Robe da chiodi

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Lo stupore di Consagra a colori

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Racconta Pietro Consagra nella sua autobiografia che in una delle periodiche visite a New York dove vivevano la moglie Sofia con i quattro figli, venne indotto a fare un’esperienza psichedelica. «Disegnavo su dei fogli che mi avevano dato e guardavo i fiori emettendo luci colorate. Vagavo nell’infinito vuoto… Poi una sensazione cominciava a vivere, una voglia di capire e di tornare. Era un ritornare giù a rimbalzi… Il rientro è stata una grande gioia di sentire tutto di me».

Era il 1966. Nel dicembre di quell’anno Consagra avrebbe presentato alla Galleria Marlborough di Roma dei lavori nuovi, inaspettati: ferri girevoli colorati, accompagnati da una serie di pannelli dipinti. L’anno dopo la stessa galleria portò quei lavori a New York. «Una mostra delicata come un velo», commentò l’artista, che aveva parlato anche di una ritrovata tenerezza nei confronti della propria scultura. Per lui erano anni di grandi sconquassi, sul piano artistico e su quello privato. Nel 1964 il trionfo della Pop Art alla Biennale era stato vissuto da lui come «sopravvento che non lascia aria da respirare… dentro il mio cuore entrava un mattone». L’arte americana risucchiava quella europea, come aveva amaramente constatato Roberto Longhi nel suo ricordo di Giorgio Morandi trasmesso dal Telegiornale Rai nel giugno 1964: “Exit Morandi”, arrivano i barbari. Per Consagra il problema si poneva in termini personali ancora più drammatici. Militante del Pci, aveva combattuto i paladini del realismo, da Guttuso a Trombadori, che avevano monopolizzato la linea culturale del partito. Per questo, con tutti gli amici del gruppo Forma 1, era stato accusato di accondiscendere, con la scelta per l’astrattismo, ad un’arte individualista e borghese. «La mia barca era travolta dall’oceano. Il nostro modernismo era stato solamente provocatorio?», si domandava Consagra. A tutta questa inquietudine e senso di fallimento si aggiungeva anche la dolorosa crisi del suo matrimonio e l’inizio della relazione con Carla Lonzi. «Mi ero aggrappato a Carla», racconta l’artista. Una presenza preziosa per la sua intelligenza ma soprattutto per quel suo porsi oltre i conflitti e i travagli che avevano contrassegnato il Dopoguerra. Lei aveva un approccio completamente diverso: «Faceva la critica d’arte e si occupava delle proposte dei giovani artisti».

È in questa situazione di passaggio e di precarietà che in modo inatteso Consagra apre al colore: un colore delicato, estraneo a quello plateale della Pop art. Lo scultore siciliano si aggancia piuttosto alle esperienze di Calder e di Ellsworth Kelly per approdare ad una situazione che Maurizio Calvesi, nell’introduzione alla mostra della Galleria Marlborough aveva sintetizzato in modo perfetto: «Questa scultura non celebra più un incontro, un colloquio, una libertà dai chiari connotati politici e democratici, ma celebra una nascita, una libertà senza programmi e senza aggettivi». “Colloqui” era il titolo assegnato ad una serie opere che avevano segnato il decennio tra 1952 e 1962: opere che cercavano una relazione diretta e frontale con l’osservatore, in una prospettiva sempre orizzontale. L’astrattismo per Consagra era tutt’altro che un linguaggio fine a se stesso, ma in costante dialogo con la società, con la sua energia di libertà capace di proporre una spiritualità come provocazione e di destabilizzare i processi di massificazione.

Quando questa visione entrò in crisi, fu il colore a offrirsi come via di uscita. È la “nascita” di cui parlava Calvesi nella presentazione del 1966 e che ora è al cuore della mostra proposta a Lugano negli spazi del Masi e ideata da Giancarlo e Donna Olgiati, collezionisti, amici e sostenitori del lavoro dell’artista (“Pietro Consagra. La materia poteva non esserci”, a cura di Alberto Salvadori, fino al 9 gennaio; catalogo Mousse). Come sottolinea Lara Conte in uno dei saggi in catalogo, Consagra aveva individuato nel colore «una possibilità trasformativa della scultura e una libertà espressiva del fatto scultoreo, tuttavia lontana dall’attrazione Pop». In mostra lo spazio che accoglie questa serie di lavori del biennio 1965/66 è isolato strategicamente dai “Lenzuoli”, grandi teli dipinti con colori lavabili e realizzati dall’artista a partire dal 1967 e posizionati come veri sipari.  Sulla superficie delicata e bianca Consagra annota in modo ritmico e ordinato dei flussi di immagini, che sembrano tracce, impronte di sculture immaginate. «Un terreno fertile di sperimentazione, analisi, verifica e inventario delle idee», li definisce Paola Nicolin nel saggio in catalogo. La leggerezza ariosa del supporto e la natura vagante di queste forme preparano l’occhio all’apparizione delle sculture colorate che sbucano in questo spazio così brutalmente contemporaneo come un imprevisto prato fiorito. 

