Non ho mai conosciuto Renato Nicolini, l’assessore delle famose estati romane. Ma per uno strano destino le nostre strade si sono sfiorate grazie a una comune amica, bravissima artista, Alessandra Di Francesco: nel catalogo della sua recente mostra dedicata a Pina Bausch, uno scritto di Nicolini appare a fianco di uno mio. È uno scritto semplice, denso di tanti incontri, di un uomo che ha badato più a proporre che a disporre. Di Nicolini si sono dette tante cose, ma ripercorrendo in questi giorni di commemorazioni l’infinita serie di proposte che aveva riversato su Roma in quegli anni, la qualità che aveva saputo mantenere unita alla novità, si capisce come si sia trattato di un’esperienza del tutto unica. Mi è piaciuto leggere in un’intervista rilasciata pochi giorni prima di morire (e sapendo di dover presto morire) si dicesse disponibile a tornare in pista con un’unica parola d’ordine: mettere la cultura al centro, come fattore di costruzione sociale, in grado di ridare energia alla vita di tutti. Cultura come un’avventura che muove le persone, che ricombina i rapporti e allarga le prospettive. Colpiva sentirlo ancora determinato in questa sua convinzione a tanti anni di distanza: «Io lo dico in maniera chiara: Roma non ha bisogno di moderatismo, tutti i grandi sindaci, da Nathan a Petroselli, non sono stati moderati, ma avevano idee forti e coraggiose».
Riporto, ringraziando Alessandra, la parte finale dell’introduzione alla mostra. Mi pare che in quel suo “restare in silenzio” mentre era a tavola con la Bausch ci sia tutto il vero Nicolini.
«Se Roma s’innamorò di Pina, Pina si innamorò di Roma… L’eterna sigaretta accesa, la percorreva nei luoghi non consueti, dove chiedeva di essere portata, come il campo nomadi di Ponte Marconi. Curiosa di quello che spaventa il borghese, sapeva cercare la poesia dei movimenti, la danza del corpo, la sorpresa della vita… Due spettacoli di Pina sono stati pensati per Roma e prodotti in collaborazione col Teatro di Roma… Il primo, Viktor, conseguenza di un Progetto Germania di Franco Quadri (che ci ha lasciato anche lui da un anno), andò in scena quando ormai non ero più assessore, ma lo sentivo come mio, come un frutto della Roma di Argan e Petroselli, che metteva la cultura al centro della città… O Didone, una riflessione più malinconica sulle origini e sul mito di Roma, andò in scena addirittura quando era Sindaco Carraro… Ogni volta che incontravo Pina, ci facevamo grandi sorrisi e ci salutavamo con un bacio. Ci siamo trovati abbastanza spesso a tavola insieme, nelle grandi tavolate del dopo spettacolo. Non è che parlassimo molto, l’ostacolo principale era il mio inglese che, forse proprio a causa dei miei studi al Marcantonio Colonna dei Christian Brothers irlandesi è sempre stato incomprensibile… Ma stavamo bene insieme. Pina non sempre era serena, l’ho vista sfogarsi con la mia compagna d’allora, Patrizia Sacchi, che sapeva ascpltare e parlava un ottimo inglese. Comunque spesso si comunica senza parlare, e una parte di me ha sempre pensato che la migliore cosa che il potere (che comunque rappresentavo) può dire ad un artista è restare in silenzio… Meglio parlare con il comportamento, stando accanto, con gli occhi, con l’ironia con cui si affrontano le difficoltà…»
Quelle ultime parole di Renato Nicolini
1962: Warhol, Pasolini e l’oro di Marilyn
Che bellezza era la bellezza di Marilyn Monroe? La domanda è d’obbligo visto che la morte dell’attrice, nell’agosto di 50 anni fa, fece uscire allo scoperto i pensieri di due personaggi tanto lontani tra di loro: Warhol e Pasolini. Non era una bellezza qualificabile in termini canonici, su una semplice scala di valori di estetica femminile. Warhol e Pasolini hanno il merito di impedire che anche oggi il fenomeno della bellezza di Marilyn possa essere liquidata con categorie semplicistiche. Mi colpisce come tutt’e due l’abbiano associata all’oro: facile, si potrebbe obiettare, visto il biondo sfolgorante dei suoi capelli. Ma l’oro evocato segnala qualcosa di simbolicamente ben più profondo. Per Warhol lo sfondo della sua Golden Marilyn ha qualcosa di iconico, che rimanda ad una dimensione capace di superare la precarietà del tempo. Mi immagino un discorso di questo tipo dietro quello che resta uno delle sue opere certamente più importanti: la bellezza di Marilyn non è fatta solo dalle sue sembianze, ma anche e soprattutto dagli sguardi che le si sono posati addosso. E che sono sguardi di milioni e milioni di persone che hanno visto incarnarsi del tutto inconsapevolmente in lei una bellezza desiderata da ciascuno come orizzonte dell’esistenza, come punto ad quem della vita. Per questo la bellezza di Marilyn non può essere transeunte sembra pensare Warhol; per questo si cura di restituirla con un’immagine che non passa. È un’immagine semplice, ma non unidimensionale. Perché in quella foto scelta da Warhol per essere trasfigurata in icona, Marilyn appare in uno stato di perfezione venato dalla sottile malinconia della morte: Warhol fa leva sul desiderio e scarta il possesso. La bellezza desiderata è contemplabile, non è mai ultimamente possedibile. È il mare d’oro che la avvolge evoca proprio questa dinamica.
