Robe da chiodi

La Pietà riscoperta di schiena

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Questo è l’articolo scritto per Alias e pubblicato domenica 24 maggio

Michelangelo aveva mancato il suo appuntamento con Milano nel 1561. Papa Pio IV avrebbe voluto che fosse infatti lui a progettare la tomba in Duomo per il fratello Gian Giacomo Medici, detto il Medeghino. Michelangelo aveva declinato l’invito, ma aveva suggerito il nome di chi poteva sostituirlo: Leone Leoni. Il monumento, nel transetto destro della cattedrale respira michelangiolismo a pieni polmoni, al punto da far pensare che Leoni avesse lavorato sulla base di uno schizzo del maestro. L’appuntamento di Michelangelo con Milano però non fu annullato, ma spostato di quattro secoli. Nel 1952 infatti la città, anche grazie a risorse arrivate da una sottoscrizione popolare, comperò l’ultima scultura di Michelangelo, messa sul mercato dagli eredi della famiglia Rondanini, da cui viene il nome della Pietà. C’erano numerosi musei stranieri disposti a comperarla, ma l’opera era notificata e quindi non poteva lasciare l’Italia. Questo contribuì a far scendere il prezzo e rese possibile al sindaco di Milano Virginio Ferrari di portare a termine l’operazione, pagando il capolavoro 135milioni.

Perché Milano si mobilitò per avere Michelangelo? La ragione è interna a una coscienza civile a cui oggi si guarda con un po’ di nostalgia: un grande centro deve saper mettere i suoi cittadini nella condizione di poter confrontarsi e conoscere i grandi protagonisti dell’arte italiana. E a Milano, che poteva contare già su Leonardo, Raffaello e Caravaggio, mancava proprio il genio di Caprese.
Arrivò dunque Michelangelo, il primo novembre 1952, dopo un viaggio abbastanza travagliato in treno, con tre trasbordi. Il capolavoro di Michelangelo venne sistemato nella cappella ducale del Castello, dopo un serrato dibattito che aveva visto come protagonista Fernanda Wittgens, la leggendaria sovrintendente di Brera la quale sosteneva, pur essendo assolutamente laica, che la Pietà dovesse finire in qualche storica chiesa milanese. Vinse invece l’ipotesi dei musei civici del Castello. Dove in quel periodo erano in corso i lavori per un nuovo allestimento, progettato dal gruppo BBPR. A loro dunque toccò di progettare la sistemazione definitiva della Pietà. Si scelse l’ipotesi di trovare spazio nella grande Sala degli Scarlioni, che era stata destinata alla scultura lombarda, e in particolare al Bambaia.

Costantino Baroni, allora direttore dei Musei, aveva chiesto ai progettisti di immaginare uno spazio che separasse Michelangelo dal resto delle opere esposte e fosse capace di «suscitare l’impressione di un raccoglimento quasi religioso attorno al grande capolavoro». L’input venne seguito con decisioni anche molto ardite, come quella di abbassare il piano del pavimento di quasi due metri, con connessa distruzione delle sottostanti volte quattrocentesche. Una grande nicchia in pietra serena isolava il capolavoro di Michelangelo dal contesto, una contronicchia rivestita in legno di ulivo, stimolava quel clima di raccoglimento richiesto da Baroni. L’allestimento ha subito fatto epoca suscitando entusiasmi, ma anche qualche perplessità, come quelle di Franco Russoli, direttore di Brera («quinte elaborate e frammentarie») e qualche attacco feroce, come quello della battagliera Wittgens. Qualche anno fa, una laureanda dell’Università Statale, Maria Cecilia Cavallone, per il lavoro di testi trascrisse e pubblicò una lettera della Wittgens a Clara Valenti, datata 16 aprile 1956. Il testo è di una virulenza memorabile: «Da giovedì, giorno dell’inaugurazione con Gronchi, a sabato, inaugurazione per l’élite culturale milanese, imperversa nel mondo sensibile di Milano la reazione ai Musei del Castello, sistemati come “fiera”, e particolarmente alla indegna esposizione della “Pietà” entro un’edicola che ricorda… un vespasiano!».

