Robe da chiodi

I giorni giusti per vedere Caravaggio

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La macchina delle grandi mostre funziona così: enorme battage prima dell’inizio, con presentazioni su intere pagine. Poi cala il silenzio. Ad esempio del Caravaggio romano avremo letto centinaia di articoli di lancio, ma nessuna recensione. Personalmente ne ricordo una sola, firmata Simone Facchinetti, pubblicata dall’Eco di Bergamo, oltre che una nota sintetica e intelligente pubblicata sull’ultimo Giornale dell’Arte. Per questo mi fa piacere pubblicare alcuni passaggi della recensione che Laura Auciello, appena laureatasi a Roma in Storia dell’arte (tesi su Raffaellino del Garbo), mi ha fatto avere. Che abbia un occhio attento lo dimostra questa notazione utile che metto in testa: è quella relativa  ai giorni buoni per vedere la mostra, senza essere troppo penalizzati dai quadri che prima ci sono e poi spariscono. Laura consiglia il periodo dal 15 aprile al 14 maggio (arriva la Flagellazione di Napoli, anche se nel frattempo Il riposo durante la fuga in Egitto è partito per Genova. controllate qui la girandola)… Molto più complicato invece vedere Caravaggio a Siracusa, dov’è conservato quel capolavoro che è il Seppellimento di Santa Lucia. Un amico mi ha mandato il cartello degli orari via Mms: potete vederlo dalle 11 alle 14 e dalle 17 alle 19, lunedì escluso… Ecco la recensione di Laura Auciello.

«Le Scuderie accolgono oggi un Caravaggio celebratissimo e iperpubblicizzato, ospitando 24 opere, provenienti dai maggiori musei di tutto il mondo. Dislocate su due ampi piani, le tele sono suddivise visivamente in tre grandi sezioni, cromaticamente distinguibili e corrispondenti alle tre fasi della vita e della carriera dell’artista. Si hanno così pannelli verdi per la giovinezza, rossi per gli anni della fama e grigi per quelli della fuga. Una luce chiaroscurata, molto caravaggesca, pensata ad hoc dallarchitetto Michele de Lucchi, illumina – non illumina le opere disposte nelle dieci sale dell’elegante palazzo settecentesco. La mostra, volutamente divulgativa, punta ad una recezione quanto più possibilmente facilitata da parte del pubblico e propone un allestimento che stimola un’adesione emozionale alle opere esposte. Come corollario di ogni sala, i pannelli esplicativi spiegano – non spiegano le tele autografe, con qualche sommaria notizia storica e un commentario piuttosto pletorico ma decisamente suggestivo. La mostra è, così, decisamente “facile” nel suo andamento cronologico, nella proposizione delle tele tra le più famose dell’artista, nella ferma scelta di proporre solo un corpus certo e non discutibile di opere e nei pochi confronti tipologici suggeriti dall’esposizione. L’esposizione, seppur pensata con il contributo dei più grandi studiosi caravaggeschi italiani, che ne hanno curato anche il catalogo edito da Skira, non ha dichiaratamente alcuna pretesa scientifica o innovativa da un punto di vista meramente storico-artistico, molto lontana, in questo, da quella milanese curata da Roberto Longhi, nel 1951. Da sottolineare, poi, che la mostra rimanda più volte alle grandi tele ancora in situ, nelle chiese romane dove l’artista lavorò, consigliandone una visita, a completamento della visione delle opere esposte. Forse sarebbe stato auspicabile un prestito delle stesse per una maggiore coerenza espositiva e un’interessante decontestualizzazione delle opere chiesastiche».

