Robe da chiodi

Archive for the ‘art today’ Category

Biennale: quando l'arte ama il presente

one comment

Wood-installation_1417067i

L’editoriale del prossimo numero di Vita. Pensieri positivi dalla Biennale

Al centro del percorso della Biennale veneziana di quest’anno, il curatore Daniel Birnbaum ha voluto fare un colpo di teatro. Nello spazio più grande del magnifico edificio delle Corderie (un capannone ante litteram…) ha chiesto all’artista camerunense Pascal Marthine Tayou di immaginarsi la fisionomia di un villaggio globale. L’idea ci stava, visto che il titolo (molto bello) di questa Biennale è «Fare mondi». Tayou non si è fatto pregare e non ha tenuto a freno la sua immaginazione. Così ci si ritrova in mezzo a un gruppo di capanne africane (foto sopra), tra crocchi di persone che confabulano (realizzate con i materiali più impensati e fantasiosi), mentre il volume assordante di video che proiettano immagini globali, completa la dimensione di spaesamento. Ai margini del villaggio, piloni bianchi in polistirolo, da cui spuntano chiodi arrugginiti, raffigurano crudamente le bruttezze incompiute che la modernità scarica ad ogni latitudine. Prima di uscire si scopre che un’immensa cascata di carta macinata scende a valanga dal soffitto. Non è maleodorante, ma rappresenta l’assedio della discarica. Che Tayou sia un artista di talento lo dimostra il fatto che quando si passa oltre, si è tentati di ritornare sui nostri passi, perché ci è affezionati a quel villaggio, perché in fondo riconosciamo davvero qualcosa di casa nostra.

twink

Qualche campata più avanti, la Biennale riserva un’altra sorpresa. In uno spazio reso buio, s’accendono e si spengono, come palpitando, decine di lucine. Sono gli elettrodomestici con cui un artista questa volta cinese, Chu Yun, ha popolato quello spazio (foto sopra). Nel buio, all’inizio, l’occhio non li scorge. Poi, man mano che si palesano ti prende quasi un po’ di commozione. In fondo sono strumenti del nostro quotidiano. Dobbiamo a loro un po’ del nostro benessere. E poi parlano un linguaggio universale.

Tutto questo e tanto d’altro accade in una Biennale in cui l’arte gioca le sue carte per farci aprire gli occhi, per stabilire connessioni, per farci amare e apprezzare il mondo in cui viviamo, per quanto complicato sia. È un tentativo generoso, a tratti trascinante, che colpisce perché è privo di risentimenti verso il presente. Semmai prende in contropiede per un’energia lirica innescata nei modi che meno ti aspetti: come quell’artista indiana, Sheela Gowda (foto sotto), che ha composto poeticamente una lunga e altissima parete, appendendo vecchi paraurti cromati con trecce lunghissime di capelli. Potremmo continuare a lungo: ma la raccomandazione è che non vi facciate scappare l’occasione di vedere questa Biennale, che ha preso alla lettera il compito assegnatole: non si limita a fotografare i mondi in cui viviamo (il che sarebbe accademia), ma li spinge avanti. «Fare mondi», appunto. Un input che potrebbe benissimo diventare un programma per tutti noi, a partire da noi che facciamo Vita.
Ps: Tutto questo accade a Venezia, una città che a dispetto di tutte le Cassandre sa essere viva come poche altre città italiane. Una città non scontata, che accetta la sfida complicata di essere crocevia di flussi (i 100mila turisti al giorno), palestra di meticciato culturale, e insieme vetrina per nababbi. Giacché non si vive di sola aria…

ITALY-ART-VENICE-BIENNALE-INDIA

Written by giuseppefrangi

Luglio 28th, 2009 at 10:47 pm

La preghiera dell'artista

one comment

KleinNella bella recensione alla mostra luganese di Yves Klein (Avvenire, 21 luglio), Maurizio Cecchetti riporta questa preghiera rivolta dall’artista a Santa Rita. Le chiede di intercedere presso «Dio Padre Onnipotente perché mi accordi sempre in nome del Figlio e in nome dello Spirito Santo e della Santa Vergine Maria la grazia di animare le mie opere e che esse divengano sempre più belle… Che tutto ciò che esce dalle mie mani sia bello» (il corsivo è mio: prima ancora della bellezza c’è la vita…). il sinistra, il testo completo come lo si legge in mostra, nella foto che mi ha fatto avere l’amico Luca Fiore: a lui devo anche la bella frase di Basilico che leggete qui a destra))

Aggiungo la parte finale della recensione che ho scritto per il mensile Monsieur alla stessa mostra.