«Te la portavi sempre dentro, come un sorriso tra le lacrime,/ impudica per passività, indecente per obbedienza», scrive, a proposito della bellezza di Marilyn, nella sua poesia Pasolini. E poi ancora: «…tu sorellina più piccola,/ quella bellezza l’avevi addosso umilmente/ e la tua anima di figlia di piccola gente,/ non ha mai saputo di averla,/ perché altrimenti non sarebbe stata bellezza». E poi anche in PPP c’è l’immagine dell’oro: «Sparì, come un pulviscolo d’oro»; e poi: «Sparì, come una bianca ombra d’oro».
Qui sentite la poesia di Pasolini con la voce di Laura Betti.
Caravaggio, chi è davvero Matteo?
Chi è dunque Matteo? Per quanto possa essere suggestiva non pare abbia molta credibilità l’ipotesi proposta nel corso di una trasmissione di TvSat 2000 a cura di sara Magister che rilegge in modo diverso il grande quadro della Chiamata di Caravaggio. Secondo questa versione (ma anche secondo un accurato studio pubblicato nel 1988 da una studiosa australiana, Angela Hass, sul Journal of Warburg and Courtald institutes) il vero Matteo sarebbe il giovane a capo chino, appoggiato sul banco da gabelliere e assolutamente concentrato nella conta dei denari. In base a quali elementi si arriva a questa ipotesi un po’ ardita? L’uomo, seduto anche lui al banco ma in posizione più laterale, che indica se stesso come destinatario della chiamata in realtà sarebbe colui che in questo momento sta versando le tasse, tanto che con l’altra mano stringe ancora la moneta da consegnare. Angela Hass nel suo studio del 1988 notava anche altri particolari che potevano avvalorare l’ipotesi: è il giovane a testa chinata a tenere in pugno il sacchetto con i soldi uno dei riferimenti iconografici per Matteo e poi ha notato alcune corrispondenze con la prima versione del San Matteo e l’Angelo, quella rifiutata e poi andata persa per i bombardamenti su Berlino (Matteo è seduto sullo stesso tipo di seggiola, c’è una corrispondenza rovesciata nel gioco delle mani).
Un’ipotesi ardita che insiste anche su un fattore di aderenza “psicologica”: Gesù chiama proprio colui che nessuno poteva pensare venisse chiamato. E si fa riferimento a un passaggio di un discorso di Benedetto XVI in cui il papa insiste su questo fattore: «I dodici apostoli non erano uomini perfetti. Gesù non li chiamò perché erano già santi, ma affinché lo diventassero, affinché fossero trasformati, per trasformare così anche la storia».
Ma quanto a Benedetto XVI è più giusto fare riferimento alla Catechesi sugli apostoli (una serie molto bella), e alla “puntata” dedicata a Matteo del 30 agosto 2006. In quell’occasione il Papa cita en passant proprio il capolavoro di Caravaggio, ma poi nello sviluppo della sua analisi insiste soprattutto su un punto: cioè sulla risposta istantanea di Matteo: «Andando via di là, Gesù vide un uomo seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi!”. Ed egli si alzò e lo seguì». È proprio su questo inciso finale che insiste il papa: «La stringatezza della frase mette chiaramente in evidenza la prontezza di Matteo nel rispondere alla chiamata. Ciò significava per lui l’abbandono di ogni cosa».
