Robe da chiodi

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Opalka, Kabakov, Kounellis: quell’intenso filo rosso

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“Tre maestri”: il libro di Lóránd Hegyi meriterebbe di essere letto anche solo per aver rispolverato nel titolo questa categoria da cui la nostra epoca sfugge.

Maestro è qualcuno che con la sua presenza o la sua opera segna e spinge in avanti la vita e la coscienza di chi segue. Nel caso del libro di Hegyi i maestri sono tre artisti che non sono stati legati da rapporti particolari e che sono uniti dal fatto di essere tutti e tre migranti, com’è migrante lo stesso autore, che è nato a Budapest e ha diretto per 15 anni una delle istituzioni più vive sul fonte dell’arte di oggi, il Musée d’art contemporaine di Saint-Etienne. Roman Opalka, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis: sono loro i tre maestri che Hegyi raduna in questo libro, tenendo come filo conduttore quello delle loro “interrogazioni sul tempo” (“Tre maestri. Interrogazioni sul tempo. Roman Opalka, Ilya Kabakov, Jannis Kounellis”, Electa, 20 euro, 92 pag.). È un libro che procede con grande chiarezza, senza mai sovrapporre le posizioni e le esperienze dei tre protagonisti, ai quali vengono dedicati singoli capitoli che, come vedremo, risentono, nell’approccio e persino nella scrittura, del singolo magistero di ciascuno. Opalka, polacco di origine; Kabakov, russo, anche se nato a Dnipro, che poi è tornata all’Ucraina; Kounellis, greco: sono tutti esuli per volontà e non per costrizione. Una decisione più professionale che morale o politica la loro, anche se i primi due hanno dovuto varcare la “cortina di ferro”. Li unisce anche quella che Harald Szeemann definiva “una tendenza all’opera d’arte totale”, che supera le classificazioni e che lascia libero campo a tutti i media e le forme d’espressione, e a tutti gli approcci tecnici e metodologici. L’altro tratto unificante che Hegyi coglie e da cui resta affascinato, è la capacità di ciascuno dei tre maestri di dare vita un’estetica scaturita da una rigorosa coscienza etica. 

Infine ognuno dei tre maestri opera, per vie diverse, “un’interrogazione del Tempo” (il maiuscolo è una scelta di Hegyi): ed è precipuamente questo che li rende maestri, nel senso più oggettivo del termine. Agiscono in direzione «di un Tempo ingrandito, ampliato, che ci permette di evadere dalla prigione della limitatezza, dall’isolamento, dalla chiusura in noi stessi e di creare nuovi collegamenti con altre dimensioni del vissuto e nuove realtà mentali».

Roman Opalka a partire dal 1965, quando ancora era a Varsavia, ha iniziato a dipingere, su tele sempre della stessa dimensione (equiparata alla sua altezza, 1,93 x 1,35: assoluta specularità tra arte e vita), i numeri da 1 in progressione, da destra a sinistra. Li dipinge sempre con colore bianco su un fondo che dal nero è andato invece con gli anni via via schiarendosi. È stato un percorso artistico che ha assorbito la sua vita, fino all’ultima tela (tutte titolate “Détail” con il numero relativo), in un percorso di incredibile ascesi. Nel 2011, quando è morto improvvisamente a Roma, era arrivato a al numero 5.607.249 sull’ultima tela della lunga serie, “Détail 233”. Opalka ha dipinto il tempo nella sua ineluttabile progressione, non tanto per imprigionarlo come tante volte si è detto, ma per farsene prendere per mano. Si è inoltrato in quello spazio dove si fa impercettibile il confine tra il transitorio e lo spirituale, grazie alla sublimazione del segno, diventato alla fine un bianco su bianco. Giustamente Hegyi, a proposito di Opalka, parla di una «stabilità mozzafiato» e di una concezione «quasi sacrale del lavoro», che ritualizza la vita personale facendone un tutt’uno con l’opera d’arte.