«Klein con il suo Ikb (Yves Klein Blu) ha fatto tutto. Ha realizzato ad esempio le Antropometrie, ottenute appoggiando direttamente il corpo di una modella, prima coperto di colore, su delle grandi tele, davanti agli occhi di spettatori chiamati ad essere testimoni della performance. Quel che a Klein interessava non era la provocatorietà del gesto. Con il suo sguardo ingenuo di bambino perennemente  affascinato dal mondo, cercava di stringere il legame tra la vita e l’arte. Di immettere, quasi di travasare l’energia e la bellezza dei corpi dentro le tele.  Corpi, ovviamente, illuminati dal suo blu.
Per capirne il significato bisogna tornare al significato che questo colore, per tanti secoli rarissimo e più prezioso dell’oro (come racconta un affascinante libro di Michel Pastoureau), ha avuto nella storia della grande pittura. Il blu è il colore dell’infinito e del mistero. Di un infinito e di un mistero resi famigliari all’uomo, tant’è vero che nella tradizione figurativa cristiana era il colore destinato all’abito della Madonna. Klein non si scosta da questa tradizione, semmai la innova con straordinaria libertà. L’adegua alla mente e all’occhio dell’uomo moderno, laico e secolarizzato ma ugualmente ansioso di trovare risposte al proprio destino. Che ci sia riuscito, ci sono pochi dubbi. A 50 anni di distanza, le sue opere hanno ancora l’effetto di un lampo capace di suggestionare il nostro sguardo e di spalancare orizzonti che davamo tutti per perduti».

Written by giuseppefrangi

Luglio 21st, 2009 at 2:52 pm

Posted in art today

Tagged with ,

Kounellis: Tiziano, l'inizio di tutte le libertà

3 comments

In una bellissima intervista per Il Giornale d’arte (a cura di Franco Fanelli) Jannis Kounellis torna sul tema del rapporto tra l’arte contemporanea e la Chiesa. Il filo conduttore del dialogo è la rivendicazione dello spazio della drammaticità dentro l’arte, cosa che minimalismo e concettualismo hanno negato o poco alla volta marginalizzato. «Penso che noi siamo europei e non americani. Penso che per noi europei, che veniamo dall’ombra, la drammaticità faccia parte dell’inizio di di ogni discorso, di ogni opera. Come artista europeo e occidentale non posso non affrontare il dramma che mi unisce alla tradizione… dico che l’artista trae dalla tradizione e dal passato la libertà di rinnovare la forma».
1assunt4La Madonna di Tiziano. «Si deve prendere atto che nella chiesa ci sono due tipi di iconografia: quella cattolica e quella ortodossa…È chiaro che c’è una grande differenza tra una Madonna di bizantina e una Madonna di Tiziano: quest’ultima è “incarnata”, quindi non parte da un’idea platonica che è alla base dell’iconografia bizantina e ortodossa. La Madonna di Tiziano è l’inizio di tutte le libertà e come pittore non puoi non essere attratto da quella Madonna. Rappresenta un’intuizione ideologica, portatrice di una libertà che è dialettica e che mette in crisi la stabilità».
I tagli di Fontana. «Anche il taglio di Fontana è “incarnato”! Io penso che nasce dai tagli inferti al corpo di Cristo: la tela diventa allora una superficie simile alla pelle e il taglio è la ferita in cui San Tommaso mette il dito per verificarne la fisicità».
La comodità delle icone. «Molti oggi sono attratti dalle icone, che come ho detto sono dogmatiche, perché sono più “comode”, non pongono problemi laddove neutralizzano le differnze che esistono nelle proposte di un pittore. Ma la storia dice che tutti coloro che si sono occupati di cristi e di madonne come Giotto, Masaccio, lo stesso Caravaggio, sono riusiciti a proporre cose assolutamente rivoluzionarie: nell’arte occidentale questo ha a che fare con la chiesa in quanto popolo e non con la spiritualità».

