Robe da chiodi

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A. R. Penck, la potenza dell’innocenza

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L’opera da cui prende avvio la bella mostra di A. R. Penck allestita al Museo Comunale di Mendrisio è un’opera che sgombera subito il campo. “Standart”, 1969, rappresenta la sagoma sintetica di un uomo in posa simil vitruviana. È dipinta in stile graffiti con un segno nero, drastico e semplice, su una tela trattata come un muro. Penck aveva ammesso che l’ispirazione gli era venuta dai disegni visti sulle pareti dei bagni pubblici; in quei prototipi aveva poi immesso l’energia di una primitività contemporanea. Non ci sono riferimenti alla cultura figurativa occidentale, dato che la cortina di ferro, come lui ha testimoniato, era impermeabile al passaggio delle immagini. È un’opera che immediatamente richiama la grammatica visiva di Keith Haring e di Basquiat: ma in quel 1969 loro avevano rispettivamente 11 e 9 anni… 

“Standart” non è semplicemente un titolo, è molto di più. “Stand”, che sta per “presa di posizione”; la parola risuona anche come “stendardo”, quindi bandiera, vessillo di un’arte appunto tutta nuova. “Standart” è un progetto radicale, «una ricerca sulla natura dell’immagine che ne metta in luce le potenzialità di espressione simbolica», scrive Ulf Jensen in uno dei saggi del catalogo. Penck lo definisce così: «Un sistema di segni fatto in modo tale da non essere solo percepito e imitato, ma anche prodotto, moltiplicato e operativamente modificato». Per l’artista quella sua stagione nell’Est finito sotto il comunismo sovietico, era stata la stagione dell’innocenza. C’è in effetti un che di potentemente innocente nell’idea di innescare la produzione libera di un linguaggio visivo più ampio e più comprensibile di qualsiasi espressione linguistica. 

A.R. Penck era nato invece nel 1939 a Dresda. Il suo nome reale era Ralf Winkler. Nel 1968 aveva scelto lo pseudonimo ispirandosi ad uno studioso di geologia dell’era glaciale, Albrecht Penck, che aveva esplorato la stratigrafia dell’era del Pleistocene. La sua biografia corre in parallelo con quelle di George Baselitz e Gerhard Richter, ma a differenza loro aveva scelto di restare molto più a lungo nella Germania dell’Est, coltivando appunto quel suo sogno di innocenza. Un sogno che consisteva anche nel dar corpo a un linguaggio artistico alternativo al dogma del realismo socialista, capace di uscire «da una dimensione personale per abbracciare la realtà nella maniera più ampia possibile», come scrive Simone Soldini curatore della mostra, insieme allo stesso Ulf Jensen e a Barbara Paltenghi Malacrida (“A. R. Penck”, fino al 13 febbraio 2022). “Weltbilder”, “quadri-mondo”, è non a caso il titolo di una serie di opere dei primi anni Sessanta, ben rappresentati in mostra, in cui Penck comincia a elaborare un linguaggio visivo chiaro e diretto. Il suo orizzonte fin da subito è il mondo che lo circonda, che vorrebbe dotare di un modello espressivo in grado di dare informazioni attraverso la semplicità delle immagini. Con l’energia del neofita, si fa notare per opere clandestine, dal messaggio molto chiaro: “Wandbild. Das Geteilte Deutschland” (“Murale. La Germania divisa”) è un intervento realizzato nel 1962 nel seminterrato di una Casa dello studente ed è la prima rappresentazione del paese tagliato dal Muro di Berlino. Era un’esplicita sfida al potere, dove il leader del partito Walter Ulbricht veniva rappresentato come uno schiavista. 

Penck approfondisce il suo progetto “Standart” studiando la cibernetica; lo concepisce come contributo alla costruzione del socialismo, attraverso il modello di una nuova pratica artistica. Ma la crisi del 1968, con i carri armati russi a Praga, segna un punto di non ritorno. Penck viene dichiarato «artista asociale» e nonostante la grande popolarità che si era conquistato è costretto a sparire dalla scena pubblica.  