Èd è questo il cuore del quadro di Caravaggio: Matteo mentre ancora è intento alla sua attività abituale (vedi cosa fa con la mano destra), è già pronto alla svolta secca della sua vita. L’occhio è già puntato acutamente altrove e se notate la posizione delle sue gambe sotto il tavolo, sembrano già nell’atto di scattare, con il movimento di chi si appresta ad alzarsi.
E se non fossero queste annotazioni, c’è pur sempre da fare i conti con i documenti. C’è una precisa notazione lasciata dal cardinale Contarelli, committente della Cappella (anche se ormai morto da tempo al momento della sua realizzaione che viene acclusa al contratto. La nota dice: «… dal qual banco San Matteo vestito secondo quanto parera convenirsi a quell’arte si levi con desiderio per venire a N. Signore che passando lungo la strada lo chiama all’apostolato; e nell’atto di San Matteo si ha a dimostrare l’artificio del pittore…»
I 100 Caravaggi, Bernardelli Curuz ci scrive…
Mi scrive Massimiliano Bernardelli Curuz, uno dei due “scopritori” dei 100 Caravaggi.
Caro Frangi, apprezzo un certo equilibrio per quanto, naturalmente orientato a portare il lettore sulla pista dello scivolamento del discredito.Ottimo artifizio retorico da comunicatore, il tuo. Complimenti. L’intervento della Terzaghi, a cui rinvii, è molto corretto. Apprezzabile. È il titolo ad essere fuorviante. La bizzarria del ritrovamento discende dal fatto che, i tuoi colleghi, hanno cercato per cent’anni queste cose senza trovarle. Semplicemente questo. Come il corpo di una ragazzina che era andatya in chiesa e che fu trovata dopo 17 anni nel luogo in cui, cercandola, non era cercata. con stima e cordialità
Ammiro la tenacia con cui Bernardelli Curuz difende questa operazione che più passano i giorni più prende i contorni di una vera baracconata. Posso anche accettare il suo accalorarsi da neofita, o da dr House della storia dell’arte, contro il rischio che le fonti restino ostaggio di una casta di superspecialisti che chiudono le porte dietro le loro spalle. Il rimando veramente di pessimo gusto con la vicenda del delitto Claps, non ha bisogno di commenti: d’accordo che quando si tocca Caravaggio si finisce con il sentir dappertutto odor di delitti, ma qui più che di Caravaggio stiamo parlando di una caricatura ritagliata maldestramente tra indizi raffazzonati e supposizioni che definire improbabili è già esser troppo generosi. Basta leggere sul domenicale del Sole di oggi come un giovane studioso, Davide Dotti, smantelli a suon di prove e non di indizi, la candidatura a Caravaggio di due dei disegni a lui assegnati da Bernardelli Curuz e da Adriana Conconi Fedrigolli. Il primo, venduto come “fonte” della fantesca nella Giuditta del Museo Barberini, è in realtà una copia di accademia della testa di Seneca di Guido Reni, realizzata intorno al 1603 ( ricordiamo che l’apprendistato di Caravaggio presso il Peterzano fu tra 1584 e 1588….). Il secondo, riferito alla Maddalena in estasi, è invece una copia d’accademia dell’Alessandro morente, scultura di ambito pergameno, oggi agli Uffizi.
Resta aperto invece lo scandalo di come gran parte del sistema dell’informazione abbia bevuto la notizia senza sentir la minima necessità di una verifica. E visto che tutto è partito da un servizio preparato nei minimi dettagli dall’Ansa, c’è da restar basiti al pensiero di come la più importante agenzia di informazione italiana (pagata in gran parte dai contribuenti) abbia dato credito senza riserve con incredibile leggerezza e in barba a qualsiasi regola giornalistica, a quella che ad un occhio minimamente esperto appariva subito come notizia da prendere con le molle.
I 100 Caravaggi, anche Sgarbi gioca alle figurine
Prosegue la querelle dei 100 Caravaggi (numero tondo, chissà come mai…). Il Corriere oggi intervista uno dei due autori della scoperta, che resta molto evasivo sulla questione chiave: come abbiano potuto studiare i disegni del Fondo Peterzano se non risulta nessuna richiesta di visione di quei disegni.