(Tre note:
Mi piace che Kounellis si qualifichi “pittore”. La dice lunga su quanto sia ampio e piena di libertà questa categoria.
Mi piace che Kounellis ribadisca senza ambiguità come la vera partita nell’arte di oggi sia quella di prendere di petto questa drammaticità o invece di liquidarla.
Mi piace questa centralità di Tiziano. È un’intuizione che apre orizzonti, che spinge a osare, che esalta la libertà)

Written by giuseppefrangi

Luglio 16th, 2009 at 7:17 pm

L'arte contemporanea, questione di millimetri

leave a comment

beer quadrato2È stato un successo che ci ha un po’ travolto quello di Giorni Felici: oltre 2mila persone a casa Testori, in una settimana. È bello veder la gente uscire contenta dopo aver visto opere che se viste in un museo avrebbero suscitato perplessità o rifiuto. Invece la casa crea un clima diverso, induce ad atteggiamenti più pazienti, spinge tutti a capire o ad essere curiosi. Così le persone compiono tutto il percorso, attente a non saltare nesuna sala e lasciano commenti soddisfatti sul libro dei visitatori. Nessuno contesta un attrito tra la struttura assolutamente normale del contenitore (una casa che più casa non si può)  e il contenuto di molte stanze, ardito, spiazzante, a volte fisicamente conciliante con l’idea che quella possa essere usata come casa. Questo deve far pensare: la chiusura all’arte contemporanea non è detreminata dalle opere, ma dalla pretenziosità un po’ elitaria con cui le si presenta. Alla sfida delle normalità, l’arte contemporanea trova spazi inattesi di dialogo con un pubblico molto più ampio.
Dialogo significa punti di contatto reali. Un aneddoto: a un acquirente di due dittici iperminimalisti di Christiane Beer, l’artista tedesca che oggi lavora a Milano (ha sue opere nella nuova Bocconi) ho chiesto come mai avesse scelto proprio quelle opere così “mute”. Lui mi ha spiegato di fare un lavoro in cui una frazione di millimetro decide o meno la riuscita del lavoro stesso. «E la Beer è una che ha capito quanto sia assolutamente decisiva la frazione di millimetro». Meglio di qualsiasi analisi critica.

Written by giuseppefrangi

Giugno 26th, 2009 at 4:47 pm

Posted in art today

Tagged with ,

Felici questi Giorni Felici

2 comments

riccardo gavazzi2È decollato Giorni Felici a Casa Testori a Novate. Un’esperienza insolita e entusiasmante di incontri e di contaminazioni. 22 artisti, a ciascuno una stanza. La casa, il brutalismo della ferrovia davanti alle finestre, a pochi metri, la sorpresa del giardino smagliante di verde alle spalle. È un luogo potente e insieme liberante. Speriamo di ripeterlo.
Ogni artista ha motivato la sua presenza e il so lavoro con brevi note, spesso suggestive. Mi hano colpito quelle di Andrea Bianconi, che occupa la veranda al piano terra, e quella di Paolo Rosa di Studio Azzurro che ha portato il video dei Due Lai testoriani in una stanza invasa dall’oro.
Chi non vuole perdere Giorni felici qui trova i dettagli.

Nella foto: la Farfalla smagliante di rosso di Riccardo Gavazzi.

