oggi vive e lavora, dividendo il resto del tempo tra Salisburgo e Imperia. A Basilea nel 1970 era stata organizzata la sua prima mostra in un’istituzione pubblica, il Kunstmuseum, museo a cui l’artista avrebbe poi fatto un’importante donazione dal suo corpus grafico. Nel 1992 Baselitz aveva poi esposto nella galleria di Ernst Beyeler. Così oggi la fondazione voluta da quel gallerista ha organizzato la grande mostra per il suo ottantesimo compleanno (l’artista è nato a Deutschbaselitz, in Sassonia il 23 gennaio 1938). Basilea ha poi completato l’omaggio, esponendo nel nuovo edificio del Kunstmuseum un’ampia selezione dei 149 disegni della collezione che coprono tutto l’arco della sua attività: il primo è un acquarello datato 1955 in cui si firmava ancora con il suo vero nome, Hans Georg Kern. Nome che avrebbe rinnegato nel 1961, per adottare quello tratto dal paese nativo, anche come segno di rivolta nei confronti dell’autoritarismo paterno.
Alla Fondazione Beyeler, nell’edificio progettato da Renzo Piano, la selezione delle opere è impeccabile, nello stile di questa istituzione che propone regolarmente rassegne ai più alti standard di qualità. Nelle scelte si scorge la mano dell’artista, che non ha mai amato gli avventurismi critici. Emblematico quel che confessa nell’intervista in catalogo (sontuoso, ma decisamente caro: 58 euro; le due mostre sono aperte sino al 29 aprile). Baselitz racconta di essere stato testimone attento delle performance di Joseph Beuys: «Tuttavia presi una decisione: va tutto bene, ma io non ne faccio parte. Io sono differente».
Una differenza affermata sin dall’inizio senza incertezze e con una brutalità pittorica che ancora scuote, come si sperimenta varcando la prima sala della mostra. Sulla parete sinistra sono schierati gli 11 pezzi della serie P. D. Füsse (Piedi pandemonici) realizzati tra 1960 e 1963. Una sequenza impressionante di monconi di piedi squadernati in dimensioni monumentali, dipinti con una materia che sembra osmotica a qualche processo di putrefazione. Le immagini sono ossessive e potenti, anche perché le tele sono allestite quasi attaccate una all’altra, proprio secondo le disposizioni di Baselitz. La scelta dei piedi rimanda al rapporto tra l’uomo e la terra. Quella terra che per destino, per Baselitz, era terra tedesca, devastata dall’esperienza demoniaca del nazismo: “Pandemonium” indica la pervasività dei demoni ma anche il luogo dove hanno soggiornato. Se il senso del dipingere doveva essere quello di calarsi nel cuore della storia, si può ben dire che con questo ciclo Baselitz non fa e non si fa nessuno sconto. La pittura con lui si impone come processo necessario e irrinunciabile, lasciando così precipitare in dissolvenza tutti il dibattito sulla fine o meno della pittura stessa. Altre due opere in questa prima sala confermano questa oltranzistica necessità del dipingere, dentro una logica che pare inclassificabile dal punto di vista critico. Si ha l’impressione che nell’esperienza di questi primi anni Baselitz si costruisca una coscienza radicale dell’imprescindibilità della pittura, tale da garantirgli quell’“essere differente” per tutti gli anni a venire.
Il celebre ciclo degli Eroi (1965-66), a volte chiamati anche “Neuen Typen”, testimonia il prender forma di un’umanità neo barbarica, che si trova a riemergere da quelle terre annientate dalle scorribande dei demoni. Tra loro c’è anche un “nuovo tipo” con tavolozza e pennelli. Verrebbe da dire che dalle macerie della storia il pittore spunta alla pari degli altri eroi, senza più teorie sul mondo e senza più estetiche, armato solo di un’aggressività espressiva («La volontà distruttiva diventa l’agente di una nuova armonia. Il punto di partenza è l’aggressione, anche se il risultato finale apparirà come costruttivo», aveva detto in un’intervista a Démosthènes Davvetas nel 1988).
