Perché un artista di 400 anni fa, che ha dipinto una soggetto che oggi, in pieno analfabetismo religioso, poche persone riconoscono al primo colpo, riesce a esercitare un tale fascino sul grande pubblico? C’è solo una risposta plausibile. E l’aveva data Roberto Longhi, nell’introduzione al catalogo della grande mostra del 1951 a Palazzo Reale di Milano: parlando dei due capolavori della Cappella Contarelli, Longhi dice che Caravaggio li dipinge come fatti accaduti oggi. E ripete più volte quell’oggi. E per ribadire che quella è la categoria chiave per capire Caravaggio la mette in corsivo. È una cosa che mi commuove ogni volta che apro quel testo.
Aggiungo una piccola riflessione. Per Caravaggio il realismo non è il fine, ma il mezzo per riportare tutto al presente. Al suo presente, ma per immediata e contagiosa conseguenza, anche al nostro presente. Caravaggio non si limita a rappresentare delle storie in cui pur crede. Non gli basta. Lui le dipinge come le avesse davanti agli occhi, tanto da essere in grado di seguirne tutti i minimi dinamismi. Così l’esito è sempre di una evidenza folgorante, di una nettezza e semplicità che non richiedono discorsi né spiegazioni. Non che lui non ci metta se stesso, tant’è che mentre nella Cena in Emmaus di Londra scorgiamo un Caravaggio spavaldo e corsaro, in quella di Milano ne ritroviamo uno ben più cupo e drammatico. Ma è proprio l’aver messo se stesso, l’aver calato la propria esperienza in quelle storie che rende tutto assolutamente affascinante e vero. Caravaggio non rievoca qualcosa. Lascia che quel qualcosa riaccada.
Nell’immagine, le mani del discepolo Cleofa nella Cena in Emmaus di Brera.