Vista la mostra di Medardo Rosso alla Galleria d’arte moderna di Milano. È una mostra piccola per un autore su cui Milano avrebbe potuto dire qualcosa di nuovo e di più. Invece è una mostra troppo normale, oltretutto assai meno completa di quella fatta al Mart nel 2004, a causa anche degli spazi espositivi esigui. Ma a parte questo, poteva essere l’occasione per un approccio nuovo a Medardo: capire il senso di quegli ultimi vent’anni in cui smette di essere scultore e che sono sempre stati liquidati con la battuta di Carrà: «l’empito del creare si era in lui spento in seguito a una terribile caduta dal tram». Soluzione semplicistica per un ventennio in cui Rosso non era affatto stato come le mani in mano. Aveva invece elaborato precise strategie che riguardavano la sua opera passata, il modo di presentarla, di “vederla”, persino di concepirla. È un lavoro alla radice del suo lavoro storico quello che Rosso fa negli ultimi anni della sua vita. Lavora sulla percezione della scultura, sulle associazioni di immagini, su elaborazioni che hanno tutta l’aria di essere di carattere concettuale del proprio lavoro.
Il tema è quello che riguarda la fotografia a cui Rosso rivolge un’attenzione sistematica e sperimentale dopo aver visto all’opera Edgard Degas. Sono centinaia di stampe e negativi, nessuno mai di routine, ma tutti tentativi di affrontare lo sguardo sulla scultura, di caprine le implicazioni, le relazioni, le associazioni.
Le fotografie in effetti sono ben rappresentate in mostra, ma sarebbe stato interessante mostrarle in relazione alle opere, perché il percorso fatto con le foto non è un appendice, forse è esito, l’esito a cui Rosso davvero mirava.
Per dirla tutta, il Rosso scultore, per bello e sperimentale che sia, è uno scultore ancora dentro un orizzonte di naturalismo, e per quanto sia ammaliatrice e anticipatrice la sua Madame X è ancora lontana dalla radicale semplificazione della Musa dormiente di Brancusi. Rosso vive la difficoltà che la scultura vive in questo passaggio di storia. Ci prova Degas a forzare, ma anche a lui la scommessa riesce in modo ben più decisivo con i pastelli. La scultura il suo scatto lo farà più avanti con Boccioni, con Brancusi appunto.
Rosso forse ha chiara questa percezione e per questo negli ultimi anni della sua vita lavora per trovare il punto di forzatura, di uscita da quell’impasse che teneva la scultura ostaggio di una visione non abbastanza moderna. Il bel libro di Paola Mola uscito nel 2006 “Rosso, trasferimenti” documenta con grande dettagli le operazioni che lo scultore fa attraverso le fotografie sulle sue sculture. Scrive: «Rosso abbandona la natura e l’invasivo apparire delle cose, e rivolge all’immagine e alla sua materia fisica ogni sua attenzione sperimentale». Resta, scrive Paola Mola, come esito del percorso di Rosso, «il pensiero di un’immagine».