La mostra Serial Classic di Salvatore Settis alla Fondazione Prada è una mostra che cambia il modo di fare mostre sull’arte antica. L’idea è semplice: indagare sulla produzione di copie “seriale” da una parte per reimmaginare gli originali perduti, dall’altra per capire meglio i meccanismi della committenza e della ricezione delle opere d’arte nell’antichità. La mostra ha un approccio spettacolare, filologico e didattico. La filiera “originale – copie – “ricostruzione” dell’originale” viene proposta con molta chiarezza, accuratezza filologica e spettacolarità espositiva. C’è una sana desacralizzazione estetica delle opere, che permette di approcciarle nel loro status di manufatti materiali, permettendo così di immaginarle avendo più dati a disposizione. La mostra si avventura anche in percorsi spregiudicati, come una fusione in bronzo dell’Apollo di Kassel, o nel completamento e coloritura di una copia fatta oggi del Bronzo A di Riace. Il risultato è ovviamente smaccatamente pop, ma avvicina psicologicamente ad una produzione che per la sua straordinaria abbondanza, aveva aspetti da “catena di montaggio” delle statue in bronzo. Nella sola Olimpia pare ci fossero tra le 1000 e le 3000 statue da fusione. A Rodi c’erano 100 colossi. Quando Demetrio Falereo governò Atene tra 317 e 308 aC gli furono innalzate 360 statue, sempre in bronzo, per la maggio parte equestri. È un fenomeno di dimensioni impressionanti, che il Medioevo si divorò per il bisogno di metalli. Oggi i bronzi conservati di età greca non sono che un centinaio.
Che marmi e bronzi fossero poi molto diversi dai monocromi di oggi lo sapevamo. Tentare di farli vedere così com’erano serve a inclinare il nostro immaginario verso una visione meno improbabile della classicità. Il Bronzo A di Riace, presente con una copia appositamente realizzata sulla base di una stampa in 3D, grazie ad un trattamento delle superfici «eseguito con criteri scientificamente e filologicamente corretti», ci appare dotato di elmo, lancia e scudo, e con la carnagione resa bruna dagli unguenti, la barba vistosamente nere, e le labbra rimarcate da un passaggio di rosso.
Al secondo piano poi spicca la presenza della Penelope, originale greco proveniente da Teheran, di cui esistono tantissime repliche. Ma anche l’originale scopriamo dalla lettuare delle schede era “sdoppiato”. La statua era un dono di Atene al re di Persia per celebrare la fine delle guerre contro i Persiani. Una versione restò in Grecia, l’altra andò a Persepoli, dove si è conservata perché nel 331 aC finì sotto le rovine del palazzo reale distrutto da Alessandro Magno. La storia, a volte, ha molta ironia…