Robe da chiodi

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Caravaggio “oggi”

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Perché un artista di 400 anni fa, che ha dipinto una soggetto che oggi, in pieno analfabetismo religioso, poche persone riconoscono al primo colpo, riesce a esercitare un tale fascino sul grande pubblico? C’è solo una risposta plausibile. E l’aveva data Roberto Longhi, nell’introduzione al catalogo della grande mostra del 1951 a Palazzo Reale di Milano: parlando dei due capolavori della Cappella Contarelli, Longhi dice che Caravaggio li dipinge come fatti accaduti oggi. E ripete più volte quell’oggi. E per ribadire che quella è la categoria chiave per capire Caravaggio la mette in corsivo. È una cosa che mi commuove ogni volta che apro quel testo.

scan-090211-0006Aggiungo una piccola riflessione. Per Caravaggio il realismo non è il fine, ma il mezzo per riportare tutto al presente. Al suo presente, ma per immediata e contagiosa conseguenza, anche al nostro presente. Caravaggio non si limita a rappresentare delle storie in cui pur crede. Non gli basta. Lui le dipinge come le avesse davanti agli occhi, tanto da essere in grado di seguirne tutti i minimi dinamismi. Così l’esito è sempre di una evidenza folgorante, di una nettezza e semplicità che non richiedono discorsi né spiegazioni. Non che lui non ci metta se stesso, tant’è che mentre nella Cena in Emmaus di Londra scorgiamo un Caravaggio spavaldo e corsaro, in quella di Milano ne ritroviamo uno ben più cupo e drammatico. Ma è proprio l’aver messo se stesso, l’aver calato la propria esperienza in quelle storie che rende tutto assolutamente affascinante e vero. Caravaggio non rievoca qualcosa. Lascia che quel qualcosa riaccada.

Nell’immagine, le mani del discepolo Cleofa nella Cena in Emmaus di Brera.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 14th, 2009 at 8:22 pm

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Caravaggio fa largo a nonno Foppa

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Le due Cene in Emmaus di Caravaggio esposte a Brera si aprono come per lasciare un varco regale al centro al Polittico di Foppa, abitualmente su quella parete della sala XV della Pinacoteca. Sembra che si siano scostate per rendere omaggio a quell’opera dal sapore un po’ arcaico, ma che in  grembo cela il seme da cui si è generato Caravaggio.  Rendere omaggio al padre. C’è un’aria di casa in quel polittico, tanto commovente, quanto macchinoso. Un’aria che si è ripulita di ogni intellettualismo e accetta di rivestirsi con la pelle dura della vita. È un’opera tutta in oro e grigio. Dove l’oro però ha la funzione di servizio e lascia il trono al grigio. È arte svuotata da ogni iperbole. Senza nessun effetto speciale. La matrice di Carvaggio è qui, in questo primato mai messo in discussione della realtà, che si dichiara apertamente attraverso i tratti somatici dei santi. Poi come ogni figlio di genio, Caravaggio è uscito da quel polittico che sembra un armadio per custodire i santi, è andato pr il mondo e ha dilatato quel primitivo e rude verbo foppesco a grandezze tali da sovvertire il mondo. foppaok1

Written by giuseppefrangi

Febbraio 11th, 2009 at 12:26 am

Moretto da sotto in su (preparando Caravaggio)

