È stato un successo che ci ha un po’ travolto quello di Giorni Felici: oltre 2mila persone a casa Testori, in una settimana. È bello veder la gente uscire contenta dopo aver visto opere che se viste in un museo avrebbero suscitato perplessità o rifiuto. Invece la casa crea un clima diverso, induce ad atteggiamenti più pazienti, spinge tutti a capire o ad essere curiosi. Così le persone compiono tutto il percorso, attente a non saltare nesuna sala e lasciano commenti soddisfatti sul libro dei visitatori. Nessuno contesta un attrito tra la struttura assolutamente normale del contenitore (una casa che più casa non si può) e il contenuto di molte stanze, ardito, spiazzante, a volte fisicamente conciliante con l’idea che quella possa essere usata come casa. Questo deve far pensare: la chiusura all’arte contemporanea non è detreminata dalle opere, ma dalla pretenziosità un po’ elitaria con cui le si presenta. Alla sfida delle normalità, l’arte contemporanea trova spazi inattesi di dialogo con un pubblico molto più ampio.
Dialogo significa punti di contatto reali. Un aneddoto: a un acquirente di due dittici iperminimalisti di Christiane Beer, l’artista tedesca che oggi lavora a Milano (ha sue opere nella nuova Bocconi) ho chiesto come mai avesse scelto proprio quelle opere così “mute”. Lui mi ha spiegato di fare un lavoro in cui una frazione di millimetro decide o meno la riuscita del lavoro stesso. «E la Beer è una che ha capito quanto sia assolutamente decisiva la frazione di millimetro». Meglio di qualsiasi analisi critica.