A Lugano nell’ambito di uno degli atelier dell’Accademia di Architettura, quello condotto da Riccardo Blumer, gli studenti sono stati chiamati a realizzare una Via Crucis “su rotaia”: le stazioni infatti sono state posizionate sul percorso della funicolare in disuso che parte al fianco della chiesa di Santa Maria degli Angioli. L’esperimento funziona per tanti motivi: la scalinata ripida che corre parallela ai binari permette di seguire il percorso con una salita che richiama quella tradizionale dei Sacri Monti, quindi proponendo una corrispondenza anche topografica con la tradizione. In secondo luogo, il concept prevedeva la realizzazione di strutture in legno come “cappelle”; la loro funzione non era solo quella di far da contenitori, ma anche espressiva: il disegno progettuale di ciascuna è parte costitutiva del contenuto di ogni singola stazione. In terzo luogo la chiesa contigua è quella che custodisce lo stupendo tramezzo affrescato da Bernardino Luini, con una grande Crocifissione che sullo sfondo lascia spazio al racconto della passione e della via Crucis. In questo modo i 14 studenti – casualmente il numero coincide con quello tradizionale delle stazioni della Via Crucis – hanno potuto attingere da quel patrimonio iconografico e poetico per immaginare il loro lavoro. L’aspetto esemplare di questa esperienza sta proprio in questo rapporto rivitalizzato con il patrimonio del passato. Gli affreschi del Luini infatti vengono richiamati in tutte le 14 stazioni, sotto forma di riproduzioni di dettagli, senza nessun obbligo di rispettare la scala dimensionale. Le “cappelle” quindi si presentano come strutture in legno dal disegno molto contemporaneo, che integrano spezzoni di immagini di Luini, in un dialogo che “mette in scena” il tema della stazione.
L’approccio è stato filologicamente molto serio, supportato da lezioni di storia dell’arte e di iconografia (tra l’altro ha collaborato Giovanni Agosti, che aveva realizzato a Palazzo Reale di Milano una grande mostra sul Luini). Ma poi ai ragazzi è stata lasciata una grande libertà. Il percorso trova così la sua unità nel materiale, il legno, e negli spezzoni di immagini, quelle dell’affresco di Luini; per il resto ognuno ha potuto progettare, mettendo in campo la propria sensibilità.
Sono tanti i “plus” di un’esperienza come questa. È un esempio di riuso di una struttura urbana situata in una zona molto importante e sostanzialmente dimenticata: la funicolare portava all’Hotel Bristol è ferma dal 1986. Salendo lungo la scalinata tra l’altro si apre uno stupendo panorama sulla città e sul lago (questo è un merito del direttore della Divisione eventi e congressi della Città di Lugano Claudio Chiapparino). C’è poi l’aspetto religioso, perché la Via Crucis su rotaia rappresenta un tentativo riuscito di aggiornare un gesto importante della nostra tradizione. Il sacro torna a “mischiarsi” con la vita della città.
In realtà le 14 stazioni sono anche un’interpretazione libera che i ragazzi hanno fatto, pur restando dentro l’alveo della narrazione della Passione (ad esempio una stazione è dedicata alla Maddalena, un’altra al diavolo). Forse l’esperimento sarebbe stato ancor più incisivo se gli studenti fossero stati “costretti” a stare fedeli alla scansione canonica e tradizionale delle 14 stazioni. Non è un caso che le stazioni che funzionano meglio (come quella del Cristo Portacroce realizzata da Piero Graziani, nella foto sopra), siano quelle che con più semplicità aderiscono alle tappe della Via Crucis.
Comunque è un tentativo molto bello, coinvolgente e riuscito di gettare uno sguardo (e uno spirito) contemporanei su una commovente eredità del nostro passato.
