Bellissima lezione di Flavio Fergonzi su Morandi per il corso Rovesciare il 900. È stato un approccio da autentico rovesciamento, che allontana la pittura di Morandi dall’approccio naturalistico o architettonico (nel senso della costruzione “astratta” del quadro) che gli viene attribuito. Con Morandi invece accade una sorta di spostamento linguistico, nel senso che cambia lo statuto del quadro: Morandi “dipinge la pittura”, ha detto Fergonzi, nel senso che i soggetti nella loro immobilità e ripetitività diventano strumenti non di una rarefatta rappresentazione ma di una riflessione sulla natura stessa del quadro. A proposito, Fergonzi ha raccontato un episodio datato inizio 1960. Manlio Cancogni era venuto a Bologna per un’intervista da pubblicare sull’Espresso. Terminata la quale, insieme a Morandi era uscito per fare un giro per Bologna. Erano anni di grandi trasformazioni, e le città si adattavano sempre di più alle necessità del traffico automobilistico. Ad esempio comparivano le prime strisce pedonali: vedendo degli operai intenti a dipingerle ad un incrocio, Morandi se ne uscì con questa battuta rivelatrice: «Finiremo a dipingere così noi pittori». C’era ironia e un po’ di disprezzo in quella sua battuta. Ma Morandi ci prendeva: Frank Stella in quegli stessi anni dipingeva i quadri a strisce regolari. Schifano metteva su tela il nero dell’asfalto con il bianco segmentato dello spartitraffico. E lui? Lui, Morandi su un piano più sofisticato, stava muovendosi nella stessa direzione. Nell’apparente immobilità c’è un continuo slittamento linguistico. Forme calme dipinte con pennellate drammatiche; pennellate che a loro volta nel disporsi sulla tela disegnano linee in contrasto con quello che chiederebbe una logica rappresentazione degli oggetti. Spiega Fergonzi: «La stesura dei piani cromatici non segue, inoltre, l’ordine tradizionale (partire dallo sfondo per concludersi col primo piano) ma uno inverso, con lo sfondo dipinto alla fine: Morandi aumenta in questo modo il carattere di sospesa atemporalità della natura morta». Siamo decisamente lontani da ogni prospettiva naturalistica: Morandi lavora infatti sul secondo livello, quello della stesura della pittura. Si inventa una pittura di superifcie, affermando quella grande conquista dell’autonomia della superficie. La superficie era indicazione di qualcosa, con cui Morandi ha fatto i conti prima di tutti del tutto appartato.
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La perfezione s’addice a Modigliani
Davvero straordinaria la mostra delle sculture di Modigliani vista al Mart di Rovereto, curata da Flavio Fergonzi. Bellissimo l’allestimento (le sculture di Modigliani, tutte dentro teche, al centro del percorso; sui lati quelle degli artisti di quegli anni generosi di Parigi, tra il 10 e il 20 e tutte le sculture primitive o antiche che avevano innescato tanta generosità di nuove forme). Ad un certo punto dopo il primo corridoio, il percorso svolta verso destra e ci si trova davanti a questa immagine stupefacente che vedete qui sopra. Il capolavoro, oggi conservato alla Tate di Londra, appare di profilo: donna-pellicano, mi viene voglia di chiamarla. Una sagoma bislunga, plasmata in un calcare caldo che traspira. Il mento sembra farsi grembo. È impressionante come questa verticalità quasi esasperata sappia farsi larghezza. Il che riporta la forma dentro un equilibrio sacrale e sensuale insieme. Poi se ci si gira attorno, la testa provoca uno choc visivo. Diventa sottile e affilata come un coltello; una prua che sbuca da un tempo senza tempo; qualcosa di un’eleganza implacabile. L’asse costituito dalla linea del naso perfettamente retta, lunga come da qui a un infinito, crea un soprassalto rispetto al tracciato così sovranamente morbido del profilo. Cambia anche lo sguardo: eretto e fermo come quello di una dea, nella prospettiva di profilo. Dilatato e un pizzico pettegolo nella visione frontale.
Grandissima scultura, davvero. Unica pecca, il modo in cui è stata fotografata nel catalogo, con una luce sparata da sotto in su, che ne snatura la calma ed brucia con un bianco esasperato il caldo colore del calcare.
Qui sotto, uno dei passaggi più belli della mostra, la Testa di Modigliani (da Washington) dialoga con la sua “antenata”, la Battista Sforza di Laurana. Sull sofndo un kouros dall’Archeologico di Firenze.
100mila lire per Morandi
In occasione della bella e sobria mostra di Morandi organizzata a Villa Panza a Biumo da Anna Bernardini (Giorgio Morandi, collezionisti e amici, sino all’11 gennaio), veniamo a riscoprire il profilo di un artista la cui moralità oggi certo sconcerterebbe. Quando Francesco Paolo Ingrao, collezionista sardo, ansioso di avere una sua opera, gli mandò un assegno di 100mila lire, ebbe questa risposta da un Morandi imbarazzato: «Sarà necessario che ci intendiamo perché non mi è possibile accettare tanto denaro per un dipinto». Tanto denaro per un dipinto: e sì che i dipinti erano quasi tutti centellinati e filtratissimi capolavori. Come la serie di bottiglie che animano l’VIII sezione della mostra varesina. Bottiglie lunghe e strette dei vinai e delle trattorie bolognesi, che Morandi colorava di bianco per evitare il disturbo dei riflessi luminosi. Composte in un equilibrio meditato e assoluto, vibrano di una tensione quasi da spasimo. Difficile immaginare un simile equilibrio di pudore e di arditezza.
Sempre nel bel saggio in catalogo (edizioni Skira) di Flavio Fergonzi viene ricordato un episodio che consacrò la fama di Morandi, al di là certamente dei suoi desiderata. Nella Dolce Vita di Fellini, Mastroianni e Steiner dialogano davanti a una natura morta morandiana: «Gli oggetti sono immersi in una luce di sogno… dipinti con uno stacco, un rigore che li rendono quadi intangibili. Si può dire che è un’arte in cui niente accade per caso». Chapeau. (Certo è sorprendente pensare che Fellini sfosse stato stregato da Morandi, così lontano da lui. Sarebbe bello saperne di più).