(Sono molto d’accordo con questa sottolinatura finale di Laura)

Written by giuseppefrangi

Aprile 11th, 2010 at 2:41 pm

Lucien Freud a corpo morto

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Devo ammettere di aver sempre nutrito qualche riserva o qualche preconcetto sulla grandezza di Lucien Freud. Dopo aver visto la mostra parigina in corso al Beaubourg devo ricredermi. Ma il merito non è solo di Freud. Il merito è anche di chi ha concepito questa mostra senza lasciar spazio a compiacimenti. La mostra infatti è impostata concettualmente in modo molto preciso. L’atelier di Freud, questo è il titolo, diventa un luogo ruotando attorno al quale sono state costruite quattro sale che sono come quattro installazioni. Dentro una griglia così coerente la grandezza di Freud ce ne guadagna, buttando dietro le spalle i tic da pittore sin troppo abile e facendo emergere le strutture portanti della sua pittura. L’atelier è il luogo in cui tutto si consuma, in cui i pensieri si condensano e danno luogo a serie di opere percorse da uno stesso filo rosso. La prima sezione “Interieur exterieur”, per esempio ruota sul dentro e sul fuori, ma è il dentro quello che conta e che determina anche la visione del fuori. Il dentro è il luogo che permette concentrazione, conoscenza insistita, profondità di visione. Il fuori è tutt’al più quel che si vede dalla finestra, o nel cortile,  in un momento di alleggerimento della presa. La potenza è tutta nel dentro, nella confidenza che s’instaura con i suoi soggetti portati ogni volta ad uno stato di monumentale abbandono. L’ultima sala (“comme la chair”) è un’apoteosi di corpi assopiti, e quindi rapiti da Freud nel momento di massima grevità. Corpi che piombano, come a peso morto, dentro le sue tele. Visti nell’insieme hanno un che di formidabile, di epico. La loro è una passività trionfante. Non hanno bisogno di far nulla: il loro semplice lasciarsi andare è una vittoria.

Anche la pittura di Freud qui trova un punto di compimento vero; perché la sua oltranza (parola testoriana) non è più autolegittimazione, ma trova una ragione nell’oltranza della carne. È la carne a chiamare la pittura. E la pittura, ovviamente, non si fa negare. Ecco tre quadri dell’ultima sala.



Written by giuseppefrangi

Aprile 7th, 2010 at 12:01 am

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Quel mattino di Giovanni e Pietro

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Pasqua a Parigi. L’attenzione corre a quel quadro strano, conservatio al Musée d’Orsay, così caro a tanti. Lo ha dipinto nel 1898, un pittore poco più che dilettante, Eugene Burnand, nato in Svizzera, a Moudon, pochi chilometri da Losanna. Le cose che si vedono di lui non preludono in nessun modo a un quadro così magico. Il quadro in questione è suggestivo sin nel titolo: Les disciples Pierre et Jean courant au sépulcre le matin de la Résurrection. Soggetto raro, raccontato con una semplicità da libro di buona dottrina illustrata, ma con un qualcosa in aggiunta, di inatteso. È l’impeto dei due che correndo sembrano già tutti investiti dallo stupore di ciò che vedranno; sono gli occhi sgranati Pietro, vecchio che si ritrova con un cuore da bambino; è questa impaginazione così asimmetrica che sposta il baricentro fuori dalla tela. Ma il particolare che più commuove di questo quadro è l’attenzione al momento in cui il fatto accade: la luce del mattino incendia il cielo di giallo, e diventa una facile, ma per nulla scontata, metafora di una speranza più grande. Aver intercettato questo particolare che rende tutto così vero, è la cosa che assegna al quadro di Burnand un posto particolare in tanti cuori.

Written by giuseppefrangi

Aprile 2nd, 2010 at 9:46 pm

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L'arte dà spettacolo/1. Hirst sul porto di Monaco

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Grande mostra di Damien Hirst al Museo Oceanografico di Monaco (principato). Installazioni spettacolari dentro e anche fuori. Sul molto ha posizionato questa gigantesca donna incinta nuda. Facili simbologie a parte, non si può dire che Hirst non sia un mago nello sfilarsi sempre dall’ordinario. Enorme bambolona, con lo sguardo istupidito dal troppo di vita che l’ha travolta… qui le foto

Written by giuseppefrangi

Marzo 31st, 2010 at 4:29 pm

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L'arte dà spettacolo/2. Twombly al Louvre

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Cy ha progettato il soffitto della Salle de Bronzes (400 metri quadrati, primo piano Aile de Sully) del Louvre. Cielo blu compatto matissiano, pianeti che rimbalzano come palle, grandi scritte greche con i nomi di artisti dell’antichità. Qui per saperne di più