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Lugano, il caso scuola della Via Crucis su rotaia
Il cinema di Wenders e il teatro dei De Donati
Pomeriggio in fuga tra Lugano e Como. A Lugano a villa Ciani ci sono le fotografie di Wim Wenders e di sua moglie Donata. Già l’idea del sodalizio mi piace. I loro sguardi non s’accavallano mai ma sono complementari. Lei fotografa il backstage (bella la serie con Antonioni, da sballo una foto di Milla Jovovic sul set di One million dollar hotel), lui invece blocca con le foto sequenze che vorrebbe non terminassero mai. C’è una stanza bellissima di foto retroilluminate, con i colori che accendendosi disfano le forme. I formati di Wenders sono ovviamente sempre quelli orizzontali del grande schermo: la serie di Buena Vista Social Club è incornicata in modo molto intelligente con dei grandi passepartout che si sviluppano tutti in verticale, aprendo in alto la finestra orizzontale dell’immagine. La fotografia magnifica che si vede qui sopra fa parte di quella serie: capisco che Wenders desiderasse che quella sequenza non passasse mai. C’è il senso del viaggio libero, c’è quello della storia; c’è la bellezza potente del mare, una bellezza strabordante ma amica. Soprattutto c’è un senso a quell’andare: si va sicuri verso una meta certa e desiderata.
Poi Como. A San Giacomo esposto il Compianto di Caspeno di Covio, in Valtellina. Un gruppo dei fratelli De Donati, di inizio 500, restaurato e rimontato in modo diverso rispetto a prima del restauro. Il colpo d’occhio all’ingresso della chiesa è bellissimo e commovente. Il Compianto è posto in fondo all’abside e i colori sembrano balzar fuori dal fondo grigio-pietra di quei muri di memoria romanica. Il gruppo ha punti belli (le donne in particolare) e altri un po’ più stereotipati. Ma è l’insieme che cattura. Vedendo tanta gente entrare in chiesa e farsi avanti sin quasi a toccare il Compianto, mi veniva in mente come a volte le immagini facciano visibilmente breccia nell’umano delle persone e lascino dentro un segno più profondo di mille ragionamenti. Per questo la chiesa ci ha puntato tanto nei secoli passati. Una scelta di cui godiamo i benefici ancor oggi… Secondo pensiero: è bello che si sia proceduto al restauro (grazie a una banca attenta al territorio come il Credito Valtellinese), è ancora più bello che si sia pensata un’occasione così immediata e semplice per mettere il Compianto davanti agli occhi del grande pubblico. Potete vederlo sino al 17 luglio. Poi torna a Caspeno.
La preghiera dell'artista
Nella bella recensione alla mostra luganese di Yves Klein (Avvenire, 21 luglio), Maurizio Cecchetti riporta questa preghiera rivolta dall’artista a Santa Rita. Le chiede di intercedere presso «Dio Padre Onnipotente perché mi accordi sempre in nome del Figlio e in nome dello Spirito Santo e della Santa Vergine Maria la grazia di animare le mie opere e che esse divengano sempre più belle… Che tutto ciò che esce dalle mie mani sia bello» (il corsivo è mio: prima ancora della bellezza c’è la vita…). il sinistra, il testo completo come lo si legge in mostra, nella foto che mi ha fatto avere l’amico Luca Fiore: a lui devo anche la bella frase di Basilico che leggete qui a destra))
Aggiungo la parte finale della recensione che ho scritto per il mensile Monsieur alla stessa mostra.
«Klein con il suo Ikb (Yves Klein Blu) ha fatto tutto. Ha realizzato ad esempio le Antropometrie, ottenute appoggiando direttamente il corpo di una modella, prima coperto di colore, su delle grandi tele, davanti agli occhi di spettatori chiamati ad essere testimoni della performance. Quel che a Klein interessava non era la provocatorietà del gesto. Con il suo sguardo ingenuo di bambino perennemente affascinato dal mondo, cercava di stringere il legame tra la vita e l’arte. Di immettere, quasi di travasare l’energia e la bellezza dei corpi dentro le tele. Corpi, ovviamente, illuminati dal suo blu.
Per capirne il significato bisogna tornare al significato che questo colore, per tanti secoli rarissimo e più prezioso dell’oro (come racconta un affascinante libro di Michel Pastoureau), ha avuto nella storia della grande pittura. Il blu è il colore dell’infinito e del mistero. Di un infinito e di un mistero resi famigliari all’uomo, tant’è vero che nella tradizione figurativa cristiana era il colore destinato all’abito della Madonna. Klein non si scosta da questa tradizione, semmai la innova con straordinaria libertà. L’adegua alla mente e all’occhio dell’uomo moderno, laico e secolarizzato ma ugualmente ansioso di trovare risposte al proprio destino. Che ci sia riuscito, ci sono pochi dubbi. A 50 anni di distanza, le sue opere hanno ancora l’effetto di un lampo capace di suggestionare il nostro sguardo e di spalancare orizzonti che davamo tutti per perduti».