Robe da chiodi

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La dinamite di Serodine

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cover Serodine paesaggio

Come sempre la coppia Giovanni Agosti e Jacopo Stoppa non si smentisce. Qualsiasi progetto affrontino puoi star certo che non vedrai niente di scontato. Una mostra su Serodine, per quanto sia un artista che non si smette mai di amare, poteva essere scontata, visto che come loro stessi scrivono, di nessun altro caravaggesco si sono fatte tante mostre come per lui. Una era stata fatta solo due anni fa nello stesso museo, la Pinacoteca Zust di Rancate. Questa volta il pretesto di partenza è il prestito obbligato al museo della grande pala di Ascona, causa lavori di restauro della chiesa. Da qui l’intelligente idea della direttrice del museo, Mariangela Agliati Ruggia, di farne l’occasione per costruirci attorno un qualcosa. E chi se non la coppia Agosti- Stoppa poteva inventarsi questo “qualcosa”?

L’idea è semplice, radunare tutti i Serodine presenti in Canton Ticino (che sono 10 ma sono più della metà del catalogo). Su questa idea semplice se ne sono innestate altre, di cui una però determinante: quella di un allestimento sinergico con la pittura di Serodine. Cioè che ne facesse emergere, quasi a contatto, senza bisogno di parole, l’energia; o meglio, l’ardore. Di qui l’arruolamento di Stefano Boeri e la realizzazione di un dispositivo allestitivo tutto concentrato in un unico ambiente. Si tratta di una sala coperta per metà da un ballatoio. Tirate le pareti a nero, i quadri sono stati posizionati tutti a pari altezza di cornice, a 5 metri. Entrando nell’ambiente alto si vedono le quattro pale, di cui solo quella di Ascona scende quasi sino a terra. Salendo sul ballatoio, abbiamo le opere ad altezza occhio, mentre i quadri di dimensioni minori risultano appese più bassi del normale.

L’effetto è straordinario, perché la pittura di Serodine, vista così, parla senza neanche bisogno che si vada dentro i singoli soggetti. Sono come fiammate di pittura che ti investono ovunque tu ti giri. Il fatto poi di misurarti, sul ballatoio, con quadri appesi bassi dà l’idea di una pittura da cui non ci si può sottrarre. Una pittura, che stando alla tua altezza, ti chiama dentro. E davanti al San Pietro si capisce bene quanto fosse esatta la metafora messa in campo da Roberto Longhi nel 1942: «una capsula di dinamite gettata in un fornello». Serodine è in effetti un pittore con la dinamite dentro, un pittore che brucia il colore sulla tela. Non mi son chiesto che temperatura ci fosse in quella sala, ma certo la sensazione è che, se si allungasse la mano, ci sarebbe davvero da scottarsi…

Altre cose da segnarsi di questo Serodine. Il catalogo, innanzitutto, con una campagna fotografica eccezionale e di un formato che esalta immagini e pittore (Officina libraria, prezzo “politico” rispetto alla qualità, 30 euro). Catalogo curiosamente con doppia copertina, a scelta di chi compera. Una classica, con l’infiammato San Paolo dalla pala di Ascona che punta il dito in alto. L’altra con un dettaglio della stessa pala un po’ spiazzante: un angolo di paesaggio in cui si scorge il Maggia buttarsi nel lago Maggiore, sotto un cielo che sembra denso di sabbia.
Il catalogo poi è l’occasione per capire di più della biografia di questo grande artista vissuto davvero troppo poco: morì a 30 anni. Una biografia che scopre anche i lati intimi, perché Serodine nelle sue opere porta dentro anche il suo coté privato. Come in quel quadro, una Sacra famiglia, dove il padre posa per San Giuseppe, Maria ha il volto della cognata rimasta vedova, e il bambino è forse quello che lo stesso Serodine ha fatto con la cognata…

Infine la piccola tela appena ritrovata, qui proposta come Serodine, comprata da un collezionista che l’ha lasciata al museo di Rancate in deposito. Un ritratto di ragazzino, con lo sguardo puntato verso destra. Uno sguardo, acuto, teso, struggente, indimenticabile. Non so quanto pagherei per sapere cosa sta guardando…