La Stanza è un’esplorazione della mia personale geografia, è un cammino nella mia mente. È il semaforo che si trova  nella mia mente, la legge a cui tutti dobbiamo sottostare, l’uccello che si trova sopra la mia testa. Utilizzo centinaia di uccelli freccia in volo, di tessuto, carta e rete metallica, tra libertà e vincolo, per portarmi e portarti da qualche parte sconosciuta. Continue sovrapposizioni, costruzioni e decostruzioni.
Immagino il mio cervello, claustrofobico e complesso, come una grande voliera. Ballerei per ore in questa stanza.
Andrea Bianconi

Le riprese di questo video nascono curiosamente per una esigenza di casting. Eravamo all’inizio della preparazione del nostro film “Il Mnemonista” e ci siamo sempre immaginati Sandro Lombardi come naturale interprete.
Sandro lo conoscevamo dai tempi dei Magazzini Criminali, c’eravamo sfiorati molte volte anche per dei lavori comuni, e non ci siamo mai staccati dall’idea che il personaggio principale di quel progetto che da tempo coltivavamo non potesse essere che lui.
La rappresentazione dei Due Lai al Piccolo Teatro di Milano era dunqu l’occasione, dopo il suo assenso al progetto, di avvicinarsi al suo mondo: sperimentare il suo viso, la sua voce, penetrare attraverso i suoi gesti nella visionaria interpretazione.
L’occhio della telecamera perlustrava le espressioni più impercettibili, indagava ogni potenzialità, ogni battito di poesia. Tutto pensando al nostro film, ritagliando la sua immagin unicamente dentro la nostra scena immaginata.
Di Testori, di questo Testori, non ci eravamo ancora accorti. Ma fu proprio Sandro a renderci inevitabile quest’incontro. La sua trasfigurazione non poteva prescindere da que testo, non poteva che indurci ad ascoltare le parole, a scivolare dentro quegli accostamenti esplosivi, ad apprezzar la straordinaria immaginazione che prendeva forma. Grazie Sandro per averci introdotto a lui e per la tua impagabile prova nel Mnemonista.
Piacere Testori di averti conosciuto così.
Studio Azzurro

Qui un filmato sulla mostra e l’articolo di Francesca Bonazzoli sul Corriere

Written by giuseppefrangi

Giugno 20th, 2009 at 12:31 pm

Gillo Dorfles biennalesco: quella rana doveva essere verde!

leave a comment

La Biennale ha questa caratteristica: è la sola mostra capace di muovere i critici. Non si può scrivere della Biennale senza averla vista. O meglio senza esserci stati, perché in realtà i più  vanno essendosi già fatti l’idea prima ancora di aver visto. Insomma vanno con gli articoli in valigia, cui si aggiunge qualche tocco di colore. Anche quest’anno è andata più o meno così. Ognuno ha la sue ragioni e le sue coordinate culturali con cui motivare i propri giudizi: certo mi sembra ci sia una scarsa propensione a farsi sorprendere (in sostanza, per stare a Damien Hirst, a nessuno capita di esclamare: «cazzo,questa che cos’è?»).

TKmag495a42818f9b3ITALY-ART-VENICE-BIENNALE-US

Setacciando le cronache incrociandole e depurandole dai preconcetti inquinanti, abbiamo capito che il padiglione polacco di Krzysztof Wodiczko (a sinistra) è il più ammirato. Che quello americano di Bruce Naumann è il più discusso (Leone d’Oro per un’opera impressionante ma già vista, foto a destra). Che il padiglione Italia è molto debole nel suo insieme. Che il Fare Mondi all’Arsenale, curato da Daniel Birnbaum, ha una sua freschezza capace di sorprendere. Che Nathalie Djurberg, già vista alla Fondazione Prada di quest’anno, ha una grinta allucinata fuori dal comune. Che davanti all’allestimento di Renzo Piano per il suo amico Vedova si resta a bocca aperta (e non poteva essere altrimenti).

Ma ci voleva il vecchio Gillo Dorfles per darci uno sguardo disincantato e insieme affascinato di questa Biennale. Il Corriere lo ha messo in prima pagina e poi fotografato, vestito in un inappuntabile completo beige, con tanto di fogli per annotazioni in mano. Il Gillo “biennalesco” la definizione è sua) scrive senza acrimonie, sottolineando alcuni giudizi a tutto tondo. Constata l’arretramento dei video, cui però non corrisponde una ripresa della pittura: «non possiamo non constatare quanto modesto sia l’apporto della tela dipinta». Lui, studioso di tutti i linguaggi alti e bassi, critica certa arte si concede derive troppo facilmente ludiche. Poi con quell’aria birichina del nonuagenario che si puà permettere tutto, scrive questo del Ragazzo con la rana messo dal neo doge François Pinault sulla Punta della Dogana: «Anche la statua di Carles Ray, Ragazzo con la rana (balordo riferimento alle antiche sperimentazioni di Galvani) avrebbe avuto un po’ più di fascino se l’antico anfibio fosse stato di un bel marmo verde del Belgio!».