Il giudizio della Wittgens restò però minoritario e con il passare degli anni l’allestimento dei BBPR consolidò consensi e prestigio, sino a rivestirsi di un’aura di intoccabilità. Tra i pochi a contestare l’allestimento ci fu Henry Moore, che attaccò duramente l’arca romana usata come basamento e le geometrie dei blocchi di pietra serena che secondo lui disturbavano la vista della Pietà.
Con il tempo, poco alla volta, piccoli interventi dettati da diverse ragioni hanno modificato in maniera profonda il gioco di equilibri organizzato dai progettisti. Ringhiere di sicurezza sugli scalini e un affollamento di nuove sculture arrivate a ricomporre la Tomba di Gaston de Foix, capolavoro del Bambaia. Le foto mostrano un microcosmo profondamente cambiato, al punto che nel 1999 il Comune di Milano bandì un concorso internazionale per una risistemazione della Sala degli Scarlioni. Vinse Alvaro Siza, ma il progetto che prevedeva il ripristino della quota del pavimento originale rimase lettera morta, anche per i veti che subito si alzarono dal mondo accademico. I problemi però restavano. La Pietà era di fatto inaccessibile ai disabili e pagava anche un isolamento che la marginalizzava in ogni senso: paradossale destino per un’opera che era stata acquisita con sottoscrizione popolare.

Ci è voluto un assessore alla Cultura che fosse architetto e docente al Politecnico per sbloccare la situazione. A settembre 2012 Stefano Boeri aprì infatti con determinazione il “fascicolo” di una nuova sistemazione della Pietà. Fortuna volle che immediatamente venne individuata una collocazione ideale in un ambiente affacciato sul grande Cortile delle Armi e che avrebbe dovuto essere destinato a piccolo auditorium. Incaricato del progetto era Michele De Lucchi. Quando si palesò il cambio di destinazione De Lucchi ammette di aver pensato di rinunciare. «Ho detto no tre volte, a muso duro», racconta. «Addirittura mi sono scoperto di una scortesia che non conoscevo in me. Mi dispiaceva intaccare la sala degli Scarlioni e non mi piaceva l’aspetto un po’ impersonale della sala che era stata scelta, un’insignificante costruzione perimetrale lunga e bassa». Che cosa ha convinto De Lucchi alla fine ad accettare? Il fatto di una evidente inadeguatezza dell’allestimento BBPR, innanzitutto. «I visitatori erano costretti ad un percorso molto vincolato e non era possibile vedere l’opera nella sua completezza. Senza girare intorno alla Pietà non si percepisce il dramma anche personale che Michelangelo ha così mirabilmente rappresentato».

Da qui la scelta coraggiosa e innovativa del nuovo allestimento in quello che era l’Ospedale dei soldati della guarnigione spagnola di stanza al Castello (una struttura per altro coeva alla Pietà Rondanini). I visitatori, dopo essere entrati in un piccolo ambiente di decantazione, passano nella grande sala e si trovano la Pietà di spalle. «La schiena della Madonna è quanto di più espressivo e commovente. Michelangelo ha scolpito questa figura con una curva tracciata nel marmo che appartiene a tutte le epoche dell’arte», dice De Lucchi. «Per questo la sorpresa più grande ora è vedere l’opera esposta di schiena e dover girare attorno alla statua per ammirarla in tutta la sua meraviglia».

Tutto il percorso di riallestimento, guidato dal direttore dei Musei Claudio Salsi e da Giovanna Mori, è avvenuto all’insegna di quella coscienza civile che 63 anni fa aveva permesso che l’ultimo capolavoro di Michelangelo diventasse patrimonio della città. Le scelte sono state tutte all’insegna di una sobrietà e di un rigore per mettere al centro in ogni modo non solo la visibilità ma anche il valore culturale e umano di un’opera come la Pietà. Il pavimento in rovere chiaro scelto da De Lucchi riprende quello che secondo i documenti era il pavimento dell’ospedale. Gli affreschi recuperati sulle volte, con i cartigli che compongono il Credo, restituiscono anche una dimensione religiosa al luogo: sopra la Pietà, tra l’altro, c’è il versetto che riguarda l’Ascensione, quasi a richiamare quel movimento “ascensionale” che l’idea compositiva di Michelangelo misteriosamente contiene.

Anche la parte didattica, affidata a Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa, è stata realizzata con grande cura, senza che interferisca visivamente sugli equilibri dello spazio. Una guida (Officina Libraria, 8 euro) restituisce al visitatore non solo la storia della Pietà e la sua fortuna, ma anche le ragioni di questo nuovo allestimento. La coda ininterrotta di visitatori all’ingresso è poi il miglior test che rende ragione della scelta fatta: 30mila ingressi nei primi dieci giorni, con una ricaduta positiva anche sui numeri di tutti i musei del Castello.
Nella sala oltre alla Pietà sono esposti il ritratto in bronzo di Michelangelo di Daniele da Volterra e la medaglia che Leone Leoni coniò e inviò a Michelangelo per ringraziarlo della commessa ricevuta per la tomba del Medeghino in Duomo. Una sorta di sigillo ad un’operazione di grande valore civile e culturale.

