Ieri visita guidata con gli amici di RomaFelix a mostra di Matisse alle Scuderie del Quirinale.
Il filo conduttore, oltre che ovviamente il titolo della mostra, è l’arabesco.
Arabesco è un motivo dalle implicazioni pacificamente radicali nella pittura di Matisse.
Provo a metterle in fila. La prima implicazione consiste nel fatto che il quadro diventa un’operazione di orchestrazione più che di costruzione. Non c’è una composizione da pensare nei suoi pesi e nelle sue gerarchie. Ma visioni di realtà dentro le quali scovare il motivo che mette in relazione tutti i particolari. Il quadro restituisce un’altra visione in cui ogni oggetto si lega all’altro, perché tutti sono figli del sentiment che hanno suscitato in Matisse.
Arabesco è poi la soluzione che porta la pittura fuori dalla finzione della terza dimensione. Arabesco è bellezza a due dimensioni, è bellezza che svela la sua quintessenza nello schiacciamento della piattezza.
Arabesco è anche l’idea che il quadro non sia un percorso lineare che porti da un punto a un altro, che sia un percorso chiuso. Il quadro è un percorso sempre aperto, convenzionalmente chiuso nel perimetro della tela, ma che idealmente sconfina, sfugge da ogni pretesa di definirne un confine. L’arabesco per Matisse diventa infatti una metrica grazie alla quale si possono organizzare le sensazioni e grazie alla quale il quadro può prolungare la sua vita nelle sensazioni libere, accese in chi lo osserva. «Quel che conta è la relazione tra l’oggetto e la personalità dell’artista, la potenza che questo ha d’organizzare sensazioni ed emozioni».
Arabesco è anche un implicito rimando ad un infinito. È motivo che virtualmente si allunga nella sua ritmicità oltre ogni misura. Non ha bisogno di essere “comandato” dalla mano esperta di un artista, perché per natura cresce obbedendo in modo mai coercitivo alla forma che gli è stata data.Come Matisse aveva scritto, tutto questo apre la superficie del quadro a «uno spazio di dimensioni che la stessa esistenza degli oggetti rappresentati non riesce a limitare».
L’arabesco è poi la matrice da cui si genera l’esperienza dei papiers decoupés. La ritmicità dell’arabesco detta i movimenti alla prodigiosa forbice di Matisse, che taglia la carta colorata a tempera dalle sue assistenti. Linea e colore si trovano così legati nel l’unità inscindibile di quel gesto. In questo modo Matisse paradossalmente regala all’arabesco una fisicità, una corporeità, che non aveva mia sperimentato senza rinnegarne la natura. Ma questo è l’arabesco al suo massimo compimento.
Ps: l’allestimento della mostra curata da Ester Cohen, in particolare al primo piano riesce a tenere un andamento che richiama la fluidità dell’arabesco. A dimostrazione di come ci si trovi davanti ad una mostra profondamente pensata in cui ogni quadro ha senso che ci sia. Non perdetela.