Se le cose stanno così, come documentato dalle dichiarazione della responsabile delle Raccolte di disegni del Castello, i due neofiti caravaggeschi avrebbero potuto fare le loro ricerche solo sulla base delle immagini in bassa risoluzione contenute nel database visionabile dagli studenti e studiosi. Da lì sono partiti per fare il loro tentativo di sovrapposizione tra i disegni e le opere di Caravaggio: sostanzialmente un gioco di figurine. Difficile, infatti, su quella base, fare qualcosa di più, tipo un’analisi stilistica. La scelta dell’e book sarebbe stata una via obbligata in quanto, non avendo le immagini vere non si poteva certo pensare ad un libro stampato: con l’ebook ce la si può cavare anche con immagini a risoluzione scarsa. Comunque, a bassa o alta risoluzione, avrebbero dovuto chiedere permesso e pagare i diritti a chi li detiene, cioè (immagino) ai Musei Civici di Milano. Infatti pare che il Comune abbia già mosso la sua avvocatura per decidere come procedere. Questo il probabile contesto, con buona pace di Vittorio Sgarbi che nel suo furore anti casta (quella degli storici dell’arte), ha preso le difese dei due outsider. Partecipando pure lui al gioco di figurine: un disegno di vecchio con la barba coinciderebbe con la figura dell’armigero nella Caduta di Saulo della Collezione Odescalchi. Tutto questo senza nemmeno pretendere di avere lo straccio di una foto in mano… Suvvia professore, gli storici dell’arte forse sono «chiusi e ringhiosi» come dice lei, ma la storia dell’arte resta una cosa seria.
Caravaggio e la stupidità di internet
Se cercate notizie sul web rispetto al caso dei 100 disegni del Fondo Peterzano in cui due studiosi hanno riconosciuto la mano di Caravaggio, vi troverete davanti ad un elenco infinito di link in cui tutto viene dato per certo e per acquisito. Per una valutazione sul bizzarro ritrovamento vi rimando a questa intervista di Cristina Terzaghi, che a Caravaggio ha dedicato un libro di grande importanza e con tante scoperte documentarie. Oggi tutti i giornali si occupano ovviamente della cosa, dedicando anche grande spazio. Pierluigi Panza sul Corriere ha sentito Francesca Rossi, responsabile del Gabinetto dei Disegni del Castello (dove è custodito il Fondo Peterzano, di cui fanno parte i 100 disegni) che rivela di non aver mai conosciuto i due studiosi e di non averli mai visti in sala studio. La Stampa esagera con ben due pagine senza nessun accenno dubitativo nel titolo, ma almeno con la salutare doccia fredda di un commento di Marco Vallora. Repubblica, che ieri aveva seguito a ruota l’Ansa nel lancio sul sito della notizia, oggi in prima pagina almeno prende un minimo di distanza mettendo le virgolette nel titolo (nel senso che attribuisce l’affermazione del ritrovamento alla voce dei due studiosi). L’articolo di Armando Besio e Carlo Alberto Bucci mette mille dubbi (rivelando che i disegni erano stati studiati persino da Costantino Baroni e da Maurizio Calvesi). Claudio Strinati, con un commento un po’ imbarazzato salva il profilo dei due ricercatori (“egregi studiosi”) e finisce con il dire che se anche fossero di Caravaggio non dicono nulla che non sapessimo già…
Se invece andate su internet non troverete né punti interrogativi, né virgolette per i titoli, né pareri minimamente dubitanti.
Questo per dire che la carta (dei giornali) è preziosa, con tutti i limiti e la fatica che si porta dietro. Speriamo che non ci abbandoni…
La notizia sul sito di Le Monde per lo meno è in forma dubitativa…
Un dossier completo sui “100 Caravaggi” su storiedell’arte.com
Leggete questo bell’intervento su La Tibune de l’art di Didier Rykner
Da San Matteo a Lazzaro, Caravaggio sempre a 16/9
In una puntata romana settimana scorsa vedo in sequenza la Chiamata di Matteo a San Luigi dei Francesi e la Resurrezione di Lazzaro appena restaurata e presentata a Palazzo Braschi. Ci stanno dieci anni tra l’uno e l’altro, una condizione psicologica e mentale completamente diversa per Caravaggio, ma non mi ero reso conto degli elementi di continuità tra questi due capolavori. Notate lo sviluppo tutto orizzontale della narrazione: sono quadri pensati a 16/9 verrebbe da dire (più cinematografici che mai), se ci si limitasse a ritagliare lo spazio dove stanno i protagonisti. Poi in realtà lo spazio si prolunga anche in altezza al punto che i formati finiscono con l’essere in tutt’e due i casi diversamente verticali: sul Lazzaro in particolare incombe quell’immenso spazio di sacco sulla cui funzione aveva scritto cose bellissime un osservatore insospettato come Luigi Moretti.
