Questo pensiero sul Salvator Mundi di Antonello l’ho scritto per la rubrica Riquadri che tengo sul bel sito Piccole note. La ripropongo anche qui, un po’ a bilancio di una mostra che non dimenticherò facilmente.
Ora che si è chiusa la mostra su Antonello al Mart (la più bella del 2013, non solo a parer mio), è importante tornare su un quadro eccezionale che era esposto. È il Salvator Mundi, arrivato dalla National Gallery di Londra. È un quadro chiave, firmato e datato 1465, non solo della storia di Antonello, ma anche della storia della pittura e in un certo senso della “nostra” storia. Il quadro è piccolo, in obbedienza a quella committenza nuova (la “gens nova”: mercanti, borghesi…) che Antonello aveva intercettato e che richiedeva opere a funzione devozionale per ambienti privati. È un’opera che applica però un canone antico: il volto di Cristo benedicente, ha la ieraticità di un’icona. Ha uno sguardo fisso verso di noi, uno sguardo non consumato né consumabile dal tempo. Per quanto la forma del volto sia pienamente compiuta e non solo stilizzata come accade nelle icone, riesce a trasmetter quella dimensione che, nella forma umana, lascia trapelare un’impronta del divino. Il Salvator Mundi è in atteggiamento benedicente, un po’ come gli antichi Cristi Pantocratori delle absidi medievali. Le due mani spuntano da quel piccolo davanzale in primo piano, che ci dà una sensazione di un “da sotto in su”, in contrasto con la frontalità chiara del volto. Ma è proprio questa semplice correzione nella costruzione del quadro, che innesca una sorta di accensione. In più c’è da osservare un particolare chiave: Antonello corregge in corsa la mano benedicente, che in una prima versione era messa più di traverso e che invece nella versione definitiva ruota in posizione frontale, imponendosi così di realizzare uno scorcio della massima difficoltà. Ma questa rotazione è come una leva che spacca e apre lo spazio. Alle due dimensioni della tavola ne aggiunge una terza, che è quella che non va verso il fondo, ma viene verso dove noi siamo.
Antonello mettendo in campo le innovazioni della nuova pittura italiana capace di aprire profondità e volumi, ne fa uno strumento per creare una contiguità tra lo spazio dove Cristo è e quello dove noi siamo. Dieci anni dopo avrebbe fatto la stessa cosa con la mano allungata della sua meravigliosa Annunciata. Ma qui c’è lo stupore della prima volta. E anche la sensazione di un’audacia messa in campo. È questo che dà un’elettricità e una vibrazione così contemporanea, a questa icona così disciplinatamente antica. (Non è un caso che Romeo Castellucci l’avesse scelta, riprodotta su scala enorme, come sfondo del spettacolo tanto stupidamente discusso ma tanto vero, Sul concetto di volto del figlio di Dio).
Dove porti la strada avviata con la rotazione delle dita benedicenti, lo si vede nel Cristo alla colonna del Louvre, pure presente in mostra. Lì la rotazione è di tutti i volumi; è una torsione che non provoca nessuna distorsione delle forme, e che racconta uno stato vertiginoso del dolore che non si esprime con lacerazioni ma con una spasmodica compostezza compositiva.