Written by giuseppefrangi

Giugno 10th, 2009 at 11:05 pm

L'onda nera di Vanessa Beecroft

leave a comment

vanessa11

Io non c’ero ma chi c’era mi ha raccontato del clima sospeso che si respirava al Pac durante la perfomance di Vanessa Beecroft. Si sentiva il fruscio dei passi, il sussurro di voci basse, il click delle fotografie. A VB bisogna dare atto di essere riuscita in un’impresa non facile: mantenere un equilibrio che facesse cadere la performance o nel sentimentalismo, o nello stilismo. 22 uomini neri, seduti ad una lunga tavola trasparente, apparecchiata senza piatti né tovaglia, con polli arrosto buttati sul piano, per dare un’impronta ancor più prorompente al cibo, quel cibo che abitualmente a loro manca. C’era un che di selvaggio in quel rito, che faceva da contrappeso all’eleganza visiva e lungilinea dell’insieme. Rispetto alle altre perfomance di VB, c’è qualcosa di nuovo. I soggetti non sono come “robotizzati” e tenuti sotto stretta regia, come accade nelle perfette perfomance con le modelle. In questo caso i clandestini sono soggetti liberi, in un certo senso fuori controllo: e questo dava all’insieme un che di drammatico. Come se da un istante all’altro potesse accadere l’imprevisto, o addirittura l’irreparabile su quel l’immenso tavolo-zattera. La vita di quei 22 clandestini, per quanto disposta ordinatamente come apostoli di un’ultima cena, era vita in bilico. E così VB ha lasciato che fosse. Facce abbrutite da giornate (e notti) impossibili, giacche mal portate. Piedi nudi. Occhi un po’ persi. Sono un punto misterioso di umanità, approdato nel nostro mondo, una presenza che non parla, ma che ti arriva inevitabilmente addosso, con quel senso potente, quasi implacabile di attesa. Raramente il grande fenomeno dell’immigrazione ha avuto una rappresentazione così a filo di realtà, cioè drammatica senza essere retorica. E davanti a loro, noi, ammirati, spaesati, attoniti. (Per dirla tutta: dubito che VB stavolta finisca su Vogue. Stavolta s’è messa di traverso)

Poi mi viene un’ultima annotazione: VB riesce a tenere fede al proposito annunciato di mirare comunque a un senso complessivo di bellezza. Basta scorrere le foto per constatare come la brutalità di ogni storia non ne rinneghi la bellezza. Queste sono le mie impressioni, di uno che non ha visto, ma ha sentito nell’aria la scossa partita da VB.

(la foto è di Vanessa Beecroft. L’intera sequenza sul sito Vita.it)

Written by giuseppefrangi

Marzo 18th, 2009 at 8:37 pm

Aldo Rossi raccontato da vicino

leave a comment

L’amica Paola Marzoli, che è stata stretta collaboratrice di Aldo Rossi, mi manda queste schegge di ricordi e di pensieri. Sono schegge che raccontano il personaggio, così profondo e così irrisolto. Gli schemi delle controversie ideologiche e culturali evidentemente non raccontano tutti. Un grazie sincero a Paola.

«Azzurro. Ricordo che quando sono entrata nel ‘nuovo’ studio di Rossi in via Maddalena sono rimasta colpita dalle pareti azzurro intenso, profilate da cornici bianche neoclassiche. Allora per gli architetti c’era solo il bianco. il primo studio era in via lanzone. dentro il cortile della casa subito prima dello gnomo (venendo da sant’ambrogio). Li mi ricordo che avevo dipinto di azzurro il piccolo plastico della fontana di segrate, primo progetto realizzato da rossi. Credo di averlo ridipinto 4 o 5 volte. non era mai abbastanza azzurro, abbastanza pieno. Mi sembra che l’azzurro (questo intenso, questo che è dei cieli quando non si capisce se sono senza nube o quasi neri di tempesta) sia il colore più carico. e poi mai abbastanza carico. Saturo. dopo averlo visto non so se oserò metterlo dietro i rami dell’ulivo. tanto non lo decido io. se c’è c’è. Certo non so interpretarlo. Certo non mi appare un colore ‘sereno’. Per essere sereno deve essere chiaro. I greci dicevano il cielo sidereo (di ferro). E il mare color del vino e il sangue nero».