Il tempo per Ilya Kabakov è invece un qualcosa che ha a che fare con la memoria, e quindi con un «qualcosa di inconfondibilmente russo». Se Opalka è fedele ad una fissità ascetica, invece la grammatica espressiva di Kabakov è caratterizzata da una narratività affascinante, enigmatica e di «una poeticità indimenticabile». L’artista parte dal quotidiano, con un’attenzione da etnografo e da archeologo. Poi nell’assemblaggio delle sue installazioni opera delle sintesi in cui realismo e surrealismo si mischiano e si confondono. In un saggio del 1999 l’artista parla di una strategia della “dissimulazione” per mettere chi guarda davanti ad un labirinto di riferimenti: «Descrivo una situazione in cui si implica qualcosa che non si intende dire esplicitamente». In questo modo, le opere di Kabakov, scrive Hegyi, «non ci permettono di adagiarci nella passività… la loro intensità emozionale è una conseguenza della narratività del “reale” che l’artista con esse veicola». Essere maestri significa far scattare delle corde particolari in chi segue: così la prosa di Hegyi in queste pagine cambia registro, si riscalda nell’inoltrarsi in quella concentrazione di vissuto proprio delle opere di Kabakov. È un vissuto che ogni volta riformula la storia individuale e personale come paradigma universale. Il capitolo si chiude non a caso con una pagina di grande slancio poetico in cui si immagina che una catapulta abbia proiettato Kabakov nello spazio, oltre il “buco” nel soffitto di una sua celebre installazione. «Egli è lassù», scrive Hegyi. «Kabakov ci fa pensare: cosa sono i nostri sogni di libertà e di sovranità, quali sono le nostre strategie per liberarci dall’imprigionamento».

Nell’ultima parte del libro dedicata a Jannis Kounellis la scrittura torna a farsi serrata, per restituire quella compressione della dimensione del tempo operata dall’artista greco. Con Kounellis siamo di fronte, scrive Hegyi, ad «uno stato temporale nell’ambito del quale la Storia, tutte le possibili storie, tutti i possibili episodi, tutte le possibili attività e azioni vengono compressi in un singolo e drammatico momento». «L’“hic et nunc”», sottolinea in un’altra pagina, «assorbe la storia della creazione mantenendo i riferimenti storici, gli accenni temporali, le relazioni cronologiche». Sono affondi che dimostrano come il critico abbia saputo inoltrarsi nell’opera di Kounellis, decifrandone quella potenza che non ha solo straordinari esiti formali ma è in grado di «amplificare, intensificare la percezione personale concreta» di chi guarda. Il magistero di Kounellis si esercita attraverso drammaturgie come quella su cui Hegyi si sofferma in modo dettagliato: è l’installazione realizzata nel 2013 per la mostra alla Wooson Gallery in Corea. Due grandi sedie ricoperte di stoffa nera, presenze molto corporee, presidiano lo spazio centrale occupato da una grande tela quadrata dipinta di rosso. Ma non si tratta di un rosso di stampo «avanguardista e costruttivista», bensì di un rosso sensuale e seducente, scoperto proprio nel soggiorno in Corea. La forma radicale del quadrato si carica di nuovi connotati che ancora una volta coinvolgono la storia e il suo vissuto: una forma di catarsi che si spalanca davanti a noi e alla quale siamo convocati.

Pubblicato su Alias, 5 aprile 2020

Condivido questa mail inviatami da Lóránd Hegyi dopo aver letto la recensione.