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morrettoAnche se non ci avesse gettato sopra lo sguardo Caravaggio da ragazzo, questo sarebbe un quadro strepitoso. Moretto lo dipinse nel 1542. Ed è ancora lì al suo posto, a Milano, nel deambulatorio di Santa Maria presso san Celso, sulla sinistra dell’altare. Un’invenzione spericolata, portata avanti senza darlo a vedere. Moretto ha sempre quell’aria intrigante dell’artista disilluso che vorrebbe aver fatto altro. Un artista esplicitamente complessato, che non riesce mai a distendere pienamente le ali. Sempre in conflitto con se stesso. Ma in questo suo andamento un filo macchinoso, in questo suo andar con il piombo nelle gambe (vedi qui quelle di Paolo) avendo però l’ambizione di volare, c’è il suo fascino, la sua malinconia. Qui inventa il punto di vista ribassato, che avrebbe stregato Caravaggio. Siamo tutti per terra con San Paolo, sovrastati da quell’enorme cavallo volante chesta a metà starda tra il cavallone di una giostra di paese e quello della Cacciata di Eliodoro di Raffaello. E siamo sovrastati soprattutto da quel cielo che è un cielo molto di casa, quindi sgomberato da tutte le astrazioni intellettuali. È un cielo molto metereologico, con quelle nuvole cupe, che filano come astronavi. Ma è un cielo anche che scatta e sfonda con quell’azzurro da brividi. E che dire dell’idea di far sbattere la luce sulla parte superiore delle nuvole? Una trovata naturalisticamente perfetta. Ma quel che più conta è che Moretto ci dice: “io vorrei tanto essere la sopra e invece la pittura mi zavorra e mi lega sempre alla terra”.

Written by giuseppefrangi

Febbraio 2nd, 2009 at 10:47 pm

Morandi all'ultimo fiato

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morandi_057bBellissima la mostra di Morandi al Mambo di Bologna, nonostante quel verdino rachitico steso sulle pareti, nonostante un’illuminazione (nelle prime sale) un po’ troppi intimistica, nonostante quella sede che è un mausoleo con l’ambizione o la fregola di essere luogo d’avanguardia. Nonostante tutto questo, la scelta delle opere è perfetta e il percorso della mostra ha pochissime sbavature: ed è quel che più conta. Ma conta soprattutto che Morandi esca da questa mostra (che viene dal Metropolitan di New York) come un gigante. Innanzitutto, dentro una biografia che è fatta di costanti e di assoluta sedentarietà, si scorge invece benissimo il processo di maturazione: si individua la meta. Dalle prime opere, quasi grondanti e rigogliose di pittura Morandi passa nel salutare bagno nella metafisica e, come disse sempre Longhi, alla meditazione sulla verticalità di Piero della Francesca. Morandi è un “principe costante”, e si riconosce questo suo lavorio nelle varianti di serie, dove si vede, ad esempio, come possa fermarsi (e ripetersi) per approfondire l’idea di un oggetto con la linea obliqua oppure i problemi di una composizione con un oggetto arretrato. Sono meditazioni serrate, lucide, intellettualmente alte: la mostra conferma come la tenuta mentale sia la carta vincente di Morandi. Per questo l’America non ha fatto fatica a capirne la grandezza. Stupefacente poi è il finale, con quel rarefarsi di tutto, con la pittura che cerca di essere appena un alito, che prende il rischio, estremo ma inseime dolcissimo, di posizionarsi sulla soglia del niente. E le ultime carte (nella foto) approdano, in miniatura (ma la piccolezza non è affatto una dimensione riduttiva dela grandezza…), sugli stessi terreni di Rothko.

P.S.: In mostra c’è anche il quadro con le conchiglie che Morandi donò a Francesco Arcangeli. Un capolavoro cupo, forse il più cupo che Morandi abbia mai dipinto (è degli anni della Guerra). Ma è un quadro che richiama una delle più combattute e drammatiche fratellanze tra artista e critico della nostra storia culturale. Riporto dal grande e disgraziatissimo libro di Arcangeli: «Questa non è soltanto scelta di pittura, è insieme una scelta, e insieme un destino inevitable di vita; combacianti, mi si perdoni un’autocitazione “entro la misura di un raggio visivo che è anche raggio della coscienza”».