Serodine, Testa di giovane

Serodine, Testa di giovane

Serodine, Sacra famiglia

Serodine, Sacra famiglia

Written by gfrangi

Maggio 31st, 2015 at 8:21 am

Dedicato a mio padre

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Giovanni Serodine, Ritratto del padre

Giovanni Serodine, Ritratto del padre

Parto da questo quadro, un capolavoro di Giovanni Serodine che dipinge un ritratto del padre. È un quadro intimo, privato. Il contesto e l’impaginazione non hanno volutamente nulla di speciale. È un’immagine in cui il figlio cerca di indagare, di capire, di scoprire. Non c’è spazio per nessuna enfasi, semmai si respira un senso di affetto vero. È un quadro che scruta con discrezione un doppio interno: l’ambiente e il lato interiore del padre. Il padre è colto in una situazione abbastanza banale, che non teme di lasciar venire a galla anche una dimensione dimessa, pacificamente accettata. È un padre senza imperativi. Più propenso ad ascoltare che a dare ordini. Pensavo questo pensando a mio padre, Carlo, che ieri, 7 marzo 2015, se n’è andato. Non ricordo momenti in cui ho sentito la sua presenza come qualcosa di forte, di deciso, di ingombrante rispetto alla mia vita. Come il padre di Serodine è un tipo di padre che alza lo sguardo senza pensare di legare la libertà del figlio. Ma alza lo sguardo. È un padre che non va oltre a dei semplici accenni. A porre domande leggere. Non è un padre forte. Non è padre d’ordine. In un certo senso è poco padre, secondo quell’accezione un po’ granitica che per schematismo si assegna a quella parola.
Ma guardando il quadro di Serodine capisco che quell’essere meno potentemente padre, lo fa essere più profondamente padre. Mi chiedevo come poteva essere possibile una cosa che sembra essere contraddittoria. E allora ho aperto una pagina di quel genio nella comprensione dell’umano che è stato don Giussani, e ho capito, che il padre non è determinato dal suo carattere ma dalla fedeltà alla sua funzione: «essere il segno immediato del Mistero che ci ha fatti, il segno immediato di Dio, qualunque uomo sia stato – degno o non degno questo non c’entra, è l’essere segno che c’entra». È questo che fa sì che tuo padre sia piantato dentro di te. Per Serodine è andata così, perché così, e solo così si riesce a spiegare la verità e la profondità di quel quadro. Ma oggi scopro che così è stato anche per me.

Written by gfrangi

Marzo 8th, 2015 at 8:45 am

Guardando ammirato il portico di San Lorenzo

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Il portico di San Lorenzo fuori le Mura (foto di Bruno Brunelli)