In realtà sul suo percorso paradossalmente pesò di più un riconoscimento che non questa censura. Nel 1972 infatti Harald Szeemann, che aveva avuto modo di conoscere direttamente il suo lavoro, lo aveva invitato in documenta 5 a Kassel includendolo tra le “mitologie individuali” messe in atto dagli artisti nel dopoguerra. Evidentemente si era creato un corto circuito nella ricezione del suo progetto: “Standart” non intendeva assolutamente essere la creazione di una mitologia personale ma aveva l’ambizione di proporsi come modalità linguistica libera, creativa e replicabile; una modalità al passo con i tempi, dato il progressivo prevalere della comunicazione per immagini rispetto a quella per parole. 

Per Penck si apre una nuova stagione, che passa anche dalla fatica di una crisi personale. Nel 1977 scopre la scultura, anche grazie alla vicinanza con un altro protagonista di questa stagione dell’arte tedesca, Markus Lüpertz. Come scrive Soldini in catalogo, Penck «trova una via di uscita grazie ad un pezzo di legno che tiene da tempo sotto il letto e che ora prende a colpi d’accetta». La scultura per lui è un altro modo per abbracciare la realtà: «Ho bisogno di realtà. Qui dove tutto succede davvero», dice. Le sculture sono una delle sorprese della mostra e s’impongono per questo senso di immediatezza e di rapidità gestuale trasferita però nella stabilità del bronzo. Il legno spesso fa da matrice, ma a differenza di Baselitz, Penck sceglie di solidificarlo nel metallo, per accentuarne il peso di realtà. 

Nel frattempo Penck continua ad elaborare pensieri pittorici riempiendo centinaia di quaderni di appunti visivi: in mostra ne sono esposti una ventina; altri, con un intelligente sistema di proiezione, vengono anche sfogliati, in modo che ci si possa rendere conto della coerenza che li caratterizza. L’arrivo a Ovest nel 1980 significa «la perdita della mia innocenza», come lui stesso confessò. «Dovevo trovare una mia nuova collocazione». Infatti vediamo come in “Standard West”, del 1981, la carica icastica delle sue figure sia subito chiamata a fare i conti con un caos che ne mina le radici. Per questo Penck cerca uno “Sguardo in avanti”, come sottolinea nel titolo di un bellissimo acquerello in mostra, ma resta fondamentalmente fedele a se stesso e a quella sua propensione a raccontare il mondo più che se stesso. Anche nella serie degli Autoritratti, è l’occhio sgranato, puntato sulla realtà a fare da perno. Intanto Penck elabora una sua cosmogonia nella quale continua a inglobare la storia e la politica. Esemplare il caso del grande quadro “How it Works”, dipinto in America nel 1988 in occasione della mostra alla Galleria Hofmann di Los Angeles, che suona come una potente metafora dell’aggressività del liberalismo. Invece in “The Battlefield”, tela di oltre 10 metri di lunghezza, riprende il modello dei “Weltbilder” per una visionaria e selvaggia rappresentazione del mondo nell’anno della caduta del Muro: una sorta di big bang pittorico. Nel 2013, poco prima dell’ictus che lo avrebbe costretto, all’inattività, dipinge “Aquila e serpente – pianeta nero”, quasi metafora della globalizzazione, che nell’immediatezza comunicativa dell’immagine richiama ancora l’efficacia della “Standart”.

Una parola infine per la mostra che si collega idealmente a quella dedicata nelle stesse sale a Per Kirkeby nel 2017. Si tratta di due artisti che vengono dalla scuderia del grande gallerista Michael Werner (prestatore di quasi tutte le opere esposte) e che sono stati pochissimo visti in area italiana. Anche in questo caso l’allestimento è inappuntabile e restituisce intatta l’energia e la freschezza di un artista «dalla straordinaria energia sobillatrice» come lo definisce Enzo Cucchi, intervistato da Ester Cohen per il saggio in catalogo (dedicato al rapporto tra Penck e il nostro paese e in particolare alla partecipazione a Terrae Motus su invito di Lucio Amelio). In copertina al catalogo c’è solo il suo volto in close up, senza neanche necessità del titolo. Quasi un omaggio alla sua “Standart”, pittura che non ha bisogno di parole.