Questo libro è piccolo, ma involge molti anni di esperienza con questi tre artisti, molti discussioni e anche lavori insieme. Paradossalmente il primodi tre Maestri, che io ho incontrato in persona, è stato Ilya Kabakov, anche se Opalka e Kounellis sono divenuti piu intimi amici, durante degli ultimi trenta anni. Con Roman Opalka io avuto un rapporto quasi “familiare”, come con un fratello vecchio, come qualcuno, chi ha fatto una simile stradadel nomadismo, come io: da Polonia in Germania, Svissera, Italia, Francia, come io da Ungheria in Austria, in Italia, in Francia e dopo di nuovo in Italia.
Io ho visitato Kabakov in suo appartamento a Mosca, in dicembre 1984. Era un inverno infernale, freddissimo, con molto neve. Il progetto del riforma delsistema politica ed economica “Perestroika” di Gorbachew era ancora completamente nuova, nessuno sapevo, dove andiamo, dove va il blocco sovietico… Era una incertezza grandissima, un feeling della insicurezza e anche una profonda crise dell’orientazione ideologica. La guerra di Afganistan è stata catastrofale, la situazione in Polonia ha fatto angoscia, tutti di noi anno avuto paura di un nuovo intervento russo contra il movimento di “Solidarnost”, allora tutto era in movimento, completamente destabilizzato. Io ho abitato ancora a Budapest, lavorato in Istituto della Storia dell’Arte della Accademia di Scienza di Ungheria, e pubblicato il mio primo libro sul cambio del paradigma dell’arte contemporanea. In questo libro io ho scritto molto sul Kounellis, anche c’è una riproduzione bianco-nero del suo opera in libro, ma non ho scritto ancora sul Kabakov. Quando io sono arrivato a Mosca, un altro artista, Jankilewski, un amico di Kabakov, Bulatov, Bruskin, Komar&Melamid, Sternberg, allora degli artisti “dissidenti”, mi ha accompagnato a Kabakov. Noi abbiamo parlato un pocissimo “paruski” (in russo, perché io ho studiato la lingua russa alla scuola elementare a Budapest), solo per la buona educazione, ma molto più in tedesco, perché Kabakov parlato un po tedesco. Dopo, durante di anni ed anni, sempre parlato con Kabakov in tedesco. Come anche con Opalka: la nostra lingua è stata la lingua tedesca. 
Io ho incontrato Jannis Kounellis come il ultimo di tre grandi “Maestri”, ma lui resta al fine della sua vita un vero amico, con chi io potevo parlare sul tutti temi, prima di tutto, sulla storia e la politica – in senso molto largo e anche metaforico. Quando noi siamo andati con la mia moglie a Umbria, in sua casa di campagna, Michelle Kounellis ha sempre detto, che noi due, noi non facciamo altra cosa, solo parliamo, parliamo… E vero, questa attività passiva è stata la nostra vera piacere e passione…
Caro Giuseppe, questa piccola “post-introduzione” personale – e forse troppo aneddotica – è una piccola notizia privata. Sono molto contento e ringrazio di nuovo per il suo bellissimo testo e spero anche io, che – dopo questa imprigionamento – possiamo incontrarci anche personalmente. Noi siamo – in tempi normali – quasi ogni mese a Roma, allora aspetto il nostro incontro!