Osservavo ieri, ammirato, le colonne del portico di San Lorenzo fuori le Mura a Roma. Bellissime, con quelle scanalature che salgono a spirale, con un motivo che è un dolce richiamo a un senso umano di eternità. Finiscono con un capitello ionico impreziosito da un lavoro di traforo. Sopra c’è un’architrave con motivi decorativi a mosaico, che sembrano un paramento a festa. C’è un punto di pace in certe architetture: e lo capisci quando scopri che non smetteresti mai di guardarle. Sono architetture nate “giuste” che quindi tengono questa loro cifra, nonostante il lavorio a volte pesante del tempo. Le architetture nate “giuste” in genere non sono mai frutto di intuizioni geniali, ma sono idee che si mettono nella scia di cose che già esistono, o che addirittura si adattano docilmente a situazioni preesistenti. Sono architetture obbedienti. San Lorenzo, con la sua doppia navata, neanche in asse una con l’altra, figlie di due momenti della sua storia (costantiniana e medievale) è un po’ così. C’è in quella chiesa come una trasparenza, una limpidezza che si spiega solo con il fatto che ognuna di quelle pietre è stata messa lì non per dare spettacolo di sé ma per far da riflesso ad un’altra gloria. Nello specifico è quella di cui si sono fatti tramite Lorenzo e Stefano i due diaconi martiri che sono sepolti nella cripta della basilica. Pensavo poi alle colonne della navata medievale, scheggiate dalle bombe del 1945: e quindi come anche il dolore e la fatica dell’uomo fossero comprese in quelle pietre. Pietre ferite, accanto a pietre che “cantano”, come quelle del meraviglioso pavimento cosmatesco. Tutto si tiene quando un’architettura è “giusta”, perché è inclusiva, mai esclusiva. Non teme gli inserimenti imprevisti e a volte violenti della storia. E pensavo anche alla sorpresa che mi fa ogni volta ritrovare nella cappella in fondo a destrauna scarna tela (molto affaticata dal tempo, con l’Elemosina di San Lorenzo) del grande Giovanni Serodine, lombardo in trasferta.
Pensavo a tutte queste cose stando sulla piazza perché all’interno la basilica era strapiena per i funerali di don Giacomo, un sacerdote molto importante per la vita di molti e anche per la mia. E pensavo che quel che stavo guardando aveva una relazione davvero profonda con quello che è stata la sua vita.

Written by gfrangi

Aprile 24th, 2012 at 8:03 am

Rembrandt e Serodine, Emmaus prima della cena

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È il momento in cui la liturgia ripropone una delle pagine che sempre più mi hanno intrigato del vangelo: quella dei discepoli di Emmaus. Nella mostra parigina su Rembrandt, ovviamente l’episodio tiene banco, oltre che con i quadro ben noti, anche con una serie di disegni, relativi non al momento cruciale dello “svelamento”, ma alla fase precedente, quella del cammino dei discepoli al fianco di Cristo verso Emmaus. È un’iconografia abbastanza rara sulla quale invece Rembrandt riflette con alcuni disegni, presenti in mostra. Immagino che anche Rembrandt sia rimasto colpito da quella circostanza strana dei due che non riconoscono la persona che pure era al centro dei loro pensieri. In un disegno conservato al Louvre i due discepoli camminando guardano in faccia il loro compagno di strada ed è uno sguardo tutt’altro che distratto. Neppure badano al terreno tanto sono presi. Eppure non riescono a riconoscerlo. In un altro, proveniente da Edimburgo, è Gristo a fare strada e a voltarsi indietro verso I due. Anche Giovanni Serodine, in una delle tele di Ascona, ha immaginato Emmaus prima della cena: lui coglie un momento di grande tenerezza, quello in cui uno dei due discepoli invita il loro compagno di strada a fermarsi con loro e lo prende per mano come per convincerlo. Anche in Serodine lo sguardo è di un’intensità straordinaria, vero epicentro del quadro. Eppure non lo riconosce… Immagino che cosa intrigante sia per un pittore raccontare questo sguardo che non riconosce. Come d’altra parte è ancora più intrigante il racconto di quel che segue con lo svelamento: lo stupore, il balzo dello sguardo e del cuore quando tutto si chiarisce. Michel de Certeau in un libretto pubblicato da poco in Italia dice che “sono troppo assorbiti da ciò che hanno perduto per vedere il dono che hanno davanti”. Osservazione acuta. “Questa ricchezza perduta li trattiene in sé stessi”, continua. Eppure non era mancata l’attrazione verso quel personaggio… Ma sono ultimamente chiusi in quello che era il loro pensiero riguardo a Cristo, mentre Cristo va sempre oltre ogni immaginazione. Nel quadro meraviglioso di Rembrandt del Jacquemart Andrè sembra che di discepoli ce ne sia uno solo. L’altro infatti lo si vede solo in un secondo momento, e solo per via del ciuffo che spunta: è infatti chinato nella zona buia, come prostrato davanti al Signore. Un gesto istintivo, assolutamente umano, di dedizione e di gratitudine. Quasi un annullarsi nella figura ritrovata.

Written by gfrangi

Maggio 14th, 2011 at 6:46 pm

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