L’orizzontalità è intuizione formidabile perché riporta a terra la narrazione svuotandola di ogni enfasi e di ogni retorica: c’è uno sviluppo e non un epicentro. C’è un’insistenza sull’azione nel suo farsi più che sul suo esito. Matteo indica se stesso un po’ stranito, ma non ha ancora mollato la presa dei denari sul banco. Lazzaro è per metà nella rigidità della morte e per metà nel torpore della vita che ritorna. L’orizzontalità è dettata in modo decisivo dalla braccio teso di Cristo che Caravaggio sembra dipingere quasi in fotocopia nelle due tele, solo rovesciandone la direzione: verso sinistra nel Matteo, verso destra nel Lazzaro.
L’intuizione costruttiva di Caravaggio è così giusta e così grande, da funzionare alla perfezione per due quadri psicologicamente tanto lontani l’uno dall’altro. Nel Matteo c’è la sicurezza di chi sa di dare scacco matto a tutta la pittura che si era fatta sino ad allora. Nel Lazzaro si respira invece l’affanno di un ultimo ciak quasi fuori tempo massimo. Un’orizzontalità calma lascia il posto ad un’orizzontalità concitata. Ma il film, verrebbe da dire, è sempre lo stesso.
Due note sulla Resurrezione di Lazzaro. Illuminata in modo davvero indegno: chissà se gli organizzatori se ne sono accorti, visto che il quaderno con i commenti dei visitatori insistono solo su quel punto?
Secondo, resta quel vago enigma se sia Marta o sia Maria, la sorella che si china sul volto del fratello per intercettarne il primo fiato della sua seconda vita (per me uno dei particolari più belli di tutta la storia dell’arte). Dovessimo attenerci alle tipologie umane indicate dal Vangelo, diremmo senz’altro che si tratta di Maria. Ma le risultanze iconografiche portano a rovesciare i ruoli: Maria sarebbe quella indietro in piedi, a capelli sciolti e senza velo. Noto però che Alessandro Zaccuri nell’introduzione del catalogo viene dalla mia. Ma ho verificato su tutti i testi in mio possesso e non trovato altri storici dell’arte accettare questo scambio. Mi ha divertito riscontrare che Francesca Cappelletti nel volume uscito un paio di anni fa per Electa, la scambi niente di meno che per la madre di Lazzaro… (pag. 246). Cose che succedono quando si fanno i libri un po’ troppo in fretta
Warhol, il titolo è tutto
Andy Warhol è davvero un artista infinito. Ne ho avuto conferma un’altra volta vedendo la mostra in corso a Roma, alla Galleria d’Arte Moderna, sul suo rapporto con i giornali. L’hanno chiamata Headlines, ed è il “titolo” più giusto perché con la sua genialità elementare Warhol vede in questo elemento il punto chiave dell’informazione giornalistica: che al titolo affida l’immediatezza per affondare nella sensibilità dei lettori e attorno al titolo costruisce la propria struttura architettonica. In che senso Warhol è infinito? Perché è un artista che non si smette mai di scoprire e di conoscere. È un artista da cui continuano a scaturire cose nuove: non nel senso feticistico dell’inedito, bensì nella novità della prospettiva che spalanca. Il che è molto più interessante. La mostra di Roma è di grande impatto, imperniata sul quel grande trittico del Fate presto (titolo del Mattino di Napoli all’indomani del terremoto in Irpinia). Al centro del Trittico c’è la versione serigrafata bianco su bianco del prima pagina del Mattino, che rappresenta uno slittamento della cronaca verso quel luogo enigmatico che è il passaggio tra vita e la morte. Lo si guarda con il fiato sospeso, per la purezza, e per quella consistenza un po’ amniotica. Ma intanto nel percorso siamo passati per il primo celebre lavoro sul Daily Mirror: “129 dead in jet” del 1962: non ancora serigrafia, ma dipinto, quadro di dimensioni “urlate”, in cui i caratteri del titolo assai più che l’immagine diventano insieme messaggio e struttura. Assoluta elementarità che sprigiona un’energia comunicativa quasi primordiale. Come avrebbe spiegato in altra occasione Warhol, non era tanto il fatto che lo interessava, bensì l’artificio attraverso il quale il fatto diventa un’operazione di gestione della psicologia collettiva.