Written by gfrangi

Aprile 18th, 2020 at 9:08 am

Il caso San Fedele. L’arte contemporanea a tu per tu

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Sabato 12 interessantissima visita con Andrea Dall’Asta agli interventi di arte contemporanea in San Fedele. Interessante innanzitutto che un intervento così si generi in una chiesa gesuita, quindi in un insieme architettonico che fonda la sua tipologia su una griglia concettuale molto precisa e ragionata. L’idea dell’aula unica che rivoluziona il rapporto con il sacro, togliendolo dalla misteriosità gotica e dall’intellettualismo rinascimentale, obbliga a una coerenza logica dell’insieme. Così anche gli interventi di arte contemporanea si sono trovati a muoversi dentro una griglia che li costringeva a misurarsi con il contesto e indicava una strada da percorrere o una situazione da interpretare.
A San Fedele tutto era iniziato nel 1957 quando Lucio Fontana era stato chiamato a realizzare la grande pala in ceramica con Santa Maria Alacoque; dall’altare era stato tolto il quadro di Figino, ora in sacristia. Segno di coraggio precoce… Sopra la pala doveva esserci un fregio vegetale in ceramica. Ma Fontana sbagliò le misure e il fregio venne tenuto in cantina. Il lavoro di recupero ha permesso di ritrovarlo e oggi è stato esposto in cripta. A San Fedele i Fontana sono ben 21. Meglio di un museo di arte contemporanea.
Gli interventi si innestano nell’architettura della chiesa senza mai prevaricare, anzi dando la sensazione di inserirsi in spazi che li attendevano, come accade alle tre tele di David Simpson, sottile finestrone dell’abside, monocromi che scandiscono la Trinità, veri pozzi di luce colorata,mi finir nella loro imprendibilità (nella foto sopra).
Potente l’installazione di Jannis Kounellis, nella cappella delle tombe asburgiche, nella cripta. Un grande sacco appeso e sospeso ad una croce con una corda di canapa stile corde da nave. All’interno del sacco una croce in legno di 120 chili: se ne avverte tutto il peso drammatico. Una percepibile, inquieta gravità trattenuta dalla iuta.
In direzione opposta, di una leggerezza tenera e quasi ingenua, sono le scarpette d’argento che Mimmo Paladino fa arrampicare su per la parete nella Cappella delle Ballerine (dove le ballerine della Scala venivano a portare una rosa alla Madonna il giorno del debutto).
Ci sarebbe molto altro di cui parlare. Ma mi limito ad una piccola riflessione: quello di San Fedele è un caso quasi unico di relazione stretta a livello di concezione dell’opera tra artista e committente. Ed è una relazione da cui è ovvi la chiesa abbia tanto da guadagnare, per uscire dall’indistinto e dalla confusione in cui si è arenata a livello di interventi artistici. Ma anche per un artista è una sfida straordinaria quella che lo porta a dar vita ed immagine a un qualcosa che nasce da un rapporto; a un qualcosa che deve fare i conti con gli spazi ristretti del pensiero della committenza. Che ritaglia lo spazio della sua libertà.
È evidente che Milano il suo museo di arte contemporanea ce lo ha. Vivo, dettato da una necessità, di grande qualità. E senza nessun aggravio per le spese pubbliche.

Written by gfrangi

Marzo 13th, 2016 at 8:24 am

Kounellis in cattedrale. Pensieri sul caso Reggio

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La cattedra vescovile di Kounellis: realizzate con vecchie assi di un soffitto a cassettoni del '400

Coincidenze. Apro Vernissage l’allegato al Giornale dell’Arte e trovo un servizio completo sui nuovi arredi liturgici della cattedrale di Reggio Emilia. Un’operazione in grande stile, che ha visto impegnati nomi importanti come Kounellis (suo il podio con la sedia vescovile), Claudio Parmeggiani (altare), Ettore Spalletti (candelabro pasquale)… Oggettivamente sono tutti interventi di alta qualità stilistica, affidati ad artisti seri e importanti. Quindi trovo che le contestazioni un po’ triviali che hanno accompagnato la presentazione di questo allestimento siano del tutto fuori luogo. Mi chiedo perché non facciano piuttosto problema gli sperperi in arredi stile “aiazzone” che invadono le chiese italiane: pulpiti e leggii orrendi, candelabri che non si possono guardare, altari da vetrina… Marmi traslucidi, ottoni, vetro a piovere…
A Reggio le cose sono state fatte con attenzione e con artisti che hanno rispettato gli equilibri del luogo. Il problema che io pongo quindi non è sulla qualità degli interventi, ma semmai sul percorso che porta a questi interventi. A me sembra che quando gli artisti entrano in chiesa abbiano la grande preoccupazione di mantenere una distanza che li rende comunque “ospiti” sotto quelle navate. Si ricorre a un linguaggio molto allusivo, sempre elegante, che si tiene alla larga da nessi troppo stringenti con la tradizione. Così viene meno il senso di un impegno che dovrebbe essere invece concepito come una sfida. La colpa ovviamente pesa molto anche sulle spalle della committenza, incapace di giocare l’enorme portato della storia e della tradizione nel rapporto con gli artisti. E a volte si resta in loro balìa. Ci si accontenta di avere incassato il loro consenso alla committenza e non chiede altro.
Coincidenza vuole che proprio in questi giorni abbia avuto la fortuna di lavorare a un piccolo libretto che documenta il lavoro fatto da un artista bergamasco in una chiesa in Ecuador. Gianriccardo Piccoli ha realizzato una grande Pentecoste, che incrocia in modo sorprendente e delicato attualità e tradizione. Ci tornerò su questo suo lavoro. Ma intanto sottolineo due fattori. Il primo, che Piccoli ha accettato di non fare semplicemente se stesso ma di rischiare una sfida vera con quel soggetto. Il secondo, che abbia pensato a chi era il destinatario di quel suo lavoro: il popolo dei fedeli, realizzando così un’opera preziosa ma comprensibile e cercando di restituire anche un’energia emotivamente coinvolgente.
Sono due fattori semplici, che non si tengono mai presenti nella committenza troppo intellettuale della chiesa in Italia. Il risultato è che opera anche significative stanno dentro le chiese come stessero in un museo. Magari guardate con sufficienza o con (ingiusto) disprezzo da coloro per le quali dovrebbero essere state ultimamente realizzate.
Tornando al caso di Reggio l’unico che mi sembra sia davvero andato in profondità, plasmando un lavoro pensato per il luogo e per la funzione a cui è adibito è stato Jannis Kounellis. Come ha scritto Alberto Melloni la sua cattedra è un «oggetto teologicamente commovente. Un assito di legno antico e scuro, e sopra un nudo sedile di ferro: non segni, ma materia della croce, attorno alla quale si stende il corpo di Cristo che è la communio dei fedeli». (Le assi quattrocentesche conservano ancora i chiodi fatti a mano con cui furono fissati. Suggestivamente possiamo pensare ad un’opera a quattro mani, quelle di Kounellis e quelle del popolo di allora…)