Si intuisce come davanti ad un simile azzeramento del mondo, occorra una mossa radicale. Un capovolgimento. Ed è la mossa che Baselitz mette in atto a partire dal 1968 e che diventerà il marchio con cui si è reso inconfondibile. Le due mostre svelano in modo preciso il prender forma di questa intuizione. Alla Beyeler è esposto un quadro raro, di collezione privata, Das Kreuz, datato 1964. In sottofondo, nell’impronta geometrica che tocca i limiti della tela, si può cogliere quasi un omaggio non dichiarato ad un altro grande azzeratore dell’arte novecentesca, Kazimir Malevich, ma in superficie il quadro è un concentrato di quell’aggressività pittorica che Baselitz ha eletto a propria grammatica. Tra i quattro bracci della croce si riconosce il paesaggio di Deutschbaselitz; nell’angolo alto a destra, a sorpresa, il paesaggio appare però rovesciato all’ingiù. Sono di tre anni successivi due disegni esposti al Kunstmuseum (Ein Hund aufwärts, un cane verso l’alto, e un’altra croce con un coniglio appeso con gambe in aria) in cui il rovesciamento si è consumato: a vedere questi due disegni, densi di una chiara energia generativa, si ha la precisa sensazione che Baselitz inneschi questo suo capovolgimento su un motivo ben consolidato nell’iconografia, quello della crocefissione di san Pietro. Il che dà alla sua scelta una radicalità e anche una solidità ancora maggiori. Un successivo disegno esplicita la transizione dichiarandola anche nel titolo Mann am Baum abwärts: un uomo appoggiato ad un albero “all’ingiù”.
Entrando nella quarta sala si ha subito l’evidenza di come il capovolgimento liberi un nuovo e vastissimo spazio alla pittura. Troviamo Elke, la moglie di Baselitz, prima in un ritratto a testa in giù del 1969, in un insieme molto composto e ancora quasi trattenuto. Di fronte, a fianco dell’Aquila scelta come manifesto della mostra, si rivede Elke in un “fingermalerei” (quadri dipinti con le dita e il palmo delle mani) del 1972: Baselitz dimostra di aver mollato definitivamente gli ormeggi e di aver acquisito una nuova libertà, che è sia tematica che cromatica. Una libertà che alla fine degli anni 70 gli permette di avventurarsi, ma sarebbe meglio dire di “irrompere”, anche nella scultura, ispirato dalla forza degli idoli africani camerunensi. Il Camerun era stata colonia tedesca e quindi in Germania si trovavano tanti oggetti sottratti al paese africano: Baselitz in particolare era stato segnato da una mostra vista a Monaco nel 1973. AL centro di quella stessa sala c’è Modell für eine Skulptur, l’opera che nel 1980 suscitò scandalo alla Biennale di Venezia, in quanto il gesto era stato scambiato per un saluto nazista: per Baselitz è impossibile non fare i conti con i lati oscuri della storia…
Nelle ultime sale il percorso è dominato dai Remix, rifacimenti di proprie opere del passato, con un segno più calligrafico e leggero. È una serie iniziata nel 2005 che è nata, come lui stesso ha confessato, «dall’ammirazione per ciò che ho fatto e ora non sarei più in grado di fare». È un Baselitz un po’ in surplace, elegante, leggero a volte un filo accademico, che si concede anche un cedimento per quanto riguarda la scultura, passando dai blocchi di legno brutali e selvaggi alla pulizia ben più controllata del bronzo , come nel grande gruppo BDM (2012) esposto nel giardino della Fondazione. BDM sta per Bund Deutscher Mädel, la federazione delle ragazze tedesche di cui faceva parte la sorella di Baselitz. Meglio tenersi negli occhi il dialogo formidabile e anche ironico tra Baselitz ed Elke, colossi in abbigliamento da spiaggia, con costumi color ultramarino e orologi da polso sintonizzati sulle 10. A quell’ora la storia evidentemente passava più leggera…