Written by giuseppefrangi

Marzo 31st, 2010 at 4:24 pm

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Viva il non-museo del design

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Il Museo del Design, alla Triennale di Milano, si è rinnovato per la terza volta, come accade ogni anno in vista del Salone del Mobile: un’idea giusta e azzeccata di Davide Rampello, perché il design se museificato è finito (il Moma da questo punto di vista ha solo da imparare…). Il design è un organismo vivo e anche quando viene storicizzato resta con quelle caratteristiche. E non basta una semplice turnazione degli oggetti, ci vuole un’idea espositiva su misura. La Triennale ha pensato alla formula di affidare ogni anno un museo “effimero” a grandi nomi del design: quest’anno è toccato ad Alessandro Mendini.

Mendini ha ruotato il suo museo sull’idea di presentare 800 oggetti che hanno fatto la storia e il vissuto del nostro quotidiano dal dopoguerra a noi. Un’idea semplice, molto orizzontale, che elimina l’alto e il basso, le differenze tra oggetti di serie A e di serie B. Con il design questo si può fare, senza fare nessuna demagogia: perché la genialità di un oggetto può scendere dall’intelligenza del suo creatore, ma può anche salire dal  basso per l’energia anche estetica che gli ha dato una consuetudine condivisa. Il percorso segue la meravigliosa struttura del palazzo di Muzio, e gli oggetti sono appoggiati a in basso come su delle isole in cui sono stati raccolti e radunati secondo un flusso impercettibile ma ben ragionato (le didascalie sono su leggii ai quattro angoli di ciascuna isola e sono l’unico  elemento difficoltoso dell’allestimento di Pierre Charpin: un semplice volantino ai visitatori non sarebbe stato meglio?). Si inizia con la poesia di Catullo in cui è la nave del poeta a raccontare ciò di cui è fatta (primo testo di critica del design della storia: così viene presenatata). E si finisce con l’Italia alla rovescia, icona di Fabro. In mezzo un flusso di 800 oggetti che si richiamano l’un l’altro. La serie di statue di Sant’Antonio con il Bambino, realizzate dal miglior laboratorio artigianale, è affiancata ad una serie parallela di cavatappi Lagostina, in piedi e abraccia aperte. «Quali cose siamo» è il titolo che Mendini ha dato al suo “museo”. Ed è un titolo azzecatissimo (c’è il vestito dentro il quale navigava Totò, ma c’è pure il bastone del pastore Guglielmo, bergamasco…). Viva il design orizzontale. E viva questa Milano sempre viva…

Sito in allestimento del Museo

E qui invece una sorprendente Babele, idea con cui si chiude la mostra.

Written by giuseppefrangi

Marzo 28th, 2010 at 2:23 pm

Marco Romano, un gigante misterioso

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Confesso di avere un debole per la scultura. Mi intriga e mi affascina per quel suo impasto di materialità e di assoluto, di “toccabilità” e di mistero. Così ho avuto un vero sussulto di godimento quando ha letto l’annuncio che Casole d’Elsa si sta aprendo una mostra dedicata a Marco Romano ( curata da Alessandro Bagnoli). Direte, chi è Marco Romano? Ebbene è un grandissimo e molto misterioso scultore che ha lavorato all’alba del 300. Io l’avevo conosciuto grazie a un magistrale saggio di Giovanni Previtali, che per primo negli anni 70 assemblò il puzzle delle sue opere sparse tra Toscana, Lombardia e Venezia. Ad esempio quella che vedete qui a fianco è il volto di un Sant’Omobono realizzato per la cattedrale di Cremona. Impressionante la fisicità carnale del volto, la capacità di cogliere l’attimo di concitazione, quasi uno scatto di comando o di indignazione, di questo santo vestito da borghese dell’età comunale (osservate i tendini tesi sotto il mento). Sembra già un preludio di Rodin, ma siamo ancora all’inizio del 300.