Written by gfrangi

Febbraio 1st, 2012 at 10:53 pm

Kounellis: Tiziano, l'inizio di tutte le libertà

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In una bellissima intervista per Il Giornale d’arte (a cura di Franco Fanelli) Jannis Kounellis torna sul tema del rapporto tra l’arte contemporanea e la Chiesa. Il filo conduttore del dialogo è la rivendicazione dello spazio della drammaticità dentro l’arte, cosa che minimalismo e concettualismo hanno negato o poco alla volta marginalizzato. «Penso che noi siamo europei e non americani. Penso che per noi europei, che veniamo dall’ombra, la drammaticità faccia parte dell’inizio di di ogni discorso, di ogni opera. Come artista europeo e occidentale non posso non affrontare il dramma che mi unisce alla tradizione… dico che l’artista trae dalla tradizione e dal passato la libertà di rinnovare la forma».
1assunt4La Madonna di Tiziano. «Si deve prendere atto che nella chiesa ci sono due tipi di iconografia: quella cattolica e quella ortodossa…È chiaro che c’è una grande differenza tra una Madonna di bizantina e una Madonna di Tiziano: quest’ultima è “incarnata”, quindi non parte da un’idea platonica che è alla base dell’iconografia bizantina e ortodossa. La Madonna di Tiziano è l’inizio di tutte le libertà e come pittore non puoi non essere attratto da quella Madonna. Rappresenta un’intuizione ideologica, portatrice di una libertà che è dialettica e che mette in crisi la stabilità».
I tagli di Fontana. «Anche il taglio di Fontana è “incarnato”! Io penso che nasce dai tagli inferti al corpo di Cristo: la tela diventa allora una superficie simile alla pelle e il taglio è la ferita in cui San Tommaso mette il dito per verificarne la fisicità».
La comodità delle icone. «Molti oggi sono attratti dalle icone, che come ho detto sono dogmatiche, perché sono più “comode”, non pongono problemi laddove neutralizzano le differnze che esistono nelle proposte di un pittore. Ma la storia dice che tutti coloro che si sono occupati di cristi e di madonne come Giotto, Masaccio, lo stesso Caravaggio, sono riusiciti a proporre cose assolutamente rivoluzionarie: nell’arte occidentale questo ha a che fare con la chiesa in quanto popolo e non con la spiritualità».

(Tre note:
Mi piace che Kounellis si qualifichi “pittore”. La dice lunga su quanto sia ampio e piena di libertà questa categoria.
Mi piace che Kounellis ribadisca senza ambiguità come la vera partita nell’arte di oggi sia quella di prendere di petto questa drammaticità o invece di liquidarla.
Mi piace questa centralità di Tiziano. È un’intuizione che apre orizzonti, che spinge a osare, che esalta la libertà)

Written by giuseppefrangi

Luglio 16th, 2009 at 7:17 pm