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Maggio 27th, 2015 at 7:37 am

Un giorno con Garutti, un altro con Pinelli…

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Sempre affascinante incontrare gli artisti in carne ed ossa. Nell’arco di pochi giorni mi è capitato di stare a tu per tu con Alberto Garutti e con Pino Pinelli. Due artisti attivi su Milano, divisi da 10 anni (Garutti è del 1948, Pinelli del 1938, siciliano di Catania).
Non ci sono molti elementi che li uniscono, ma quando li senti parlare capisci che vengono da una stessa “patria”, che si muovono tutt’e due dentro uno spazio che permette una libertà di approccio alle cose, alla realtà, in un modo che noi “umani” possiamo solo sperare non si esaurisca mai.
Mi spiego: l’artista intercetta sempre un fattore impercettibile e inimmaginato, che una volta conosciuto diventa fattore imprescindibile. Acchiappa qualcosa che è nell’aria, nelle cose ma che ad altezza d’occhio nessuno vede. Sono processi semplici, che non hanno nulla di prometeico, perché sono questione di sensibilità. Quella dell’artista è sostanzialmente una sensibilità più acuta, più prossima al cuore delle cose e della vita. Una sensibilità che si muove libera, che non segue linguaggi o codici prestabiliti, che non guarda al conto finale. A Matisse interessava solo documentare l’impatto delle cose sulla propria sensibilità, Yves Klein vendeva sensibilità ai suoi collezionisti, in sostanza qualcosa che era solo nell’aria… Ha scritto Bonami, a proposito di Garutti, che l’artista non è chiamato a fare monumenti, ma a creare momenti.
Pino Pinelli, parlando del colore muove le mani come se si trattasse di acchiapparlo nell’aria. Mi dice che il colore esiste e va preso, ed è la sintesi della propria sensibilità rispetto al mondo. Che non esiste calcolo per fare quello giusto, ma bisogna fiutarlo, “sentirlo”, poi metterlo nell’opera. Reimmagina il momento magico in cui Fontana acchiappò il suo rosa. Dice che per un artista non c’è mai nulla di acquisito e che pur vedendo le cose, pur sapendo in che direzione andare, quando si mette davanti ad un’opera è come dover cavalcare una tigre. Perché il sentimento mai prima esplorato, per essere espresso deve restare puro, intatto. Non ammette riduzioni. (qui una sua berve testimnonianza video)
Per Garutti il senso della lotta è molto simile. Quando ricevette la committenza per la statua della Madonna, ora in una chiesa di Faenza, alla proposta via telefono disse di no. Che cosa si può fare d’altro su quel soggetto che non sia già stato fatto? Tempo neanche 30 secondi e Garutti aveva ripreso il telefono dicendo che ci stava. Questo il suo ragionamento: se sei un artista non devi tirarti indietro. Devi aggiungere qualcosa al già fatto e già saputo. Perché il non fatto e il non saputo è un universo vasto e in continuo aggiornamento. Così è nata la Madonna in versione devozione tradizionale ma a 36 gradi, come quelli corporei. Se la tocchi con la mano, come da tradizione, senti qualcosa che ti dice che è cosa viva.
Non è il gesto formale quello che qualifica l’artista, ma quel processo impercettibile messo in atto dalla sensibilità e che porta a intercettare un’immagine, un’idea, un colore…
Poi c’è un altro fattor comune, ed è la devozione verso un maestro. Per Pinelli è Fontana. Quando ne parla, gli si illumina lo sguardo. Lo vede come l’artista libero, capace di immettere grazia in ogni idea, anche in quelle che stilisticamente sembravano in conflitto tra di loro. Per Garutti è Matisse, da cui va quasi in pellegrinaggio quando deve risolvere l’idea per il candeliere elettrico della Chiesa di Buonconvento. Da lui intuisce che la forma dei fili doveva essere quella dell’albero della vita e che le lampadine dovevano stare a nudo con incavi che disegnavano il motivo, come nella lampada di Vence.
Gli artisti sono un grande regalo di Dio agli uomini…

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Maggio 24th, 2015 at 9:09 pm