Written by giuseppefrangi

Gennaio 25th, 2009 at 11:20 am

Caravaggio, cena contro cena

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caravaggio-supper-at-emmausCon il volano mediatico di Caravaggio si cerca di rilanciare la vecchia e gloriosa Pinacoteca di Brera. È arrivata la Cena in Emmaus dalla National Gallery di Londra ed è stata messa al fianco di quella che dal 1939 fa parte dei tesori del museo milanese. Tra l’una e l’altra ci sono circa sei anni: la prima è stata dipinta a cavallo del cambio di secolo, l’altra (quella milanese) dovrebbe essere il primo quadro dipinto nel 1606 dopo la fuga da Roma per il delitto commesso. Anche l’impostazione della composizione è molto simile. Eppure i quadri sembrano lontani decenni uno dall’altro. La biografia di Caravaggio vive di accelerazioni violente, di strappi implacabili. Nella Cena di Londra siamo davanti a un Caravaggio olimpico, con un passo trionfale. Realista, ma anche teatrale. Con quell’effetto riflettore che alza la tensione sulla scena, e quel cesto in bilico in primo piano, che è una spericolata prova di bravura. È un quadro, che ha un che di clamoroso nel suo dna, che intercetta l’impeto e lo supore di quel momento, che sfonda il velo della normalità. Il discepolo a braccia spalancate è un capolavoro che sullo slancio fa sobbalzare il cuore anche dell’ignaro osservatore di oggi.

2006924172118678Sei anni dopo invece la stessa stanza si è ammutolita. Il punto di vista del pittore è un po’ più ribassato. Il muro è tutto nero. Ogni riflettore è stato spento. L’atmosfera ha la mestizia della normalità, il suo tono polveroso, immutabile nel tempo. Caravaggio si è lasciato alle spalle ogni baldanzosità giovanile e si inoltra nell’ultima cupa e drammatica fase della sua vita. Non è più il tempo degli entusiasmi: è un Caravaggio che non fa più sconti, che non cerca più scorciatoie, che non accende più la tenebra del reale ma sembra subirla. Persino la tavola si è immesirita, e le vivande sono all’essenziale. Quella stessa realtà che aveva incendiato di invenzioni nella galoppata dei suoi anni giovanili e della maturità, ora pesa come il piombo. È una coltre fatta di fatica, e di zone d’ombra impenetrabili. Il destino della storia dell’arte, lui, lo aveva cambiato: ora la partita è solo con se stesso e con il proprio destino. Caravaggio è entrato nella caverna da cui uscirà solo con la morte. Ma quant’è grande, e quanto è vero questo Caravaggio che si lascia alle spalle tutti gli effetti speciali!

Written by giuseppefrangi

Gennaio 16th, 2009 at 4:22 pm

Barcelò cade (già) a pezzi

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Non è passato neanche un mese dall’inaugurazione e la “Sistina” di  Miquel Barcelò al palazzo Onu di ginevra cade già a pezzi. La denuncia è partita da un giornale online spagnolo, Libertad digital che ha pubblicato queste foto. Era facile essere profeti: il dilettantismo tecnicio a quanto pare è andato di pari passo con l’insensatezza dell’opera. Quello che è incredibile è la difesa ad oltranza che il Corriere fa del tentativo di Barcelò, con un articolo di Vincenzo Trione ai limiti del ridicolo. Si dice che l’artista spagnolo incarna il rifiuto degli inquadramenti, delle prospettive e delle simmetrie: «Novello Icaro, Barcelò si è bruciato nel suo sogno». Suvvia: diciamo che siamo di fronte a un artista intellettualmente modesto, con poco senso del limite e con una gigantesca quanto disastrosa autostima. Un artista che piace tanto al palazzo, che se lo coccola, come capita agli artisti di regime. Tutto qui.