Written by gfrangi

Novembre 12th, 2021 at 3:38 pm

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Addio a Per Kirkeby, elettrico e geologico

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È morto il 9 maggio a Copenhagen Per Kirkeby, un artista che avevo scoperto in occasione della bella nostra curata da Simone Soldini al Museo di Mendrisio. Alla recente fiera di Miart mi aveva ancora sorpresa con lo stand monografico della Michael Werner Gallery di Colonia. Uno dei più belli della fiera.
Questa è la recensione della mostra di Mendrisio pubblicata su Alias, il 30 ottobre 2016.

Nel 1964 Per Kirkeby si era laureato a Copenhagen in geologia artica con una tesi sulla geologia del quaternario. Quello stesso anno partecipava a una missione in Groenlandia per il recupero di un meteorite ribattezzato The Man, poi esposto nel cortile del Museo Archeologico della capitale danese. Sempre nel 1964, alla Hovedbiblioteket (la biblioteca centrale) di Copenhagen, Kirkeby presentava la sua prima esposizione di disegni e collages. Concomitanze non sovrapposte, ma legate strettamente, inscindibili. Kirkeby è geologo perché pittore, ed è pittore perché geologo.
In Italia l’artista non ha praticamente mai esposto (solo nel 1989, a Roma, Galleria Cleto Polcina) ed è quindi un’occasione da non farsi sfuggire quella della bellissima antologica aperta appena aldilà del confine, al Museo d’arte di Mendrisio: Per Kirkeby. I luoghi dell’anima del grande maestro scandinavo. La mostra, che dura fino al 29 gennaio, è curata da Simone Soldini, direttore del museo, e si dispone perfettamente negli spazi: gli acquerelli nel lungo corridoio quadrangolare; i quadri nelle stanze che si aprono ai lati (erano spazi conventuali: il Museo era un convento dei Serviti); la grande scultura di bronzo nel cortile/chiostro all’ingresso. Insomma c’è tutto Kirkeby, anche un film, girato dal regista danese Jesper Jargil, in cui lo si vede al lavoro su una grande opera nel suo studio, con la tela che cambia di sequenza in sequenza come una roccia di cui si vadano a scoprire progressivamente gli strati delle varie ere geologiche.