Settis e Prada, l’antichità si fa pop

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La mostra Serial Classic di Salvatore Settis alla Fondazione Prada è una mostra che cambia il modo di fare mostre sull’arte antica. L’idea è semplice: indagare sulla produzione di copie “seriale” da una parte per reimmaginare gli originali perduti, dall’altra per capire meglio i meccanismi della committenza e della ricezione delle opere d’arte nell’antichità. La mostra ha un approccio spettacolare, filologico e didattico. La filiera “originale – copie – “ricostruzione” dell’originale” viene proposta con molta chiarezza, accuratezza filologica e spettacolarità espositiva. C’è una sana desacralizzazione estetica delle opere, che permette di approcciarle nel loro status di manufatti materiali, permettendo così di immaginarle avendo più dati a disposizione. La mostra si avventura anche in percorsi spregiudicati, come una fusione in bronzo dell’Apollo di Kassel, o nel completamento e coloritura di una copia fatta oggi del Bronzo A di Riace. Il risultato è ovviamente smaccatamente pop, ma avvicina psicologicamente ad una produzione che per la sua straordinaria abbondanza, aveva aspetti da “catena di montaggio” delle statue in bronzo. Nella sola Olimpia pare ci fossero tra le 1000 e le 3000 statue da fusione. A Rodi c’erano 100 colossi. Quando Demetrio Falereo governò Atene tra 317 e 308 aC gli furono innalzate 360 statue, sempre in bronzo, per la maggio parte equestri. È un fenomeno di dimensioni impressionanti, che il Medioevo si divorò per il bisogno di metalli. Oggi i bronzi conservati di età greca non sono che un centinaio.
Che marmi e bronzi fossero poi molto diversi dai monocromi di oggi lo sapevamo. Tentare di farli vedere così com’erano serve a inclinare il nostro immaginario verso una visione meno improbabile della classicità. Il Bronzo A di Riace, presente con una copia appositamente realizzata sulla base di una stampa in 3D, grazie ad un trattamento delle superfici «eseguito con criteri scientificamente e filologicamente corretti», ci appare dotato di elmo, lancia e scudo, e con la carnagione resa bruna dagli unguenti, la barba vistosamente nere, e le labbra rimarcate da un passaggio di rosso.
Al secondo piano poi spicca la presenza della Penelope, originale greco proveniente da Teheran, di cui esistono tantissime repliche. Ma anche l’originale scopriamo dalla lettuare delle schede era “sdoppiato”. La statua era un dono di Atene al re di Persia per celebrare la fine delle guerre contro i Persiani. Una versione restò in Grecia, l’altra andò a Persepoli, dove si è conservata perché nel 331 aC finì sotto le rovine del palazzo reale distrutto da Alessandro Magno. La storia, a volte, ha molta ironia…

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Maggio 9th, 2015 at 7:30 am

Matisse, l’arabesco che cambia la pittura

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Matisse, Coin d'atelier, 1912

Matisse, Coin d’atelier, 1912

Ieri visita guidata con gli amici di RomaFelix a mostra di Matisse alle Scuderie del Quirinale.
Il filo conduttore, oltre che ovviamente il titolo della mostra, è l’arabesco.
Arabesco è un motivo dalle implicazioni pacificamente radicali nella pittura di Matisse.
Provo a metterle in fila. La prima implicazione consiste nel fatto che il quadro diventa un’operazione di orchestrazione più che di costruzione. Non c’è una composizione da pensare nei suoi pesi e nelle sue gerarchie. Ma visioni di realtà dentro le quali scovare il motivo che mette in relazione tutti i particolari. Il quadro restituisce un’altra visione in cui ogni oggetto si lega all’altro, perché tutti sono figli del sentiment che hanno suscitato in Matisse.
Arabesco è poi la soluzione che porta la pittura fuori dalla finzione della terza dimensione. Arabesco è bellezza a due dimensioni, è bellezza che svela la sua quintessenza nello schiacciamento della piattezza.
Arabesco è anche l’idea che il quadro non sia un percorso lineare che porti da un punto a un altro, che sia un percorso chiuso. Il quadro è un percorso sempre aperto, convenzionalmente chiuso nel perimetro della tela, ma che idealmente sconfina, sfugge da ogni pretesa di definirne un confine. L’arabesco per Matisse diventa infatti una metrica grazie alla quale si possono organizzare le sensazioni e grazie alla quale il quadro può prolungare la sua vita nelle sensazioni libere, accese in chi lo osserva. «Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista, la potenza che questo ha d’organizzare sensazioni ed emozioni».
Arabesco è anche un implicito rimando ad un infinito. È motivo che virtualmente si allunga nella sua ritmicità oltre ogni misura. Non ha bisogno di essere “comandato” dalla mano esperta di un artista, perché per natura cresce obbedendo in modo mai coercitivo alla forma che gli è stata data.Come Matisse aveva scritto, tutto questo apre la superficie del quadro a «uno spazio di dimensioni che la stessa esistenza degli oggetti rappresentati non riesce a limitare».
L’arabesco è poi la matrice da cui si genera l’esperienza dei papiers decoupés. La ritmicità dell’arabesco detta i movimenti alla prodigiosa forbice di Matisse, che taglia la carta colorata a tempera dalle sue assistenti. Linea e colore si trovano così legati nel l’unità inscindibile di quel gesto. In questo modo Matisse paradossalmente regala all’arabesco una fisicità, una corporeità, che non aveva mia sperimentato senza rinnegarne la natura. Ma questo è l’arabesco al suo massimo compimento.

