«Non so chi è Soutine». Dice così il protagonista di un racconto che sembra un incendio di Foster Wallace Chiesa fatta senza le mani. Soutine è evocato d’improvviso, con un riferimento lasciato lì un po’ incomprensibile, a sorpresa. Ne si capisce la ragione una pagina più avanti quando Wallace dà immagini alle visioni del protagonista, Giorno. «Anche le pennellate del lavoro meglio sognato si possono vedere come ritmi. Il dipinto di questo giorno svela i suoi ritmi contro un terreno dove la luce è soggetta agli influssi del vento… È un terreno dove momenti di calma si alternano a raffiche di luce. Dove gli spazi aperti lampeggiano come nervi malati e alberi chini pendono con un’aura vischiosa che si dispone ad appiccicare un fuoco fluorescente all’erba, dove fascine di lice si accatastano alla base delle staccionate, dei muri, e ondeggiano e rifulgono. Gli orli aguzzi della torre campanaria frangono le raffiche in spettri prismatici».
Sembra davvero una parafrasi di un’opera di Soutine. Cui fa da contraltare nelle pagine successive una lezione sussiegosa di uno strano prete avvizzito sulla Veduta di Delft di Vermeer, «finestre sopra interni dove ogni conflitto è stato risolto». Contestualizza con una punta di cattiveria Wallace: «…legge in tono monotono di come le particolari pennellate di un olandese ammazzano il tempo a Delft. Teste pettinate con cura si voltano obliquamente a guardare l’angolo delle lancette scintillanti dell’orologio . La famigerata eternità delle lezioni del gesuita». Wallace sta dalla parte di Soutine…