Marco Romano fa parte di quel filone di cultura gotica permeata di classico, che risponde allo stile drammatico e sregolato, quasi gridato, del grande Giovanni Pisano. Eppure gli anni non sono distanti (Giovanni muore nel 1315). Con Marco Romano resta la stessa capacità vitalistica che innerba la pietra, ma ricomposta dentro una misura sorprendentemente e precocemente classica.

È una dialettica decisvia questa che s’innesca tra temperamenti irregolari e quelli più portati a stringere l’emergia della scultura dentro un ordine. È la stessa che si rinnova un secolo dopo tra Donatello e Brunelleschi, ma che pervade un po’ tutta la storia dell’arte italiana.

Un’ultima cosa: Previtali sottolineava come il disvelamento del verbo classico fosse avvenuto per opera di due grandi cantieri del nord, quelli delle cattedrali di Reims e di Bamberga in Germania. Come sia avvenuto che il Nord abbia anticipato tutti in questa svolta è cosa intrigante da capire. Delle sculture del portale di Reims ho un ricordo impressionante: come se il Partenone fosse improvvisamente riaffiorato nel tessuto europeo.

Written by giuseppefrangi

Marzo 26th, 2010 at 10:15 am

19 marzo, dedicato a tutti i padri

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Oggi san Giuseppe e festa del papà. Le più belle immagini che mi vengono in mente sono tutte religiose, legate a quel grande santo, che è diventato santo restando sempre dietro le quinte. Ma c’è anche un’immagine memorabile e molto laica: è una tela di Van Gogh, si intitola i Primi passi ed è del 1889. Ci sono due motivi per cui questa tela è inscindibilmente legata alla paternità. Il primo è il soggetto: un papà contadino che a braccia aperte attende i primi passi della sua bambina. Il secondo è la storia del quadro: Van Gogh infatti lo dipinge da “figlio” in quanto copia un soggetto di François Millet, pittore fancese della scuola di Barbizon morto nel 1875. È commovente questo suo atteggiamento di mettersi con umiltà sulla scia di un altro artista che sente come proprio padre. Uno da cui attingere, su cui appoggiarsi. Infatti per essere buoni padri, bisogna innanzitutto avere la coscienza di essere figli (non di “essere stati“, ma di “essere sempre” figli).

Oltre a Van Gogh (che non fu mai padre) un’altra grande visione della paternità è nelle pagine, di pochi decenni successivi, di Charles Péguy in Véronique. Ve ne propongo un piccolo estratto:: «C’è solo un avventuriero al mondo, e ciò siu vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia…. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Lui naviga su questa rotta immensamente larga, lui solo non può affatto passare senza che la fatalità si accorga di lui… Gli altri scantonano sempre. Possono permettersi di infilare solo la testa. Lui, lui deve nuotare di spalle, deve risalire tutte le correnti. Deve infilare lespalle, il corpo e tutte le membra. Gli altri scantoneranno sempre. Sono carene leggere, sottili come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico».

Written by giuseppefrangi

Marzo 19th, 2010 at 2:55 pm

La fantastica vecchiezza di Goya

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Oggi apre a Milano una mostra non so quanto sensata su Goya e la modernità. Sono quelle idee un po’ raffazzonate, in cui si vuole dimostrare che stante un grande, tutto quello che viene dopo discende, volente o nolente, da lui. Il che è un processo mentale di una genericità e di un semplicismo che lascia il tempo che trova. Goya basta da sé (se poi i quadri suoi che si possono avere in prestito non sono tanti e per condire una mostra dai numeri accettabili bisogna attaccargli una coda, questo è un altro discorso…).