Ps: l’allestimento della mostra curata da Ester Cohen, in particolare al primo piano riesce a tenere un andamento che richiama la fluidità dell’arabesco. A dimostrazione di come ci si trovi davanti ad una mostra profondamente pensata in cui ogni quadro ha senso che ci sia. Non perdetela.

Matisse, Le paravent mauresque, 1921

Matisse, Le paravent mauresque, 1921

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Aprile 19th, 2015 at 4:53 am

Bacon e Tracey Emin, il dittico del Letto

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Ho trovato geniale l’idea di esporre il Letto di Tracey Emin (1998) alla Tate Britain nella sala dove c’è la Reclining woman, 1961, di Francis Bacon. È come proporre un’ipotesi di continuità tra l’uno e l’altra. È un terreno per una verifica. La donna molto androgina di Bacon (si vedono ancora le tracce dei testicoli poi coperti con la pittura: correzione in corsa?) è più che distesa, rovesciata su un letto con il corpo che sembra rovinare a valanga verso di noi. Bacon forza in maniera violenta il modello della donna distesa che è uno dei temi topici della pittura da Tiziano a noi. Tutta l’attrazione erotica generata da questo soggetto qui sembra però implodere o andare a massa. Bacon capovolge fisicamente il senso del soggetto, usando Michelangelo e i suoi corpi frananti dalla parete del Giudizio. Quella di Bacon è la scena di un qualcosa che non è atto che sempre chiama e si rinnova, l’amore, ma un atto che ha in sé una definitività. È una forzatura violenta, tanto che il corpo ha qualcosa di repulsivo. Un corpo da cui tenersi alla larga. Eppure quale senso di grandezza genera questa energia negativa. Quanta verità c’è in questo corpo sconfitto. Ma il vero mistero della pittura di Bacon è ancora altro: è ilmistero di come questa dimensione di disfatta in realtà riesca a tenere dentro un qualcosa di imprevedibilmente glorioso. Quasi che la gloria di un corpo contemplasse l’accettazione della sua disfatta.
E Tracey? Il suo letto è stato abitato dal suo corpo, per quattro giorni dominati da un istinto mortifero. Lei stessa lo ha raccontato. Poi quando se ne è sottratta, ha visto da fuori in quelle forme che fotografano il potenziale disfacimento della vita un’immagine forte, una forma scolpita dalla vita stessa. Certo il suo letto senza il racconto e senza questo ribollimento mediatico (che è ormai fattore genetico dei processi artistici, non va liquidato come furbizia), potrebbe essere cosa che non parla, che non dice. Ma l’operazione di straniamento realizzata portandolo nella sala linda di un museo è operazione indubbiamente potente. Impossibile passarci davanti senza un sussulto, che certo non possiamo liquidare, un po’ moralisticamente, come scandalo. Ma semmai è paura, è angoscia, quasi si fosse di fronte alla scena di un misfatto di cui non si capiscono i contorni. Come in Bacon scatta un altro meccanismo, che non può non inquietare. È l’arte che si mette a nudo, che toglie ogni velo, che scopre anche l’intimità proibita. Cade ogni barriera tra privato e pubblico. In Bacon è il corpo amato, squadernato senza pudore davanti al nostro sguardo. In Tracey Emin è l’orma del proprio corpo, l’impronta delle proprie derive mentali e fisiche, che diventa oggetto di voyeurismo o di meditazione. Sembra di trovarsi davanti ad un dittico, composto come a volte i polittici antichi di una parte dipinta e di una parte plasticata.
Quell< che viene a mancare nel passaggio da Bacon a Tracey, è proprio la rappresentazione del corpo. Come se con Bacon si fosse arrivato ad un oltranzismo oltre il quale la pittura non potesse più andare. E quindi per continuare bisognasse trovare altre strade, congegnare altri dispositivi in grado di reggere il confronto, di esprimere una simile tensione drammatica. Magari chiedendo in prestito qualcosa che è di pertinenza del teatro. È quello che Tracey Emin ha fatto, come pure aveva fatto Damien Hirst, nei suoi inizi. Semmai la grande domanda che resta aperta è quella che tocca la salvezza. L’arte è ultimamente domanda di salvezza. Bacon certamente esprime questa domanda dandole forme a volte brutali, quasi insostenibili. Dà forma a questa domanda, e dandole forma compie un’operazione assolutamente artistica. Tracey Emin invece? Quel che è certo è che il suo letto in Bacon trova una sponda provvidenziale, che gli conferisce potenza. In un certo senso lo compie.

