Oggi san Giuseppe e festa del papà. Le più belle immagini che mi vengono in mente sono tutte religiose, legate a quel grande santo, che è diventato santo restando sempre dietro le quinte. Ma c’è anche un’immagine memorabile e molto laica: è una tela di Van Gogh, si intitola i Primi passi ed è del 1889. Ci sono due motivi per cui questa tela è inscindibilmente legata alla paternità. Il primo è il soggetto: un papà contadino che a braccia aperte attende i primi passi della sua bambina. Il secondo è la storia del quadro: Van Gogh infatti lo dipinge da “figlio” in quanto copia un soggetto di François Millet, pittore fancese della scuola di Barbizon morto nel 1875. È commovente questo suo atteggiamento di mettersi con umiltà sulla scia di un altro artista che sente come proprio padre. Uno da cui attingere, su cui appoggiarsi. Infatti per essere buoni padri, bisogna innanzitutto avere la coscienza di essere figli (non di “essere stati“, ma di “essere sempre” figli).
Oltre a Van Gogh (che non fu mai padre) un’altra grande visione della paternità è nelle pagine, di pochi decenni successivi, di Charles Péguy in Véronique. Ve ne propongo un piccolo estratto:: «C’è solo un avventuriero al mondo, e ciò siu vede soprattutto nel mondo moderno: è il padre di famiglia…. Solo lui è letteralmente coinvolto nel mondo, nel secolo. Solo lui è letteralmente un avventuriero, corre un’avventura. Lui naviga su questa rotta immensamente larga, lui solo non può affatto passare senza che la fatalità si accorga di lui… Gli altri scantonano sempre. Possono permettersi di infilare solo la testa. Lui, lui deve nuotare di spalle, deve risalire tutte le correnti. Deve infilare lespalle, il corpo e tutte le membra. Gli altri scantoneranno sempre. Sono carene leggere, sottili come lame di coltello. Lui è la nave grossa, pesante bastimento da carico».
guardo van gogh, guardo goya. In questi giorni nelle stazioni della MM la lattaia di Goya appare a ingrandimento massimo. La guardo tutte le mattinee sulla scorta dell’indicazione di Giuseppe. “… il colore ad olio è mescolato con amido e con sabbia fine, un mix che fa vibrare di luce la materia…” Nell’ingrandimento ancor più mirabilmente si vede la materia tutta luminescente. Ma cosa aveva questo pittore nel suo pennello per arrivare così a fondo nella luminosità della materia? per trovare le galassie cosmiche nello scialletto della lattaia? E come lui o quasi anche Velsquez e Rembrandt e anche Tiziano.
Ne viene grande struggimento imitativo.
Eppure oggi non datur.
Perché? La domanda suona inutile.
Ricordo quando ho visto da vicino il trucco di Balthus. Non gran pittore ma determinato, avendo in mano un pennello povero, preparava fondi cretacei delle cui fessure e porosità la pittura magra traeva corpo e vibbrazione. Un trucco. Abile.
Guardo van Gogh. Pittura densa, non di luminescenze ma di umanità esposta. Ingrandito si vede, sotto la pennellata, la tela bianca e spoglia, si vede l’andamento tenero e amoroso e insieme carico di tensione conoscitiva e di spavento del suo pennello. Il quadro che ci mostri, non eclatante, è uguale alla sua pennellata, a lui medesimo. Un padre sapiente di duro e scabro lavoro che lascia il sarchiare per aprire le braccia alla sua bambina. Van Gogh portava il suo pennello sulla tela come un padre commosso porta per mano la sua bambina. Turbato, e poi stravolto dalla grazia e dal mistero: il compiacimento non sa nemmeno cosa sia.
Grande van Gogh esposto nell’affetto, grande Goya tuffato nelle galassie del microcosmo.
Oggi siamo poveri. Oggi esponiamo la nostra povertà. Povertà strutturale? Forse anche povertà in cui siamo caduti dopo il furto? Povertà da appropriazione e ingratitudine? (vedi Boltansky)
paola marzoli
24 Mar 10 at 12:25 pm edit_comment_link(__('Edit', 'sandbox'), ' ', ''); ?>