I lenzuoli hanno una doppia funzione strategica: da una parte separano lo spazio, dall’altra introducono a quella dimensione di leggerezza che contrassegna questi lavori di Consagra. Non è un caso che nei titoli, oltre ai colori relativi di ciascuna opera, troviamo spesso la formula “Ferro trasparente”. Le sculture infatti non sono solo sottili, ma lasciano passare l’aria nel gioco delicato di vuoti che si crea con il giustapporsi delle lamine metalliche. Sono leggere e si reggono spesso su supporti esili come dei veri steli. Sembrano un aggregarsi di petali che generano forme docili e insieme molto contemporanee. Quanto ai colori, rivelatori di una pulsione dichiarata verso la pittura, sono concettualmente i più lontani dalla tavolozza Pop: turchese, rosa, violetto, bianco, arancio, “blu Cimabue”, carminio. Colori dialoganti, discorsivi che riaffermano la natura “non autoritaria” della scultura di Consagra. Colori pastello, come di un artista che riassapora gioie infantili e si avventura negli spazi di una inedita libertà. 

C’è evidentemente un cambio di passo con la stagione precedente, documentata in mostra da lavori celebri e anche potenti come “Impronta solare” (1961) e “Colloquio fermo” (1959). Permane la frontalità della scultura, ma le opere colorate si lasciano alle spalle quel «piglio forte e diciamo pure macho» come lo definisce Andrea Cortellessa nel suo saggio in catalogo, mettendolo in relazione con una componente opposta del suo temperamento: la fragilità emotiva e una dimensione di paura spesso dichiarata: «La sofferenza mi atterrisce», confessa in “Vita mia” (l’autobiografia è stata ripubblicata da Skira). E ancora: «Sostengo la necessità dell’arte perché ho paura». 

Completa il percorso di questa mostra uno spazio dedicato alle “Città frontali”, esperienza della fine degli anni ’60, che fa sintesi delle stagioni precedenti. Riemerge la necessità di un discorso pubblico che Alberto Salvadori definisce come un tentativo di «delineare un umanesimo contemporaneo». La città è spazio amato, è «un argomento di emozioni umane». Per questo Consagra non può accettare che la scultura sia un semplice riempitivo alla progettualità degli architetti e vuole giocarsi a livello di concezione delle forme della città. Che forse proprio in virtù dell’esperienza con la scultura a colori, appaiono futuribili ma addolcite dal fluire di linee che le fanno essere molto umane.

Pubblicato su Alias, 12 dicembre 2021

Written by gfrangi

Gennaio 15th, 2022 at 10:20 am

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La critica disarmata. Bentornati a Carla Lonzi

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È tornato finalmente in libreria Autoritratto di Carla Lonzi (la casa editrice et al. sta ripubblicando tutti i suoi testi, in edizioni sobrie, molto nello spirtio del tempo…; su amazon.it lo trovate al 30% di sconto). Un libro affascinante da me letto in fotocopie, che precorre tanto modo non di fare critica ma di essere critica di oggi. Ma nella Lonzi cerca sempre un riscontro di verità umana, di coincidenza tra l’avventura dell’artista e la sua (notate il titolo del libro al singolare: tanti incontri con artisti per cercare di capire se stessa). Nella belle pagine che Alias le ha dedicato sabato scorso Barbara Cinelli parla di «una personalità critica volontariamente “disarmata”, per un’innata vocazione piuttosto alla condivisione delle cose accadute, che non alla loro notomizzazione». E poi ancora: «si manifesta la felice cancellazione di ogni ideologia, intellettualismo o schieramento, e l’emergere, in una assoluta purezza, dell’adesione alle avventure individuali, che colloca la definizione del linguaggio visivo in una zona di esistenza piuttosto che di decifrazione storica». Una libertà tutta femminile, nei confronti della quale appaiono del tutto truci i tentativi maschili di imbrigliare l’arte in ragionamenti teorici (c’era Argan al suo opposto).

Belle due considerazioni di Carla Lonzi riportate nela pagine di Alias. La prima: «L’arte diventa il plus valore che la società attribuisce alle operazioni di chi crede in se stesso». La seconda (sul falso mito dell’India negli anni 70): «…se ne vanno per avere dei ragionamenti un po’ di spiritualità… qui ci sono gli artisti: possibile che la cultura ttanto è riuscita a fare che… uno non riesca a meditare sul lavoro di un artista e trarne delle conseguenze… C’è stato Duchamp… se uno ci medita ce n’è abbastsnza… non occorre che vada in India, mi spiego?». Si spiega, si spiega…

Written by gfrangi

Dicembre 15th, 2010 at 11:04 pm

Twombly, pittore al bacio

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T07890_9Quando ho esternato il mio entusiasmo dopo aver visto la mostra romana di Cy Twombly in corso alla Galleria nazionale d’arte moderna, mi è stato obiettato: perché lo consideri un grande? Provo a rispondere (anche se la domnda è indebita: non sono io a considerarlo un grande. È un po’ nei fatti e nella percezione condivisa…). Twombly ha questa qualità rara, di coniugare elementarità con complessità. Leggerezza con monumentalità. Nella composizione e convivenza degli opposti sta il punto di fascino, che in lui coincide come non mai con un punto di mistero. Twombly è bambino e insieme un erudito. Un balbuziente e un poeta epico. Un istintivo che non perde mai di lucidità. Ha la sfrontatezza degli americani e insieme la complicazione senza soluzione degli europei.