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Aprile 6th, 2015 at 10:46 am

Fausto Melotti, uno che sapeva pensare

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Un libretto da 7,90 euro che vi consiglio è questo appena uscito con testi di Fausto Melotti, curati da Giuliano Gori (L’immortalità dell’arte, Sorbonne Edizioni Clichy). Gori è il collezionista che nel Pistoiese, a Celle, ha costituito uno stupendo parco di sculture in cui Melotti la fa ovviamente da re. Nell’introduzione ha modo di raccontare la sua lunga amicizia con lo scultore, condendola di aneddoti e di curiosità. Ma il lavoro migliore Gori lo fa curando un’antologia rapsodica di illuminazioni melottiane, che ne restituiscono tutta l’elegantissima ma anche spietata intelligenza. Gli ambiti sono quelli della propria persona (riflessioni divertite e impietose sulla decadenza fisica) e quello dell’arte. Sulla persona folgorante una pagina in cui confessa la sua condizione di scultore senza phisique du rôleE ho l’occhio bovino e bovina è la grande giogaia. Il piede inquieto, il passo nervoso. E invece mi trascino ciabattone senza una meta…. La sordità (io sono sordo) è una cara compagna, fingi di ascoltare e pensi ai casi tuoi…). Ma poi recupera orgoglio, delineando la sua psicologia di artista: «Se un artista è veramente tale, si sente molto più vecchio dei vecchi e più giovane dei giovani. Egli aspetta fino all’ultimo la propria maturità dalle opere che dovrà compiere e per questo deve avere, o illudersi di avere, il passo più spedito della giovinezza stessa».
Poi ci sono i pensieri sull’arte. Ve ne regalo due, stupendi. «L’artista inizia la sua opera appoggiandosi ai dettami del suo credo estetico. Poi fattori sconosciuti e di contrabbando si sovrappongono e alla fine si trova padre felice di una creatura nata da un organismo imprevedibile». E poi: «Il raptus drammatico della creazione artistica è simile allo stato d’animo del ragazzo che, trovandosi a camminare nella notte in una strada deserta, per farsi coraggio canta e, non ricordando più nulla, «inventa» una canzone»

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Marzo 24th, 2015 at 10:02 pm

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Dialogare su Caravaggio alla scuola alberghiera

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Emmaus

Appunti da un incontro con un gruppo di professori e studenti dell’Alberghiero di Cernobbio. A tema, l’ospitalità nell’arte. Tema a rischio di accademia a buon mercato. Per evitare di finire nelle banalità sono partito dall’invito ad un’osservazione assolutamente banale: una sfilata di una quindicina di tavoli in rappresentazione dell’Ultima Cena, porta alla non scontata notazione che la geometria prevede la disposizione frontale, che quindi evita la disposizione chiusa, propria di un tavolo al completo. Partendo dal tavolo elegantissimo a mezza luna dell’Ultima Cena di Sant’Angelo in Formis, procede sempre con lo schema del fronte aperto che quindi permette, tra le altre cose, la condivisione di ciò che è sulla tavola. Il senso di ospitalità è dato quindi da questo fronte aperto.
Ma il momento più persuasivo è arrivato sulla Cena di Emmaus di Caravaggio, in particolare quella di Londra. Qui se guardiamo il quadro notiamo alcune dispositivi compositivi. Primo, apertura del fronte del tavolo in direzione nostra; secondo, eliminazione di un qualsiasi spazio di tolleranza tra i protagonisti e il nostro: le figure arrivano sino al bordo della tela; terzo, l’uso della natura morte sul tavolo come ulteriore elemento di collegamento tra lo spazio virtuale della tela e il nostro: il cesto di frutta che si sporge oltre il bordo del tavolo entra nel nostro di spazio. La composizione insomma tutta spinta verso di noi per evitare ogni minima senza sensazione di separazione. Poi c’è ovviamente da notare la disposizione del cibo sul tavolo, che è un esercizio di gusto nella semplicità. Ma sopratutto è l’evidenziazione che tutto è buono, che non c’è particolare della vita che non merito un primo piano.
Tutto questo per dire che la pittura italiana è sempre un invito a cena, quindi costituzionalmente ospitale. L’Emmaus di Caravaggio è emblema di questa generosità costitutiva dell’arte italiana, che aveva avuto una sua trionfale affermazione nelle cene di Veronese.
Il confronto con l’Emmaus di Rembrandt rende l’idea: la scena in questo caso è spinta in fondo, in uno spazio altro, come evidenzia la tenda che pur essendo aperta, sancisce una cesura. Ovviamente nulla si scorge di quello che c’è sul tavolo.

