Robe da chiodi

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Cattelan, il bambino che sono io

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Bellissima l’intervista di Francesca Bonazzoli a Maurizio Cattelan, apparsa sul Corriere. Qui la potete leggere in integrale. Io ne ho fatto uno smontaggio a temi (così bella da chiedermi se queste parole non siano un compimento dell’opera stessa. Cioé necessarie alla loro esistenza. Comunque colpisce il venire a galla dell’anima bambina di Cattelan: questa è la sua forza)

Un trittico perfetto «Molti dei miei lavori migliori sono frutto o di errori o di situazioni come questa dove sei costretto a trasformare in positivo gli imprevisti. Alla fine le tre opere che esporrò a Palazzo Reale sono un trittico perfetto, la mia famiglia autobiografica: il padre, la madre e il figlio. Se mi fossi seduto a tavolino non mi sarebbe venuta in mente una mostra così». Ha messo in mostra la sua famiglia? «È una famiglia disfunzionale, come è stata la mia: il padre fa il Papa; la madre sostituisce il figlio in croce e il figlio non riesce a comunicare se non battendo il tamburo».

Il Papa colpito dal meteorite. «La statua di papa Wojtyla è un lavoro del 1999 che era nato in piedi, ma non mi convinceva. A una settimana dalla mostra cominciai a pensare a come distruggerlo. Alla fine mi venne l’ idea del meteorite e fu come un’ illuminazione: capii che avevo abbattuto la figura del padre. Questo è quello che sanno fare i lavori importanti: se io ho avuto un’ epifania, allora può averla anche qualcun altro». Chissà come sarà contento suo padre a leggere questa rivelazione. «A diciassette anni tentai di strangolarlo; fu allora che andai via di casa. Di giorno lavoravo otto ore, alla sera andavo a scuola: niente divertimento. Ma avevo bisogno di silenzio intorno a me: la casa era piccola e noi eravamo in troppi. È stato il cruccio di mia madre che era orfana e ha rivissuto l’ abbandono».

Il bambino che sono io. Il bambino tamburino allora è lei?  «Decisamente: non posso togliermi dalla partita. Penso di essere un caratteriale, forse da piccolo molto più di adesso. Mia mamma, presa dalla disperazione, venne a chiedermi cosa non andava. Mi ricordo mezz’ ora di silenzio dove nella mia testa c’ erano migliaia di inizi di possibili dialoghi che non hanno mai preso forma verbale. Non era solo l’ incapacità di esprimere le mie necessità, era un blocco emotivo. Io non avevo un tamburo, ma usavo il silenzio. Come ho montato il bambino nella sala delle Cariatidi è perfetto: è in alto sul cornicione, solo e distante; c’ è e non c’ è. Non è a livello delle altre figure ma è sospeso nel punto di vista esterno dello spettatore, quello che ho sempre usato nella vita».

Mia madre in croce. Dunque la donna crocifissa è sua madre, quella che non l’ ha mai baciato? «Nell’ arte la donna è la Madonna e la rappresentazione della bellezza, ma nella mia famiglia la donna era sofferenza. Quest’ opera per me non è mai nata come una crocifissione invertita, ma in questo trittico mi sento di giustificarla come la mia visione domestica femminile». Non pensa che il bambino tamburino e il Papa assieme nella sala delle Cariatidi faranno pensare agli scandali di pedofilia che hanno colpito la Chiesa? «Si possono smembrare le opere e dare anche letture di attualità. Però l’idea a monte è unire tre opere che hanno significato moltissimo per me».

Il dito medio a piazza Affari. Si aspetta polemiche come per i manichini impiccati a Milano nel 2004 che furono tolti dopo un solo giorno? «Questa ormai è una mostra certificata e già discussa sulla stampa. Quando andremo a vederla qualcuno si chiederà perché c’ è stato tanto rumore per nulla. Anche la statua della mano in fondo viene da un’ immagine classica come quella della mano di Costantino ai Musei Capitolini. Se non ci fosse stata la precedente avventura milanese sarebbe stata una mostra senza tanti problemi. Quando dicono che sono un manipolatore o un pubblicitario, io dico: voi che fate i giornali, i blog, siete i manipolatori. Io produco, sono gli altri che parlano».

