Ragionavo sul magnifico Fontana che ha fatto 22milioni di euro l’Italian sale di Londra. Ragionavo a partire da quel titolo “imprendibile”: “Concetto spaziale. La fine di Dio”. Facendo la tara all’ironia con cui Fontana “proteggeva” sempre le sue opere, c’è la sensazione di un’intuizione leggera e profonda in quel titolo, che non riguarda il contenuto ma il contenitore. Cioè la struttura dell’opera diventa il tema, con quella sua fisionomia cosmica e quelle forature da proiettili di stelle. Intanto la fine di Dio non è una fine temporale, ma la fine di un’idea di raffigurabilità di Dio. Lo aveva intuito Gillo Dorfles: «Quest’ovo… può ben costituire il simbolo di una divinità sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata; e anche il simbolo che si viene a sostituire all’iconologia d’una antica figuralità ormai usurata e consumata; al posto dell’icona sacra il Sacro ovo la “fine di Dio” significa l’inizio di una semanticità nuova, quella d’un simbolo eterno, sempre innovantesi nella diversità delle sue accezioni nella molteplicità delle sue interpretazioni».
Fontana poi con quelle sue frasi che un po’ chiariscono è un po confondono il suo interlocutore aveva detto: «Per me significano l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla». Parla di infinito nel momento in cui dedica un quadro ad una “fine”… E allora quella fine di Dio inizia ad essere concetto davvero sfuggente, imprendibile, com’è imprendibile l’idea di Dio. Diventa qualcosa che assomiglia all’idea di sconfinamento dal dicibile. Fontana ha sempre la grazia di essere semplice, folgorante nella tenuta concettuale dei suoi quadri. Di puntare verso orizzonti grandi senza mai sovraccarico di retorica.
L’oggetto, nella sua fisicità, racconta di una fine che non conosce fine. Evoca un infinito.
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Fontana, la fine senza fine
Cinque buoni pensieri domenicali
Gillo Dorfles (sul Corriere della Sera, articolo alla vigilia dei suoi 100 anni). «Non rimpiango di aver relegato la Body art e l’estetica della crudeltà. In un’epoca come la nostra, dove c’è chi uccide la figlia perché ha un fidanzato italiano, o ammazza i genitori per l’eredità e in cui insomma la crudeltà è un fatto da prima pagina quotidiana, che senso ha mettere in mostra, come fa la Abramovic, le ossa degli animali uccisi? Oppure ferirsi? Certo, accanto a un’arte del Bene è sempre esistita un’arte sadica o masochistica. Ma viviamo già oggi in un’epoca in cui il male è un elemento privilegiato, che bisogna c’è di propagarlo?»
Maurizio Cattelan, intervista a Klat. «Sono cresciuto in un clima religioso. Ho fatto il chierichetto e ho passato molto tempo all’oratorio in chiesa, perché er il modo di essere libero. Se sono credente? Se non fossi in qualche modo credente, certi miei lavoratorin non esisterebbero. Però non ho ancora affrontato la malattia e la sofferenza, quindi non ho le idee chiare in merito. Ma c’è una parte di me, quella buona che sente qualcosa…»
Martino Gamper, intervista a Klat. «Non amo il termine riciclo, ha una valenza tipica della qualità scadente: dopo il riciclo, il materiale non è mai il meglio delle sue possibilità. In inglese, c’è il termine recyclicing e upcycling, cioè dargli un altro ciclo, un’altra vita. La sedia per strada che nessuno più usa un valore nullo; darle un’idea, includerla in una delle mie sculture significa rivalutarla… L’ecologico, se basato sul puro riciclo, dura ancora meno e supporta l’idea di un sistema debole e consumistico. Una sedia non dovrebbe costare 30 euro, dovrebbe costare molto di più e durare una vita intera».
Alessandro Mendini, intervista a Flash Art. «Per chi ha fatto l’architetto o il designer, i progetti nascono dai vincoli che sono utilissimi, però mi piace pensare che l’architetto non abbia vincoli. È per questo che spesso ha antenne più lunghe».
Ernesto Nathan Rogers (editoriale di Domus gennaio 1946, il primo nel dopoguerra, ristampato oggi). «La casa è un problema di limiti (come del resto quasi ogni altro aspetto dell’esistenza). Ma la definizione dei limiti è un problema di cultura e proprio ad esso si riconduce la casa (come, infatti, gli altri dell’esistenza). Se è così, anche le parole sono materiale da costruzione. E anche la rivista può aspirare ad esserlo… Si tratta di formare un gusto, una tecnica e una morale, come termini di una stessa funzione. Si tratta di costruire una società».
Gillo Dorfles biennalesco: quella rana doveva essere verde!
La Biennale ha questa caratteristica: è la sola mostra capace di muovere i critici. Non si può scrivere della Biennale senza averla vista. O meglio senza esserci stati, perché in realtà i più vanno essendosi già fatti l’idea prima ancora di aver visto. Insomma vanno con gli articoli in valigia, cui si aggiunge qualche tocco di colore. Anche quest’anno è andata più o meno così. Ognuno ha la sue ragioni e le sue coordinate culturali con cui motivare i propri giudizi: certo mi sembra ci sia una scarsa propensione a farsi sorprendere (in sostanza, per stare a Damien Hirst, a nessuno capita di esclamare: «cazzo,questa che cos’è?»).
Setacciando le cronache incrociandole e depurandole dai preconcetti inquinanti, abbiamo capito che il padiglione polacco di Krzysztof Wodiczko (a sinistra) è il più ammirato. Che quello americano di Bruce Naumann è il più discusso (Leone d’Oro per un’opera impressionante ma già vista, foto a destra). Che il padiglione Italia è molto debole nel suo insieme. Che il Fare Mondi all’Arsenale, curato da Daniel Birnbaum, ha una sua freschezza capace di sorprendere. Che Nathalie Djurberg, già vista alla Fondazione Prada di quest’anno, ha una grinta allucinata fuori dal comune. Che davanti all’allestimento di Renzo Piano per il suo amico Vedova si resta a bocca aperta (e non poteva essere altrimenti).
Ma ci voleva il vecchio Gillo Dorfles per darci uno sguardo disincantato e insieme affascinato di questa Biennale. Il Corriere lo ha messo in prima pagina e poi fotografato, vestito in un inappuntabile completo beige, con tanto di fogli per annotazioni in mano. Il Gillo “biennalesco” la definizione è sua) scrive senza acrimonie, sottolineando alcuni giudizi a tutto tondo. Constata l’arretramento dei video, cui però non corrisponde una ripresa della pittura: «non possiamo non constatare quanto modesto sia l’apporto della tela dipinta». Lui, studioso di tutti i linguaggi alti e bassi, critica certa arte si concede derive troppo facilmente ludiche. Poi con quell’aria birichina del nonuagenario che si puà permettere tutto, scrive questo del Ragazzo con la rana messo dal neo doge François Pinault sulla Punta della Dogana: «Anche la statua di Carles Ray, Ragazzo con la rana (balordo riferimento alle antiche sperimentazioni di Galvani) avrebbe avuto un po’ più di fascino se l’antico anfibio fosse stato di un bel marmo verde del Belgio!».