Robe da chiodi

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Come conquistare i ragazzi all’arte del 900

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25 BluGiotto

Settimana di belle avventure. Mercoledì scorso sono stato a Ravenna. Mi ha chiamato un bravo e appassionato professore di Storia dell’arte, Leonardo Babini, che ha radunato tutti gli studenti delle quinte dei classici e scientifici della città. Sono circa 350 studenti che occupano tutti i posti dell’auditorium della Cassa di Risparmio di Ravenna. A me tocca convincerli che il 900, per quanto riguarda la storia dell’arte, è stato il secolo più affascinante che ci sia. L’auditorium ha una grande bellissimo schermo. È quello il mio testo. Scelgo di non avere appunti e di seguire solo il binario delle immagini che ho preparato. Non voglio che sia lezione né conferenza, perciò parlo stando in piedi vicino alla prima fila. Sullo schermo, in partenza, ho il ritratto di Eugene Boch di Van Gogh, 1888. Mi serve per conquistare gli occhi e per fare capire due cose basilari: che la pittura a quel punto era diventata una partita a due dimensioni, la partita ce la si giocava senza più la scappatoia di spazio illusori aperti sul fondo della tela. La seconda cosa è che questa specie di saracinesca calata a chiudere ogni punto di fuga, da limitazione si era trasformata in una leva di energia: il fondo stellato e piatto di Van Gogh era un di più, non un di meno. Era espansione del personaggio, sua proiezione, completamento del suo profilo umano e psicologico. La cosa viene capita benissimo, lo intuisco subito guardando il volto dei ragazzi. Boch era un poeta che per Van Gogh simboleggiava una mente familiare all’infinito. Questo il quadro lo dice, e a tutti è un’evidenza.
Non posso raccontare tutto. Ma posso dire che il percorso ha aperto una breccia nella testa dei ragazzi. Che hanno seguito senza stanchezza e con tanta curiosità. Quando ho dovuto introdurre il tema dei monocromi li ho visti conquistati dal salto mortale da Giotto, che fa arrotolare l’azzurro del cielo agli angeli del suo Giudizio Universale di Padova, a Yves Klein, che fa dell’azzurro tema unico del suo quadro, infinito che si fa oggetto. Materia che diventa visione senza fondo. Quando ho fatto entrare in scena Gagarin e il suo “la terra è blu, che meraviglia, è incredibile” (1961), ho poi mostrato come Klein avesse visto prima con il suo Mappamondo blu del 1958. La sensibilità porta gli artisti in alto e lontano…
Per finire. L’ultimo percorso, dedicato al tema della luce, si concludeva con i cinque minuti di un video dell’installazione di Garutti al Maxxi. Riflettori potenti che si accendono in una sala del museo ogni volta che un fulmine cade su un qualsiasi pezzo del territorio se italiano. La connessione non è partita, così l’ho raccontato a parole, citando la didascalia che dà la chiave all’opera: “dedicata agli uomini che guardano in alto”. Poi ho dato il link perché chi volesse se lo guardasse a casa. Risultato, come mi ha scritto Babini, in tanti vogliono farne tesina dell’esame di maturità.
Alle 12,45, dopo un’ora e mezza abbiamo finito. Tutti contenti, io per primo.

30 Klein

Written by gfrangi

Febbraio 16th, 2015 at 11:47 pm

Ravenna, gli asparagi di San Vitale

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L'abside di San Vitale (foto Skiwalker79)