A Colonia da Michael Werner
La sua parabola artistica è legata a un grande gallerista, Michael Werner, che lo espose per la prima volta a Colonia nel 1974. Werner era anche il gallerista di Baselitz, di Penck e di Lüpertz: una squadra compatta di artisti dalla dura scorza, che si contrapponeva all’altra squadra, quella berlinese di Ingrid Raab, con Rainer Fetting e Karl-Horst Hödicke, più inclini a una pittura di istintività selvaggia. Sono anni in cui la Germania traina una poderosa ripresa della pittura, che avrebbe avuto anche un risvolto italiano, più trasognato e meno imperativo, con la Transavanguardia.
La fede nella pittura da parte di Per Kirkeby è determinata e senza esitazioni. «Verso la fine degli anni settanta», scrive, «ho deciso di diventare un pittore serio, un grande pittore, e non lo dico in senso ironico. Lo pensavo davvero. Avevo dedicato tanti anni alla sperimentazione, al minimalismo, e molto altro. Con tutte quelle esperienze al mio attivo, volevo lanciarmi nella creazione di grandi, folli, coraggiosi dipinti». E poi ancora: «Spesso ho avuto la sensazione che con l’aiuto della pittura riesco veramente a vedere il mondo in tutta la sua realtà. In genere il mondo sta davanti a noi come nascosto da un velo. E questa cortina è costituita dalla lingua. Diciamo “ecco un albero”. In realtà quello che abbiamo di fronte è un albero molto particolare. Ma ci sono attimi in cui riusciamo a vedere con una chiarezza incredibile che quello è un albero, una cosa particolarissima. Il termine “albero” non corrisponde affatto all’albero che abbiamo di fronte».
Come lui stesso accenna, la formazione di Kirkeby era stata, seppure da autodidatta, nel segno di Fluxus, movimento che negli anni sessanta aveva in Copenhagen il suo centro. Nella capitale danese era arrivato nel 1960 anche Piero Manzoni, che aveva esposto le sue Uova sode firmate con impronta digitale e aveva accettato l’invito dell’industriale Daamgard a produrre opere nella sua fabbrica. Kirkeby cresce immerso in questo sperimentalismo pieno di vitalità; quando poi si concepisce pittore non lo fa per opposizione, ma per destino.
Dal modo di strutturare la propria visione della pittura, si intuisce che c’è un riferimento imprescindibile per Kirkeby: è quello di Cézanne. Da Cézanne egli intercetta una percezione tettonica della natura che si traduce in pratica pittorica; una lucidità di approccio che evita gli effetti panici. Nonostante l’impronta potentemente romantica che a volte emerge dai quadri di Kirkeby, non si ha mai la sensazione di una perdita di controllo, perché l’obiettivo è sempre il raggiungimento di una comprensione più profonda. «Io credo che quando Cézanne parla di un modo di comprendere la natura che si raggiunge con l’età matura, e che significa anche comprensione della natura della pittura, intenda dire questo: il dipinto stesso è natura. Che le forze sulle quali si poggia la montagna Sainte-Victoire non sono diverse da quelle che compongono una tela». È curioso questo «mettersi» nella testa di Cézanne sviluppando progressioni che sembrano del tutto verosimili rispetto al pensiero del maestro di Aix.

Posare lo sguardo
Come Cézanne, Kirkeby lavora molto con l’acquarello. Lo fa inizialmente in stretta relazione con il suo essere geologo, perché i reperti nelle spedizioni non venivano fotografati ma disegnati. Una pratica che Kirkeby persegue poi negli anni con una leggerezza inversamente proporzionale alla grevità cercata e voluta dei dipinti a olio o, negli ultimi anni, a tempera (di «“armi pesanti” del suo vocabolario pittorico» parla Erik Steffensen in uno dei saggi di catalogo). Gli acquarelli sono come un approccio al vedere, appunti delicati che non scoprono particolari progettualità. Sono, come lui dice con quell’appropriatezza di parole che si riscontra sempre nei suoi scritti, un «posare lo sguardo» (Per Kirkeby tra le altre cose è anche poeta). La leggerezza è la cifra che si ritrova nelle serie realizzate in Groenlandia nel 2009 e 2011, dove il segno si fa calligrafico, le forme sono riassunte in macchie ritmate e il vuoto della carta restituisce il senso di vuoto di quegli spazi.
La mostra procede con molto ordine nelle stanze che si aprono lungo il corridoio. Avanza per situazioni e per cicli, rafforzando l’impressione di un pittore che non perde mai di vista l’obiettivo, neppure nelle fasi di più alta tensione empatica. «La mia è arte sull’arte», lui dice, svelando quanto calcolo e quanto pensiero ci sia dietro ogni opera. Il fascino di Kirkeby consiste proprio nella convivenza di queste due spinte opposte: da una parte un’istintività neoromantica che lo porta a una pittura quasi immersiva dentro i soggetti, dall’altra una freddezza da “geologo” che riesce a stratificare le sue opere, ad addensarle di suggestioni derivate da contaminazioni con l’arte del passato. Sono suggestioni fuori copione, non inquadrabili nei termini di affinità culturali. Sui quadri di Kirkeby si depositano schegge di memorie senza apparente relazione e senza preoccupazione di coerenza: si va da un Egitto immaginario, ai fulgori bizantini, dalla pittura del Seicento olandese fino a Monet. Come spiega Siegrified Gohr, uno studioso che ha sempre seguito da vicino il lavoro di Kirkeby, alle radici di attrazione verso il passato c’è il tema, o meglio, il trauma dell’iconoclastia protestante: quella vicenda storica che portò gli artisti a lasciare i soggetti sacri per orientarsi sulle nature morte. E proprio una Natura morta di Claesz Heda entra in gioco nella realizzazione di un maestoso ciclo di quadri del 2006: Kirkeby enfatizza l’elemento del calice, trasformandolo in una sorta di meteora che naviga tra i colori delle tele (scrive Soldini: «L’innocua apparenza della natura morta nasconde secondo lui la lotta tra vita e morte»).