«Anni fa quando ho fatto in facoltà  di architettura una comunicazione su Rossi mi  ricordo che avevo detto qualcosa del tipo che ‘la sua disperazione lo  teneva abbrancato alle gambe del tavolo della nonna. E poi Boullè e  Ledoux a tenerlo  dritto in piedi.
L’azzurro del cielo (il titolo della piccola mostra che si è tenuta il mese scorso a Milano)  è il titolo di un romanzo  di  Bataille. Abbastanza inquietante.   Era il motto che Rossi aveva usato  per il concorso del Cimitero di Modena. Che ha vinto nel 1971 e che  è tutt’ora in esecuzione.  Chissà perché se lo sono quasi dimenticato.  Oggi l’oscuro, il dramma,  va di moda. Ma esposto, sbandierato raccontato. Oggi niente martirio  caldo e concentrato  e tutto esibizione fredda tirata in lungo e in  largo.   L’esplosività interna, concentrata rattenuta  di Rossi  non si  capisce nemmeno cosa sia».

(Nota bene: il romanzo di Bataille è stato ripubblicato da Einaudi lo scorso anno. In copertina ha una Venere blu di Yves Klein).

foto1

Nella foto: il muro di casa Alessi a Suna di Verbania. Rossi si definiva un “laghista”

Written by giuseppefrangi

Marzo 11th, 2009 at 11:13 am

Paccottiglia futurista

one comment

So che chiedere una tregua a dei guerrafondai interventisti è tempo perso. Ma il centenario del Futurismo è appena cominciato e già non se ne può più: le mostre spuntano dappertutto. A Palazzo Reale di Milano pare ci siano 500 pezzi: da non uscir vivi. Praticamente un’alluvione. Ci mancava solo che l’assessore milanese organizzasse una ridicola rissa in Galleria, come un quadro vivente. A furia di celebrarli li si rende noiosi. Vezzeggiare dei provocatori, non è rendere loro un grande onore. E poi, il bello del futurismo è durato poco. È stato veloce come la velocità che hanno celebrato e cavalcato. Dopo è stata solo una lenta discesa a motori spenti. La benzina è finita presto: non poteva essere altrimenti. Essendo degli incendiari, quella che non hanno “bruciato” per far rombare i motori, l’hanno buttata tutt’intorno. E con la benzina è finita presto anche la caffeina che eccitava le notti.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 5th, 2009 at 8:47 pm

Posted in art today

Tagged with ,

Una nota a pie' di pagina

leave a comment

Lo dice Charles Saatchi in un’intervista al Corriere a proposito dei pittori da lui lanciati in questi anni: alla fine, la maggior parte dei protagonisti della Young British Art, saranno tutt’al più una nota a pie’ di pagina nelle storie dell’arte del futuro. Onestà un po’ cinica del mercante e del pubblicitario. Che dopo aver creato delle mitologie, riporta tutti con i piedi per terra. Che la critica abbia da imparare?

(A proposito. Al Mambo di Bologna, un’ala è dedicata alla nuova arte italiana. Si fa un giro per vedere chi c’è e chi non c’è – e in genere quelli che devono esserci ci sono sempre tutti. Così t’accorgi che il museo si riduce a uno scontato appello. Ricordare, si ricorda oggettivamente poco, e in genere sono cose già viste in altri musei… Ma la giovane arte non è meglio che vada per le strade a misurarsi con la vita invece che accasarsi comodamente nelle sale di un museo? E se domani fossero solo una “nota a pie’ di pagina”?)

Written by giuseppefrangi

Gennaio 25th, 2009 at 11:32 pm