Seconda visita in poco tempo a San Vitale a Ravenna. È un’occasione obbligata per sguardi non scontati. Per fortuna mi viene incontro un libro casualmente in libreria datato 1935. Ma l’autore è una garanzia, Corrado Ricci. È un libro che ti porta fuori dalla scontatezza, con le sue osservazioni minuziose. Dopo averlo letto capisco che una visita semplice e ben fatta a San Vitale può avvvenire attraverso tre step.
Il primo: il rito d’ingresso dal grande pronao a due porte (quindi non in asse con l’abside). È un rito di disvelamento di una delle più straordinarie architetture del mondo. L’esterno delle chiese ravennati sono sempre scatole di laterizio che non lasciano presagire lo splendore che invece custodiscono all’interno. Dal pronao si è attratti dalla luce dell’ottagono, una meraviglia di spinte convergenti verso il centro (i pilastri triangolari tagliati a tonco di cono nel lato che punta verso l’interno) e di ammorbidimenti con le sette absidiole traforate che si aprono tra un pilastro e l’altro. È un accavallarsi di spazi che si tengono l’un altro, di muri che si aprono e lasciano spazio ad altre organismi architettonici. Non tutto è sotto il controllo dell’occhio: i matronei fuggono risucchiati dalla luce opalina delle finestre di alabastro.
Secondo step: arriviamo ai mosaici, e affrontiamoli sulla base del loro stile. Qui si gioca un passaggio d’epoca. Nei primi, quelli del presbiterio, anno circa 530, soffiano gli ultimi refoli del naturalismo romano ellenistico. Il verde fa dominante indiscussa, l’organizzazione degli spazi non è rigorosa come accadrà con i bizantini: le scene di Mosè, stupende, sono inserite a coprire lo spazio rimasto irrisolto verso l’abside. Le vesti “vestono” ancora i corpi e si agitano al movimento dei personaggi (non c’è più la concitata, palpitante corsa del San Lorenzo di Galla Placidia, di 60 anni prima: ma qualche segno resta ancora). C’è tanta, tantissima natura: nella volta del presbiterio Ricci conta 80 animali; nelle parti basse ce ne sono altri sette e sono animali da palude, a memoria di quella che cingeva Ravenna. Ma, massima sorpresa, nella volta per volte ricorrono tre mazzi di asparagi. Gli asparagi ravennati erano stati magnificati da Plinio e da Marziale. Giovenale, nell’undicesima satira, dice che arrivano addirittura al peso di tre libbre.
Terzo step: l’abside. Siamo al punto topico, certamente oltre il 550 visto che il vescovo Massimiano che si immortala al lato dell’imperatore sale sulla cattedra nel 546. Il mondo è cambiato. Le vesti scendono a piombo sui corpi. Le linee non sgarrano più dall’ordine prefissato. La presa è rigorosamente frontale. La rappresentazione è sfolgorio puro. Ma qui Ricci sotolinea un elemento chiave e che fa da raccordo rigoroso con le scene stilisticamente diverse che precedevano. La frontalità infatti è una forzatura: in realtà i due schieramenti di Giustiniano e di Teodora sono due cortei. Stanno camminando verso il centro dell’abside, come suggeriscono chiaramente le prime due figure. A loro il compito di portare la patena (Giustiniano) e la pisside (Teodosia) all’altare sottostante dove si terrà il sacrificio eucaristico. Lo avevano annunciato le scene chiave del presbiterio: a destra i sacrifici di Abele e Melchisedec; a destra i tre angeli ospiti di Abramo che benedicono il pane. Passano le epoche, passano gli stili, ma tutto si tiene.

Written by gfrangi

Aprile 8th, 2012 at 8:42 am

Testori a Ravenna. Ovvero, Testori nella giusta prospettiva

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Uno scrocio della sala dedicata a Morlotti

Vista la mostra su Testori a Ravenna. Ecco qualche prima sommaria valutazione.
È una mostra che riesce ad essere compatta nonostante l’arco temporale che deve coprire e la diversità di esperienze e di personaggi che in qualche modo hanno fatto capo a Testori critico e storico dell’arte. Il merito va Claudio Spadoni che ha saputo tenere in pugno la regia senza cedere a compromessi che avrebbero aggiunto poco e avrebbero reso confuso il percorso disorientando il visitatore. In mostre come queste tener presente l’occhio di chi verrà a vedere è preoccupazione giusta e costringe a render chiaro se stessi l’obiettivo. Tante altre volte abbiamo visto Testori in melassa testoriana, qui per fortuna vediamo un Testori affrontato con lucidità intellettuale.