Una gabbia alla Frank Stella
Passando da una sala all’altra ci troviamo ogni volta davanti un immaginario visivo che si ricompone sempre con geometrie diverse. Magnifica la serie di tele del 2000, in cui immagini, rubate a una natura poco nordica e molto sontuosa, sono attraversate orizzontalmente da quelle che sembrano vere impronte lasciate da tronchi depositati sulla pittura: una gabbia architettonica alla Frank Stella, che restituisce potenza a ciò che in parte nasconde. Ma il punto più alto della mostra lo si raggiunge con un grande quadro, Senza titolo, del 1999, di una collezione privata svizzera. È un Kirkeby sfolgorante: l’«arma pesante» della pittura esplode in una sorta di fuoco d’artificio, come si trattasse di un Monet dipinto con un pennello elettrico. O di un espressionista che si sia tuffato senza remore e senza più spigolature nella natura: pittura folle e coraggiosa.

Written by gfrangi

Maggio 11th, 2018 at 9:17 pm

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Fontana mano volante

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fontana1Bella, intelligente, precisa la mostra che il museo di Mendrisio ha dedicato a Fontana (1946-1960, il disegno all’origine della nuova dimensione; a cura di Simone Soldini e Luca Massimo Barbero). Una mostra sobria, “necessaria” che attraverso lo scavo nei materiali della Fondazione Fontana, documenta il momento cruciale della più importante esperienza artistica del secolo, in Italia. Nel piccolo, ironico doppio Autoritratto del 1946 con cui si apre il percorso, si vede in primo piano un Fontana sconsolato e quasi accasciato e alle sue spalle l’altro Fontana, illuminato dal guizzo dell’“idea”. È come un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo. L’idea si fa strada su piccoli foglietti fruscianti, senza nessuna ambizione estetica. È l’arte che entra in un territorio nuovo mai percorso. Si sente l’ebrezza dei primi passi caracollanti nello spazio, proprio come quelle degli astronauti che di lì a poco avrebbero cominciato le loro “danze”. Vediamo grandi bolle colorate navigano nei confini della carta come tuorli di uova concettuali. E poi le intuizioni semplici, i buchi, i tagli, prima timidi, quasi esitanti, poi sempre più certi e solenni. Si avverte il punto “genetico” di un’idea, di una di quelle idee da cui non si torna indietro. «Da questo momento entra sempre più in me il convincimento che l’arte aveva concluso un’era, dalla quale dovevano salirne attraverso nuove esperienze che evadessero completamente dal problema pittura scultura» (Fontana nell’imprescindibile Autoritratti di Carla Lonzi).

Come Duchamp Fontana ha il grande pregio di non caricare mai di retorica nessun suo passo. È quasi discreto e delicato nel portare più in là la barra. E nessuno direbbe che tra quei graffi su centinaia di foglietti stava prendendo forma un’idea epocale. Neanche adesso lo si direbbe, che pur sappiamo com’è andata a finire…
Non perdetevi il big bang di Fontana in quel di Mendrisio (c’è tempo sino al 14 dicembre).

La “mano volante” del titolo la devo a Fanette Roche-Pézard che così chiamò la mostra dei disegni di Fontana al Beaubourg del 1987.

Leggi anche il pensiero di Damien Hirst su Fontana, dal catalogo della mostra genovese.

Written by giuseppefrangi

Novembre 12th, 2008 at 11:48 pm