Per saperne di più: Human Rights Tribune, Libertad Digital

Written by giuseppefrangi

Dicembre 17th, 2008 at 11:28 am

L'idolatria del contemporaneo

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Su Repubblica di lunedì scorso Paolo Vagheggi si è lanciato in una curiosa apologia del Macro (per chi non lo sapesse, è il Museo – comunale – di arte contemporanea di Roma). Secondo Vagheggi il Macro doveva essere niente di meno che il «simbolo della rinascita culturale italiana». Ora invece, dopo la mancata conferma (causa il cambio di colore della giunta comunale) dell’incarico di direttore a Danilo Eccher, è rimasto senza guida. Il che certamente non è una bella cosa e la tristezza dei guardiani descritta dal giornalista è lì a testimoniarlo. A dire tutta la verità, non è che quei guardiani li vedessimo molto felici neanche nelle visite che ci è capitato di fare in questa suggestiva struttura, nel cuore di un quartiere popoloso di Roma. Le mostre, alcune anche belle, le trovavamo regolarmente deserte. Il bookshop un po’ triste e dimesso per scarsi affari. Se la rinascita della cultura italiana passava di lì, francamente non ce ne siamo accorti. Immaginiamo poi che la tristezza debba essere montata mano a mano che, sempre a Roma, avanzava il cantiere del Maxxi, il fantasmagorico Museo di arte contemporanea della capitale, progettato da Zaha Hadid (le due XX del nome ne indicano la taglia…). Sarebbe interessante capire chi ha avuto l’idea geniale di sviluppare due strutture molto impegnative, tutt’e due dedicate all’arte contemporanea in una città che certo non manca (!) di offerta culturale e artistica. Quindi non lamentiamoci di chi ridimensiona i progetti ma piuttosto di chi li ha così maldestramente pensati.
Inoltre l’arte contemporanea, proprio perché tale, è molto meglio che resti il più possibile nell’arena della vita e non pretenda di entrare nei musei. È una garanzia di vitalità. E inoltre si evita di alimentare la spiacevole dinamica che, attraverso l’uso delle strutture pubbliche, in realtà finisce per favorire interessi di mercato (la cosa è del tutto inevitabile). In un museo, lo dice la parola stessa, entrino valori consolidati. Prima si accetti il gioco spericolato della vita.

Written by giuseppefrangi

Novembre 21st, 2008 at 2:54 pm

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Fontana mano volante

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fontana1Bella, intelligente, precisa la mostra che il museo di Mendrisio ha dedicato a Fontana (1946-1960, il disegno all’origine della nuova dimensione; a cura di Simone Soldini e Luca Massimo Barbero). Una mostra sobria, “necessaria” che attraverso lo scavo nei materiali della Fondazione Fontana, documenta il momento cruciale della più importante esperienza artistica del secolo, in Italia. Nel piccolo, ironico doppio Autoritratto del 1946 con cui si apre il percorso, si vede in primo piano un Fontana sconsolato e quasi accasciato e alle sue spalle l’altro Fontana, illuminato dal guizzo dell’“idea”. È come un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo. L’idea si fa strada su piccoli foglietti fruscianti, senza nessuna ambizione estetica. È l’arte che entra in un territorio nuovo mai percorso. Si sente l’ebrezza dei primi passi caracollanti nello spazio, proprio come quelle degli astronauti che di lì a poco avrebbero cominciato le loro “danze”. Vediamo grandi bolle colorate navigano nei confini della carta come tuorli di uova concettuali. E poi le intuizioni semplici, i buchi, i tagli, prima timidi, quasi esitanti, poi sempre più certi e solenni. Si avverte il punto “genetico” di un’idea, di una di quelle idee da cui non si torna indietro. «Da questo momento entra sempre più in me il convincimento che l’arte aveva concluso un’era, dalla quale dovevano salirne attraverso nuove esperienze che evadessero completamente dal problema pittura scultura» (Fontana nell’imprescindibile Autoritratti di Carla Lonzi).