Post scriptum: questo esercizio dimostra quanto sia importante abituarsi a guardare. Guardare i meccanismi che fanno essere un quadro, non darli per scontati, per tenerli in testa e appropriarsene. La pittura italiana non è mai un mondo a parte. Quello dentro i grandi quadri è un mondo sempre utile alla vita. Costruisce lo sguardo, il gusto, il tatto, la propensione a condividere. Metabolizzare la cena di Emmaus di Caravaggio sviluppa una serie di competenze che toccano un’infinità di ambiti della vita.

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Marzo 14th, 2015 at 10:27 pm

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Dedicato a mio padre

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Giovanni Serodine, Ritratto del padre

Giovanni Serodine, Ritratto del padre

Parto da questo quadro, un capolavoro di Giovanni Serodine che dipinge un ritratto del padre. È un quadro intimo, privato. Il contesto e l’impaginazione non hanno volutamente nulla di speciale. È un’immagine in cui il figlio cerca di indagare, di capire, di scoprire. Non c’è spazio per nessuna enfasi, semmai si respira un senso di affetto vero. È un quadro che scruta con discrezione un doppio interno: l’ambiente e il lato interiore del padre. Il padre è colto in una situazione abbastanza banale, che non teme di lasciar venire a galla anche una dimensione dimessa, pacificamente accettata. È un padre senza imperativi. Più propenso ad ascoltare che a dare ordini. Pensavo questo pensando a mio padre, Carlo, che ieri, 7 marzo 2015, se n’è andato. Non ricordo momenti in cui ho sentito la sua presenza come qualcosa di forte, di deciso, di ingombrante rispetto alla mia vita. Come il padre di Serodine è un tipo di padre che alza lo sguardo senza pensare di legare la libertà del figlio. Ma alza lo sguardo. È un padre che non va oltre a dei semplici accenni. A porre domande leggere. Non è un padre forte. Non è padre d’ordine. In un certo senso è poco padre, secondo quell’accezione un po’ granitica che per schematismo si assegna a quella parola.
Ma guardando il quadro di Serodine capisco che quell’essere meno potentemente padre, lo fa essere più profondamente padre. Mi chiedevo come poteva essere possibile una cosa che sembra essere contraddittoria. E allora ho aperto una pagina di quel genio nella comprensione dell’umano che è stato don Giussani, e ho capito, che il padre non è determinato dal suo carattere ma dalla fedeltà alla sua funzione: «essere il segno immediato del Mistero che ci ha fatti, il segno immediato di Dio, qualunque uomo sia stato – degno o non degno questo non c’entra, è l’essere segno che c’entra». È questo che fa sì che tuo padre sia piantato dentro di te. Per Serodine è andata così, perché così, e solo così si riesce a spiegare la verità e la profondità di quel quadro. Ma oggi scopro che così è stato anche per me.

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Marzo 8th, 2015 at 8:45 am

Medardo Rosso, il senso di quegli ultimi 20 anni

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Medardo Rosso, Femme à la voilette and Bambina ridente, nella casa di  Etha Fles, c. 1901

Medardo Rosso, Femme à la voilette and Bambina ridente nella casa di Etha Fles, forografia, c. 1901

Vista la mostra di Medardo Rosso alla Galleria d’arte moderna di Milano. È una mostra piccola per un autore su cui Milano avrebbe potuto dire qualcosa di nuovo e di più. Invece è una mostra troppo normale, oltretutto assai meno completa di quella fatta al Mart nel 2004, a causa anche degli spazi espositivi esigui. Ma a parte questo, poteva essere l’occasione per un approccio nuovo a Medardo: capire il senso di quegli ultimi vent’anni in cui smette di essere scultore e che sono sempre stati liquidati con la battuta di Carrà: «l’empito del creare si era in lui spento in seguito a una terribile caduta dal tram». Soluzione semplicistica per un ventennio in cui Rosso non era affatto stato come le mani in mano. Aveva invece elaborato precise strategie che riguardavano la sua opera passata, il modo di presentarla, di “vederla”, persino di concepirla. È un lavoro alla radice del suo lavoro storico quello che Rosso fa negli ultimi anni della sua vita. Lavora sulla percezione della scultura, sulle associazioni di immagini, su elaborazioni che hanno tutta l’aria di essere di carattere concettuale del proprio lavoro.
Il tema è quello che riguarda la fotografia a cui Rosso rivolge un’attenzione sistematica e sperimentale dopo aver visto all’opera Edgard Degas. Sono centinaia di stampe e negativi, nessuno mai di routine, ma tutti tentativi di affrontare lo sguardo sulla scultura, di caprine le implicazioni, le relazioni, le associazioni.
Le fotografie in effetti sono ben rappresentate in mostra, ma sarebbe stato interessante mostrarle in relazione alle opere, perché il percorso fatto con le foto non è un appendice, forse è esito, l’esito a cui Rosso davvero mirava.
Per dirla tutta, il Rosso scultore, per bello e sperimentale che sia, è uno scultore ancora dentro un orizzonte di naturalismo, e per quanto sia ammaliatrice e anticipatrice la sua Madame X è ancora lontana dalla radicale semplificazione della Musa dormiente di Brancusi. Rosso vive la difficoltà che la scultura vive in questo passaggio di storia. Ci prova Degas a forzare, ma anche a lui la scommessa riesce in modo ben più decisivo con i pastelli. La scultura il suo scatto lo farà più avanti con Boccioni, con Brancusi appunto.
Rosso forse ha chiara questa percezione e per questo negli ultimi anni della sua vita lavora per trovare il punto di forzatura, di uscita da quell’impasse che teneva la scultura ostaggio di una visione non abbastanza moderna. Il bel libro di Paola Mola uscito nel 2006 “Rosso, trasferimenti” documenta con grande dettagli le operazioni che lo scultore fa attraverso le fotografie sulle sue sculture. Scrive: «Rosso abbandona la natura e l’invasivo apparire delle cose, e rivolge all’immagine e alla sua materia fisica ogni sua attenzione sperimentale». Resta, scrive Paola Mola, come esito del percorso di Rosso, «il pensiero di un’immagine».

