Robe da chiodi

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Morandi all'ultimo fiato

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morandi_057bBellissima la mostra di Morandi al Mambo di Bologna, nonostante quel verdino rachitico steso sulle pareti, nonostante un’illuminazione (nelle prime sale) un po’ troppi intimistica, nonostante quella sede che è un mausoleo con l’ambizione o la fregola di essere luogo d’avanguardia. Nonostante tutto questo, la scelta delle opere è perfetta e il percorso della mostra ha pochissime sbavature: ed è quel che più conta. Ma conta soprattutto che Morandi esca da questa mostra (che viene dal Metropolitan di New York) come un gigante. Innanzitutto, dentro una biografia che è fatta di costanti e di assoluta sedentarietà, si scorge invece benissimo il processo di maturazione: si individua la meta. Dalle prime opere, quasi grondanti e rigogliose di pittura Morandi passa nel salutare bagno nella metafisica e, come disse sempre Longhi, alla meditazione sulla verticalità di Piero della Francesca. Morandi è un “principe costante”, e si riconosce questo suo lavorio nelle varianti di serie, dove si vede, ad esempio, come possa fermarsi (e ripetersi) per approfondire l’idea di un oggetto con la linea obliqua oppure i problemi di una composizione con un oggetto arretrato. Sono meditazioni serrate, lucide, intellettualmente alte: la mostra conferma come la tenuta mentale sia la carta vincente di Morandi. Per questo l’America non ha fatto fatica a capirne la grandezza. Stupefacente poi è il finale, con quel rarefarsi di tutto, con la pittura che cerca di essere appena un alito, che prende il rischio, estremo ma inseime dolcissimo, di posizionarsi sulla soglia del niente. E le ultime carte (nella foto) approdano, in miniatura (ma la piccolezza non è affatto una dimensione riduttiva dela grandezza…), sugli stessi terreni di Rothko.

P.S.: In mostra c’è anche il quadro con le conchiglie che Morandi donò a Francesco Arcangeli. Un capolavoro cupo, forse il più cupo che Morandi abbia mai dipinto (è degli anni della Guerra). Ma è un quadro che richiama una delle più combattute e drammatiche fratellanze tra artista e critico della nostra storia culturale. Riporto dal grande e disgraziatissimo libro di Arcangeli: «Questa non è soltanto scelta di pittura, è insieme una scelta, e insieme un destino inevitable di vita; combacianti, mi si perdoni un’autocitazione “entro la misura di un raggio visivo che è anche raggio della coscienza”».

Written by giuseppefrangi

Gennaio 25th, 2009 at 11:20 am

Vastità americane

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Vista in agosto la mostra di James Turrell a Villa Panza a Varese. Tutta costruita per spiegare l’immenso progetto del Roden Crater, presso Flagstaff in Arizona. Dal punto di vista della sensibilità è distante anni luce, perché di uno spiritualismo senza più corpo. Ma alcune ammissioni è giusto farle.

Punto primo. Fa impressione riscontrare come l’arte americana abbia ereditato la vocazione a pensare in grande. In America esplodono le dimensioni, non solo per esibizionismo, ma per un bisogno di “andare oltre“ connaturato all’opera. Ha cominciato Pollock, gli altri sono andati dietro. L’arte non è più un giochino, esorbita, esce dalle misure. Nessuno nel 900 in Europa ha spinto in questa direzione. Eppure nella storia europea l’andare oltre la misura è stata una spinta sempre presente: pensa all’enormità della Sistina, ai metri di tela nera sopra gli ultimi Caravaggio, alla forza centrifuga della scultura di Bernini. Ma anche alle galoppate di Tiepolo… O agli esorbitanti crocifissi di Cimabue. Ora questa eredità sembra tutta americana. Turrell prende un cratere nel desero e ci costruisce nei decenni la sua opera (nella foto Akpha space. Lo skyspace).

Punto secondo. L’arte americana si misura sistematicamente con l’assoluto. Non è di tutti, ma accade con una frequenza che fa impressione. E’ un assoluto disincarnato, senza volto: ma questa è caratteristica americana o è non è invece perché l’uomo ha perso la grammatica dell’assoluto? Non sa più dargi nome e faccia (come del resto aveva detto Péguy)? L’arte americana ci dice che oggi il sacro è aniconico (Dan Flavin alla Chiesa Rossa di Milano). Che chi lo vuole rappresentare cade sistematicamente nell’illustrazione patetica. Le Corbu a La Tourette mette solo uncrocifisso minimo sull’immensa parete bianche. Il resto è solo luce. C’est tout. E Matisse è più evocativo nei papier decoupèe che nella Via Crucis di Saint Paul de Vence.

A proposito. A Londra viene ricomposto il ciclo Seagram di Rothko. Immensità, più assoluto (anche se nero). Ma Rothko in più ha anche il senso (a volte colossale) della struttura. Ha ancora un corpo. Per questo è il più grande.

Written by giuseppefrangi

Settembre 16th, 2008 at 10:21 pm