Come Duchamp Fontana ha il grande pregio di non caricare mai di retorica nessun suo passo. È quasi discreto e delicato nel portare più in là la barra. E nessuno direbbe che tra quei graffi su centinaia di foglietti stava prendendo forma un’idea epocale. Neanche adesso lo si direbbe, che pur sappiamo com’è andata a finire…
Non perdetevi il big bang di Fontana in quel di Mendrisio (c’è tempo sino al 14 dicembre).

La “mano volante” del titolo la devo a Fanette Roche-Pézard che così chiamò la mostra dei disegni di Fontana al Beaubourg del 1987.

Leggi anche il pensiero di Damien Hirst su Fontana, dal catalogo della mostra genovese.

Written by giuseppefrangi

Novembre 12th, 2008 at 11:48 pm

Il gomito di Mantegna

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Nella prima sala della mostra parigina si incontra su Mantegna un quadro, datato 1443/1448, conservato a Francoforte, che è l’emblema della mostra e di Mantegna stesso. È un San Marco, che spunta da dietro una finestra ad arco, ornata da una ghirlanda senza troppe pretese. Sul davanzale sta appoggiato il Vangelo con una rilegature poderosa e un frutto minuto, che sembra quasi fuori scala. È il primo quadro che si incontra, ed è perfetto per annunciare la sarabanda trascinante della prima sala, dedicata alla Padova eccitatissima, stregata da Donatello e aggregata attorno alla bottega poco ortodossa ma contagiosa dello Squarcione (un nome, un programma).
Il san Marco di Mantegna ha un particolare che non può non colpire: è quel suo gomito sinistro che si sporge platealmente e anche in modo un po’ innaturale oltre il largo davanzale. Viene insomma indisciplinatamente dalla nostra parte, rompendo la convenzione e l’ordine stabilito, dichiarandosi parente stretto (o per dirla, tutta, fratello) degli apostoli che Donatello aveva lasciato in piena colluttazione sulle porte della Sagrestia Vecchia a San Lorenzo. Quel gomito è un po’ la cifra che Mantegna si terrà attaccata per tutta la sua vita. La sua natura lo porta sempre a forzare, a mettere pressione all’opera e a chi la guarda. Mantegna è un pittore che vive di accelerazioni precipitose e impreviste. Che deve sempre scavalcare la convenzione o lo status quo. Tra i suoi capolavori padovani ci sono gli affreschi della cappella Ovetari agli Eremitani (foto qui sotto): lì aveva fatto i fuochi d’artificio, con quel pergolato in prospettiva che s’infila nel muro a velocità supersonica o con quel cielo surrealmente nero sopra la città.
Mantegna è uno che non le manda a dire, né si nasconde. Gioca sempre allo scoperto, e d’attacco. Forse per questo sembra così moderno (e ancora una volta Bellini con il suo immenso e poeticissimo pudore sta sull’altra riva).

Written by giuseppefrangi

Novembre 1st, 2008 at 10:46 am

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Buone letture/2

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Su Repubblica recensione di Antonio Pinelli alla mostra di Mantegna al Louvre. Recensione estremamente chiara, da cui si deduce che questa è una  mostra imperdibile, curata da Giovanni Agosti e Dominique Thiébaut, ma con il coinvolgimento di una grande squadra attorno. Tra l’altro, nella ricostruzione del percorso si scopre che una sezione è dedicata a un tema che ci sta caro: il rapporto tra Bellini e Mantegna. Ed è una sezione curata da Luciano Bellosi. «La sezione che segue, curata da Bellosi, è fra le più emozionanti e innovative, mostrandoci Andrea, che nel ’53 ha sposato la figlia di Jacopo Bellini, Nicolosia, procedere «in cordata» con il giovane cognato, Giovanni Bellini, in un sodalizio così stretto e reciprocamente proficuo da indurre Agosti ad evocare quello che legò Braque e Picasso negli anni eroici del primo Cubismo». Ovviamente ne riparleremo.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 10th, 2008 at 8:24 am