Comunque alla mostra di Milano c’è un quadro che per me vale da solo il biglietto. È la Lattaia di Bordeaux, dipinta nell’estremo esilio francese. È il ritratto di una ragazza, di quelle che dalla campagna arrivavano in città per portare il latte. Sta sul dorso di un mulo che non si vede, con il contenitore sulla sinistra. Il ritratto è come visto dal basso, e si staglia su un cielo incredibile, immenso e profondo, che si fa via via più luminoso, e si accende nei contorni della figura. Goya dipinse questo quadro usando anche una tecnica spregiudicata, infatti il colore ad olio è mescolato con amido e con sabbia fine, un mix che fa vibrare di luce la materia. Il particolare per me indimenticabile è lo sguardo struggente della ragazza, pieno di desiderio e affondato nella nostalgia. Uno sguardo così antico e insieme così contemporaneo. Osservate la bocca socchiusa, come per un gemito che a noi è destinato a restare misterioso. La Lattaia di Bordeaux è un’icona della giovinezza, dei suoi fremiti e delle sue timidezze; un’icona dipinta da un grande artista che sino all’ultimo giorno si dimostra ingordo di vita.

Goya infatti aveva 82 anni, era sordo. Racconta l’amico Moratìn: «Goya arrivò sordo, vecchio, maldestro e debole, senza sapere una parola di francese e senza un domestico, ma contentissimo e desideroso di vedere il mondo». Lavorava in continuazione e in un commovente disegno custodito al Prado con l’immagine di un vecchio che cammina con le stampelle (eccolo qui sotto),  come ricorda sul Corriere Francesca Bonazzoli, scrive: «Aùn, aprendo», «Ancora, imparo». Grande Goya!

Written by giuseppefrangi

Marzo 17th, 2010 at 12:45 pm

Michelangelo e il san Giuseppe ritrovato

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È uscito in edizione accessibile (per il prezzo: era 150 euro, ora a 38; Jaca Book) il libro di Heinrich Pfeiffer sulla Sistina svelata. Lo studioso gesuita scava dentro il programma iconografico dell’intera cappella, ma la parte più sorprendente è quella finale che riguarda il Giudizio Universale. Sorprendente per vari motivi. Primo, perché costringe a uno sguardo su questo gigantesco affresco che non sia uno sguardo “all’ammasso”, in cui la fantastica visione dell’insieme si mangia i particolari e il senso interno della costruzione. Secondo, perché scavando si scoprono le incredibili libertà che Michelangelo si prende rispetto alla tradizione. Come l’affresco sfonda la parete di fondo, portando il cielo dentro la cappella (interessante l’assenza di ogni cornice e di ogni elemento che riporti al fatto che si tratta di una rappresentazione; Michelangelo ci spalanca “una visione”), così Michelangelo sfonda lo status quo dell’iconografia. Pfeiffer innanzitutto ristabilisce una logica che tiene insieme i vari gruppi dei salvati che ruotano attorno a Cristo giudice. Dentro questa griglia fa piazza pulita di tanti errori che rendevano stranamente incorenete l’insieme.

Il più clamoroso è quello che riguarda san Giuseppe, da sempre (anche nel recente libro edito dai Musei Vaticani con il Sole 24 ore) creduto sant’Andrea. Ma nota giustamente Pfeiffer, che ci fa Andrea nel gruppo degli immediati precursori di Gesù (c’è il Battista, Elisabetta, Zaccaria…)? In realtà quella figura monumentale, di spalle, nuda che imbraccia due legni incrociati è il falegname Giuseppe. Maria, l’unica figura completamente vestita del Giudizio, guarda proprio verso la croce. Michelangelo quindi stabilisce un rapporto concettuale tra la professione di Giuseppe e la croce a cui verrà appeso Cristo.

Le novità come un domino, si agganciano l’una all’altra: val la pena leggerlo ma dotandosi di illustrazioni più adeguate rispetto a quelle fornite dall’editore per ragioni di bilancio. Una però voglio anticiparvela: nella parte bassa a sinistra, dove Michelangelo dipinge la ressurrezione dei corpi una angelo dalle proporzioni gigantesche, tiene un rosario a cui si aggrappano due figure che così raggiungono la salvezza. Quel rosario, nota Pfeiffer, non ha una distinzione di decine, perché è il rosario musulmano con i 99 nomi di Allah. Le due anime salvate dunque sono due musulmani? Sin qui Pfeiffer non si spinge, ma certo sarebbe un bello spot contro lo scontro di civiltà…

Written by giuseppefrangi

Marzo 14th, 2010 at 11:46 am