50 anni con i calzoncini corti. Ma lei non era il ribelle dell’ arte? Non le dà fastidio che questa mostra arrivi, come dice lei, certificata? «Non ho mai perseguito polemiche o strategie del ribellismo. Sono felicissimo che il vicario episcopale per la Cultura della diocesi di Milano, interpellato dal Comune per non urtare la Curia, abbia visto quello che in realtà è la statua del Papa: un lavoro spirituale che parla di sofferenza. Il titolo La Nona Ora allude a quella in cui Cristo, sulla croce, chiede al Padre perché l’ ha abbandonato, ma il Papa cadente si aggrappa al crocifisso. Certe cose hanno bisogno di tempo per essere digerite. Forse dieci anni non sono ancora abbastanza». Il 21 settembre compirà cinquant’ anni. Un bilancio? «Mi sento ancora con i calzoncini corti, come se fossi cresciuto durante l’ ultima notte. Sono il primo a essere sorpreso di essere arrivato qui integro».

Written by gfrangi

Settembre 14th, 2010 at 7:35 am

La fantastica vecchiezza di Goya

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Oggi apre a Milano una mostra non so quanto sensata su Goya e la modernità. Sono quelle idee un po’ raffazzonate, in cui si vuole dimostrare che stante un grande, tutto quello che viene dopo discende, volente o nolente, da lui. Il che è un processo mentale di una genericità e di un semplicismo che lascia il tempo che trova. Goya basta da sé (se poi i quadri suoi che si possono avere in prestito non sono tanti e per condire una mostra dai numeri accettabili bisogna attaccargli una coda, questo è un altro discorso…).

Comunque alla mostra di Milano c’è un quadro che per me vale da solo il biglietto. È la Lattaia di Bordeaux, dipinta nell’estremo esilio francese. È il ritratto di una ragazza, di quelle che dalla campagna arrivavano in città per portare il latte. Sta sul dorso di un mulo che non si vede, con il contenitore sulla sinistra. Il ritratto è come visto dal basso, e si staglia su un cielo incredibile, immenso e profondo, che si fa via via più luminoso, e si accende nei contorni della figura. Goya dipinse questo quadro usando anche una tecnica spregiudicata, infatti il colore ad olio è mescolato con amido e con sabbia fine, un mix che fa vibrare di luce la materia. Il particolare per me indimenticabile è lo sguardo struggente della ragazza, pieno di desiderio e affondato nella nostalgia. Uno sguardo così antico e insieme così contemporaneo. Osservate la bocca socchiusa, come per un gemito che a noi è destinato a restare misterioso. La Lattaia di Bordeaux è un’icona della giovinezza, dei suoi fremiti e delle sue timidezze; un’icona dipinta da un grande artista che sino all’ultimo giorno si dimostra ingordo di vita.

Goya infatti aveva 82 anni, era sordo. Racconta l’amico Moratìn: «Goya arrivò sordo, vecchio, maldestro e debole, senza sapere una parola di francese e senza un domestico, ma contentissimo e desideroso di vedere il mondo». Lavorava in continuazione e in un commovente disegno custodito al Prado con l’immagine di un vecchio che cammina con le stampelle (eccolo qui sotto),  come ricorda sul Corriere Francesca Bonazzoli, scrive: «Aùn, aprendo», «Ancora, imparo». Grande Goya!

Written by giuseppefrangi

Marzo 17th, 2010 at 12:45 pm

Cattelan o Viola? Io non ho dubbi

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Ieri, per una coincidenza, i due maggior quotidiani italiani hanno pubblicato due interviste a due star dell’arte mondiale: il Corriere, Maurizio Cattelan e Repubblica, Bill Viola. Io sono di parte, e tra i due non esito a stare dalla parte di Cattelan: più netto, più trasparente, più aperto al mondo. Comunque il confronto mi sembra interessante e emblematico, perché propongono due modi di mettersi davanti all’arte opposti. Cattelan è centrifugo, Viola è centripeto. Cattelan cerca un pieno, Viola insegue un vuoto. Cattelan è alla luce del sole, Viola gioca sull’oscurità. Per dirla tutta: le parole di Viola non aggiungono quasi nulla a quello che sappiamo e abbiamo capito di lui. Quelle di Cattelan invece svelano una fatica per capire il senso del proprio fare. In questo senso umanamente sono molto più interessanti. Anche la provocazione dei bambini impiccati all’albero di 24 maggio, dalle parole di Cattelan viene restitutio in maniera diversa e comprensibile. Ecco una breve antologia perché anche voi possiate giudicare (anche se il ritratto di Cattelan firmato da Francesca Bonazzoli è bello da leggeer in integrale).