La mostra è anche una mostra ricca, nel senso che è alta la qualità di gran parte delle opere esposte, e nel senso che tante sono le sorprese che il percorso riserva. Soprattutto il percorso non è affatto monocorde: un dato che fa pensare e che sgombra il campo dal “testorismo”…

Il percorso. Apre con il colpo di scena dell’Apocalisse, il grande ritratto (5 metri di base!) che Varlin fece a T. Si intrattiene fugacemente sul nodo culturale degli anni 40 (tra Matisse e Manzù: belli i disegni delle Erbe). Poi si incammina in modo classico e ben recepibile in senso cronologico. Foppa (l’inizio di tutto, lo si guarda con ammirata gratitudine) e Romanino danno il via. Manca il grande Spanzotti, ma c’è un Gaudenzio giovanile che fa per lui… Poi il primo piano segue con 600 e 700, con la lucidità di Tanzio che tiene banco e con il grande cuore di Ceruti che attraversa i secoli: il suo Pellegrino a riposo, che viene dalla Fondazione Longhi, sembra un quadro dipinto per parlarci oggi. Non c’è nessuna paura del tempo in lui. Solo pienezza umana. Il meno per Ceruti diventa un più.
Il secondo piano balza all’800, partendo da Géricault, passando per Courbet per poi transitarci nel 900 con la Nuova Oggettività e un po’ di Novecento italiano. Poi lo snodo svizzero di Varlin e Giacometti. In queste sale lasciano il segno i due Gruber, tesi e come attraversati da un vento di vetro.
Il terzo piano si apre con una sobria selezione di ritratti a Testori (testimonianza dei sodalizi umani che il suo essere critico comunque originava: qui è meraviglioso il ritratto al Testori malato di Rainer Fetting). Segue la “banda” dei tedeschi che negli anni 80 avevano riacciuffato il filo perduto della pittura. Poi arriva il colpo maestro di una grande sala morlottiana, in cui si dimostra quanto sia impropria la dimenticanza calata sul grande lecchese.

Bacon, After Muybridge, man on a rowing machine, 1952

Nelle ultime sale Spadoni ha messo in scena un cannocchiale prospettico che vede da una parte la “larva” del vogatore di Bacon e dall’altra il sigillo di Caravaggio: un’ottima idea che permette, senza muoversi, di percepire il legante tra quelle due figure caposaldo del mondo di Testori. Su quell’asse, oltre alla sala morlottiana, si apre che una sala che ripropone il ritorno della pittura degli anni 80, ancora con (tra gli altri) Fetting, Hoddicke e Paladino e Cucchi. Chiude un malinconico, stupendo, straziante Guttuso: Passeggiata nel giardino di Velate (1983). Un quadro che resta innamorato della vita, nonostante la vita sfugga… Ed è un quadro che invita a passare alla sala finale, dove con un colpo di teatro Spadoni ha scelto di raccogliere cinque artisti totem di Testori, già visti in mostra, ma qui radunati come per un crescendo finale, al massimo registro: la scossa elettrica del Caravaggio collezione Longhi, si accompagna a Giacometti (il dottor Corbetta, dottore anche di Varlin…), Bacon di nuovo, alla inarrivabile Erodiade di Del Cairo (da cui l’avventura del Testori critico aveva preso il via), alle Bagnanti di Morlotti (1988), vero sorprendente colpo al cuore, grande quadro costruito di tra e di sole.

Punti deboli. Ne ho riscontrati solo un paio: troppo esangue rispetto alla centralità che ebbe per Testori la sala di Gèricault. E nella sala della Nuova Oggettività manca il perno: che non poteva essere altro che Christian Schad (ma degli anni giusti).

Il catalogo. Bello nella parte dei saggi, specie i tre più storicizzanti di Davide Dall’Ombra, di Claudio Spadoni stesso e di Marco A. Bazzocchi. Deludente invece nella parte delle schede. Era molto meglio seguire il percorso della mostra piuttosto che presentare gli artisti un po’ scontatamente in senso cronologico (per altro scorrendo il catalogo si capisce come il “flusso” non organizzato avrebbe generato grande confusione nei visitatori. E quindi indirettamente si apprezza ancor di più la mostra). Certo che le riproduzioni…

Qui le immagini della mostra sala per sala.

Written by gfrangi

Febbraio 19th, 2012 at 12:33 pm