Twombly non si distoglie mai dal suo epicentro creativo. Sembra calamitato sul ciglio di quel cratere, al fondo del quale c’è il segreto alchemico dell’invenzione creativa. Con la sua mano ronza sempre intorno a quel ciglio, in attesa d’acchiappare lo spirito giusto. Lo vedi radunare gli elementi in ordine sparso per interi lavori, per poi assestare il colpo improvviso e decisivo che ha come esito il capolavoro. I suoi ragionamenti e le sue interviste non aggiungono nulla a quel che la pittura svela: nei dialoghi con Carla Lonzi radunati in Autoritratti, alle lunghe domande seguono solo silenzi, per nulla enigmatici. Tutto è sulle tele, semplice, lirico, fluente.

Il paradigma di Twombly sta nell’episodio accaduto ad Avignone nell’estate del 2007: Sam Rindy, una visitatrice dell’esposizione della Collection Lambert, si è fiondata su una grande tela dell’artista americaano e l’ha baciata lasciando il segno vistoso del rossetto rosso. L’opera del 1977, secondo i tecnici, sarà difficile da restaurare e si porterà quindi sempre il segno di quel bacio. E la cosa ci sta. Si bacia Twombly, perché Twombly nella sua apparente impalpabilità ed enigmaticità è anche un pittore molto carnale. Risucchia con la sua pittura ipnotica e insieme materna. Il grondare giallo nel pannello dell’estate delle Quattro stagioni, è come una colata di densità amorose. Che però conserva l’andamento aereo e imprendibile della pittura-grafia (nella foto L’inverno). Una nota sulla mostra. Il percorso è al contrario. Si inizia dalle ultime cose, con la sala più bella. Nella sala grande, l’impaginazione è tutta sbagliata, perché sia le Quattro sagioni che i tre pannelli quadrilobati dipinti a Bassano Romano sono spezzati su pareti d’angolo. Il passaggio alle altre sale è complicato da un dismpegno con una mezza scala: ed è un’interruzione che disunisce. Magnifico il salone con i due grandi quadri grigi e le due tele di onde in omaggio a Nini Pirandello. Il finale sale su su, sino all’astrattismo solido e forte dei primi quadri. Alla fine si pensa a Pollock, il fratello maggiore di Twombly. Più lirico, più brutale. Certamente meno felice.

Written by giuseppefrangi

Maggio 13th, 2009 at 4:11 pm

Fontana mano volante

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fontana1Bella, intelligente, precisa la mostra che il museo di Mendrisio ha dedicato a Fontana (1946-1960, il disegno all’origine della nuova dimensione; a cura di Simone Soldini e Luca Massimo Barbero). Una mostra sobria, “necessaria” che attraverso lo scavo nei materiali della Fondazione Fontana, documenta il momento cruciale della più importante esperienza artistica del secolo, in Italia. Nel piccolo, ironico doppio Autoritratto del 1946 con cui si apre il percorso, si vede in primo piano un Fontana sconsolato e quasi accasciato e alle sue spalle l’altro Fontana, illuminato dal guizzo dell’“idea”. È come un passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo. L’idea si fa strada su piccoli foglietti fruscianti, senza nessuna ambizione estetica. È l’arte che entra in un territorio nuovo mai percorso. Si sente l’ebrezza dei primi passi caracollanti nello spazio, proprio come quelle degli astronauti che di lì a poco avrebbero cominciato le loro “danze”. Vediamo grandi bolle colorate navigano nei confini della carta come tuorli di uova concettuali. E poi le intuizioni semplici, i buchi, i tagli, prima timidi, quasi esitanti, poi sempre più certi e solenni. Si avverte il punto “genetico” di un’idea, di una di quelle idee da cui non si torna indietro. «Da questo momento entra sempre più in me il convincimento che l’arte aveva concluso un’era, dalla quale dovevano salirne attraverso nuove esperienze che evadessero completamente dal problema pittura scultura» (Fontana nell’imprescindibile Autoritratti di Carla Lonzi).

Come Duchamp Fontana ha il grande pregio di non caricare mai di retorica nessun suo passo. È quasi discreto e delicato nel portare più in là la barra. E nessuno direbbe che tra quei graffi su centinaia di foglietti stava prendendo forma un’idea epocale. Neanche adesso lo si direbbe, che pur sappiamo com’è andata a finire…
Non perdetevi il big bang di Fontana in quel di Mendrisio (c’è tempo sino al 14 dicembre).

La “mano volante” del titolo la devo a Fanette Roche-Pézard che così chiamò la mostra dei disegni di Fontana al Beaubourg del 1987.

Leggi anche il pensiero di Damien Hirst su Fontana, dal catalogo della mostra genovese.

Written by giuseppefrangi

Novembre 12th, 2008 at 11:48 pm