Maurizio Cattelan dixit

«Ma io non provoco! La mia aspirazione è fare lavori che siano il massimo della sintesi: il libro perfetto dovrebbe avere sole cinque pagine e allo stesso modo io voglio fare lavori che parlino alla gente e però non siano popolari. Un’ opera funziona se ti attira e poi quando sei vicino e disarmato ti tira un cazzotto. Per esempio nello scoiattolo suicida, il sangue non si vede: alla prima occhiata può sembrare una fiaba, ma poi ti dà il cazzotto. Così per i bambini impiccati. La forza di quel lavoro stava proprio nel fatto che era esposto in una piazza. Insomma è importante quello che riesci a smuovere nelle persone, ma io non mi dico mai: adesso devo inventare una provocazione. Una volta esposta l’ opera, io stesso divento uno spettatore incosciente di come le altre persone l’accoglieranno. Sono un tramite di qualcosa che non è sotto il mio controllo».

«Farò un monumento di marmo contro tutte le ideologie e sarà l’ occasione per confrontarmi con un tema classico della storia dell’ arte, così come già ho fatto con le statue del cavallo e del papa. Mi interessa mettermi in relazione con questi micromovimenti della storia; il provocatore, al contrario ti aspetta con la sua aggressività per tirarti giù, ma io non ho quel progetto».

«Vedo gli amici soprattutto col computer, via Skype: sono per lo più persone disordinate, squilibrate come me. Qui a New York incontro un artista che è veramente fuori di testa; di recente sono stato all’ Outsider fair, una fiera di sconosciuti al sistema dell’ arte. Molti di loro sono geniali e mi piace sostenere i loro lavori, ma spesso non ce l’ hanno fatta perché hanno dietro storie di malattie mentali e alcuni sono morti in ospedali psichiatrici».

Che cosa vorrebbe dunque ancora dalla vita? «Trovare la serenità dentro di me. L’ unica cosa con la quale te ne vai da questo mondo. Più invecchi più ti rendi conto che le cose non ti proteggono: possono indurti a credere che ti aiutino, ma non ti salvano».

Bill Viola dixit

«Cerco di portare in superficie qualcosa che esiste già. È già lì. Solo che non la vediamo. L’ arte per meè rivelazione».

«Anche se non lavoro con il pennello ma con il video, mi sento un pittore che realizza immagini».

«L’ idea è nata quando ho visitato la Cappella degli Scrovegni a Padova, sono rimasto folgorato. Giotto è uno dei miei eroi. Penso abbia fatto il primo dipinto virtuale. Quando ho visto lo spazio sono rimasto sopraffatto. Dopo il primo impatto, quando mi sono ripreso, ho riflettuto sul fatto che ogni superficie era affrescata, è stato come entrare in una realtà virtuale. Così ho iniziato a progettare un grande ciclo di immagini, connesse ma indipendenti. Quello che mi ha affascinato era entrare in uno spazio e camminare dentro le immagini. È quello che ho fatto in Go Forth by Day. Entri in un luogo illuminato solo dai bagliori delle proiezioni per camminare, come in un sentiero, in questa lunga stanza e attraversare il ciclo eterno della vita e della morte, della creazione e della distruzione. Il titolo deriva dal Libro dei Morti dell’ antico Egitto, e si riferisce al momento del trapasso in cui dal buio si passa nella luce. È incredibile osservare come l’ idea della luce intesa come rivelazione sia presente indistintamente in tutte le tradizioni religiose».

«Erano gli anni della guerra del Vietnam e della contestazione», ricorda Bill Viola, «in America la cultura e la religione orientale erano un simbolo. Volevamo andare a vedere di persona. Quel viaggio ci ha cambiato la vita. Siamo rimasti in Giappone diciotto mesi, fra il 1980 e il 1981, e abbiamo avuto la fortuna di incontrare un maestro zen straordinario: Tanaka Daisen. Praticavamo con lui quasi tutti i giorni, eccetto quando lui viaggiava. Era un uomo magico. Mi diceva “devi imparare a essere vuoto”. Se lo immagina? Avevo studiato anni per imparare a essere pieno, di idee, progetti, immagini, e ora quest’ uomo mi diceva che dovevo essere vuoto, e perso, e imparare a lavorare da una posizione di fragilità. Era pazzesco, ma aveva ragione».

Written by giuseppefrangi

Marzo 1st, 2010 at 3:38 pm