Madame X, 1898

Madame X, 1898

Madame X fotografata da Rosso nel 1911

Madame X fotografata da Rosso nel 1911

Written by gfrangi

Marzo 1st, 2015 at 11:49 pm

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Come conquistare i ragazzi all’arte del 900

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25 BluGiotto

Settimana di belle avventure. Mercoledì scorso sono stato a Ravenna. Mi ha chiamato un bravo e appassionato professore di Storia dell’arte, Leonardo Babini, che ha radunato tutti gli studenti delle quinte dei classici e scientifici della città. Sono circa 350 studenti che occupano tutti i posti dell’auditorium della Cassa di Risparmio di Ravenna. A me tocca convincerli che il 900, per quanto riguarda la storia dell’arte, è stato il secolo più affascinante che ci sia. L’auditorium ha una grande bellissimo schermo. È quello il mio testo. Scelgo di non avere appunti e di seguire solo il binario delle immagini che ho preparato. Non voglio che sia lezione né conferenza, perciò parlo stando in piedi vicino alla prima fila. Sullo schermo, in partenza, ho il ritratto di Eugene Boch di Van Gogh, 1888. Mi serve per conquistare gli occhi e per fare capire due cose basilari: che la pittura a quel punto era diventata una partita a due dimensioni, la partita ce la si giocava senza più la scappatoia di spazio illusori aperti sul fondo della tela. La seconda cosa è che questa specie di saracinesca calata a chiudere ogni punto di fuga, da limitazione si era trasformata in una leva di energia: il fondo stellato e piatto di Van Gogh era un di più, non un di meno. Era espansione del personaggio, sua proiezione, completamento del suo profilo umano e psicologico. La cosa viene capita benissimo, lo intuisco subito guardando il volto dei ragazzi. Boch era un poeta che per Van Gogh simboleggiava una mente familiare all’infinito. Questo il quadro lo dice, e a tutti è un’evidenza.
Non posso raccontare tutto. Ma posso dire che il percorso ha aperto una breccia nella testa dei ragazzi. Che hanno seguito senza stanchezza e con tanta curiosità. Quando ho dovuto introdurre il tema dei monocromi li ho visti conquistati dal salto mortale da Giotto, che fa arrotolare l’azzurro del cielo agli angeli del suo Giudizio Universale di Padova, a Yves Klein, che fa dell’azzurro tema unico del suo quadro, infinito che si fa oggetto. Materia che diventa visione senza fondo. Quando ho fatto entrare in scena Gagarin e il suo “la terra è blu, che meraviglia, è incredibile” (1961), ho poi mostrato come Klein avesse visto prima con il suo Mappamondo blu del 1958. La sensibilità porta gli artisti in alto e lontano…
Per finire. L’ultimo percorso, dedicato al tema della luce, si concludeva con i cinque minuti di un video dell’installazione di Garutti al Maxxi. Riflettori potenti che si accendono in una sala del museo ogni volta che un fulmine cade su un qualsiasi pezzo del territorio se italiano. La connessione non è partita, così l’ho raccontato a parole, citando la didascalia che dà la chiave all’opera: “dedicata agli uomini che guardano in alto”. Poi ho dato il link perché chi volesse se lo guardasse a casa. Risultato, come mi ha scritto Babini, in tanti vogliono farne tesina dell’esame di maturità.
Alle 12,45, dopo un’ora e mezza abbiamo finito. Tutti contenti, io per primo.

30 Klein

Written by gfrangi

Febbraio 16th, 2015 at 11:47 pm