Ho trovato geniale l’idea di esporre il Letto di Tracey Emin (1998) alla Tate Britain nella sala dove c’è la Reclining woman, 1961, di Francis Bacon. È come proporre un’ipotesi di continuità tra l’uno e l’altra. È un terreno per una verifica. La donna molto androgina di Bacon (si vedono ancora le tracce dei testicoli poi coperti con la pittura: correzione in corsa?) è più che distesa, rovesciata su un letto con il corpo che sembra rovinare a valanga verso di noi. Bacon forza in maniera violenta il modello della donna distesa che è uno dei temi topici della pittura da Tiziano a noi. Tutta l’attrazione erotica generata da questo soggetto qui sembra però implodere o andare a massa. Bacon capovolge fisicamente il senso del soggetto, usando Michelangelo e i suoi corpi frananti dalla parete del Giudizio. Quella di Bacon è la scena di un qualcosa che non è atto che sempre chiama e si rinnova, l’amore, ma un atto che ha in sé una definitività. È una forzatura violenta, tanto che il corpo ha qualcosa di repulsivo. Un corpo da cui tenersi alla larga. Eppure quale senso di grandezza genera questa energia negativa. Quanta verità c’è in questo corpo sconfitto. Ma il vero mistero della pittura di Bacon è ancora altro: è ilmistero di come questa dimensione di disfatta in realtà riesca a tenere dentro un qualcosa di imprevedibilmente glorioso. Quasi che la gloria di un corpo contemplasse l’accettazione della sua disfatta.
E Tracey? Il suo letto è stato abitato dal suo corpo, per quattro giorni dominati da un istinto mortifero. Lei stessa lo ha raccontato. Poi quando se ne è sottratta, ha visto da fuori in quelle forme che fotografano il potenziale disfacimento della vita un’immagine forte, una forma scolpita dalla vita stessa. Certo il suo letto senza il racconto e senza questo ribollimento mediatico (che è ormai fattore genetico dei processi artistici, non va liquidato come furbizia), potrebbe essere cosa che non parla, che non dice. Ma l’operazione di straniamento realizzata portandolo nella sala linda di un museo è operazione indubbiamente potente. Impossibile passarci davanti senza un sussulto, che certo non possiamo liquidare, un po’ moralisticamente, come scandalo. Ma semmai è paura, è angoscia, quasi si fosse di fronte alla scena di un misfatto di cui non si capiscono i contorni. Come in Bacon scatta un altro meccanismo, che non può non inquietare. È l’arte che si mette a nudo, che toglie ogni velo, che scopre anche l’intimità proibita. Cade ogni barriera tra privato e pubblico. In Bacon è il corpo amato, squadernato senza pudore davanti al nostro sguardo. In Tracey Emin è l’orma del proprio corpo, l’impronta delle proprie derive mentali e fisiche, che diventa oggetto di voyeurismo o di meditazione. Sembra di trovarsi davanti ad un dittico, composto come a volte i polittici antichi di una parte dipinta e di una parte plasticata.
Quell< che viene a mancare nel passaggio da Bacon a Tracey, è proprio la rappresentazione del corpo. Come se con Bacon si fosse arrivato ad un oltranzismo oltre il quale la pittura non potesse più andare. E quindi per continuare bisognasse trovare altre strade, congegnare altri dispositivi in grado di reggere il confronto, di esprimere una simile tensione drammatica. Magari chiedendo in prestito qualcosa che è di pertinenza del teatro. È quello che Tracey Emin ha fatto, come pure aveva fatto Damien Hirst, nei suoi inizi. Semmai la grande domanda che resta aperta è quella che tocca la salvezza. L’arte è ultimamente domanda di salvezza. Bacon certamente esprime questa domanda dandole forme a volte brutali, quasi insostenibili. Dà forma a questa domanda, e dandole forma compie un’operazione assolutamente artistica. Tracey Emin invece? Quel che è certo è che il suo letto in Bacon trova una sponda provvidenziale, che gli conferisce potenza. In un certo senso lo compie.