Di una bellezza e di un’intelligenza sorprendenti è la cartella realizzata all’indomani dell’assassino di John Kennedy: dispacci di agenzia riscritti e scanditi con il ritmo angoscioso delle notizia che scivolano verso un epilogo senza ritorno, alternate a straordinarie immagini virate in diverse monocromie. E Warhol spiega appunto di concepire questa sua operazione per liberare l’America dalla tristezza in cui era rimasta come schiacciata dalla morte di Kennedy. Poi appunto, il Trittico napoletano, che era stato preceduto mesi prima da un primo esaltante contatto con la città, su invito di un grande gallerista insieme a Beuys. Allora Warhol aveva affidato una piccola poesia, pubblicata proprio dal Mattino, un suo pensiero su Napoli: «Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York. Quello che preferisco di più a Napoli è visitare tutte le vecchie famiglie nei loro vecchi palazzi che sembrano stare in piedi tenuti insieme da una corda, dando quasi l’impressione di voler cadere in mare da un momento all’altro…».
Buono il catalogo Electa, completo e con una copertina felice. Solo due appunti volanti: il Trittico Fate presto presentato su tre pagine divise: quell’opera è un tutt’uno che non va “spaccato”. E la cartella su JFK che avrei impaginato così com’è stata esposta: rende molto di più il ritmo che Warhol aveva in testa.
Mostra vista in compagnia di Alessandro e Bea, intelligenti e complememtari nelle loro osservazioni. Con Bea ho capito meglio la funzione strategica del bianco e del nero nel Trittico, con Ale ho scoperto che quella prima pagina del Mattino aveva rappresentato un qualcosa di storico nel nostro giornalismo, con il direttore Roberto Ciuni che aveva sguinzagliato i giovani sulle zone del disastro, lasciando in panchina i vecchi inviati. Evidentemente Warhol ci aveva visto giusto anche in questo.
Il capolavoro incamminato del giovane Tiziano
La prima cosa che colpisce di questo quadro sono le dimensioni: 336 cm di base per 206 di altezza. In secondo luogo colpiscono le proporzioni, con quell’orizzontalità così accentuata e così genialmente sfruttata dal giovane Tiziano. Sto parlando della Fuga in Egitto che dopo un lunghissimo restauro da parte dell’Ermitage è di scena a Londra alla National Gallery e che poi sosterrà a Venezia, città per il quale era stata dipinta, su commissione di Andrea Loredan titolare del palazzo che attualmente ospita il Casinò. Sarà a Venezia dal 29 agosto, prima di tornare definitivamente in Russia. Il dipinto studiato da Antonio Mazzotta, un giovane studioso che è curatore della mostra londinese, è un dipinto favoloso. L’aggettivo non riguarda tanto la qualità quanto la capacità di invenzione di Tiziano, che s’immagina una rappresentazione del tutto asimmetrica, in cui le figurine entrano da sinistra con il loro passo affaticato, lasciando la centralità della scena a quell’immenso paesaggio che Tiziano aveva “rovesciato” sulla tela quasi a rivendicare le proprie radici cadorine e “montane”. C’è dappertutto un brulicare di animali, di foglie, di erba, di vento agitato: Giuseppe, Maria e il Bambino guidati dal giovanotto che fa da angelo, transitano senza che nulla di quel brulichio venga sospeso. È questa la bellezza dell’invenzione di Tiziano, che si permette di soprassedere sugli effetti speciali e inserisce quel viaggio nel flusso normalissimo della vita del mondo (come diceva in una bella poesia Auden, le grandi cose che segnano la storia avvengono in momenti che non hanno nulla di particolare: il tran tran non si ferma..). Il transito poi ha un altro effetto, direi quasi filmico: ci aspettiamo i prossimi passi, quasi che invece di esser davanti ad una tela fossimo davanti ad un video. È una tela “incamminata” questa di Tiziano: nel segno del passo di Giuseppe, del passo dell’asinello e di quello del ragazzo angelo. E noi che la guardiamo siamo quasi indotti a seguirla, non solo con lo sguardo ma con i nostri passi.
Poi ci sono i particolari, come il cielo alpino intriso d’acqua, il verde tenero dei prati, l’ordine obbediente degli animali; e quel tenero gesto di Maria che protegge con il volto il bambino addormentato…
Sacro Cuore e body art
Festa del Sacro Cuore di Gesù. Una festa d’altri tempi (forse), in realtà è una festa che (perdonate l’impertinenza, ma è per farmi capire) precorre la body art. Il cuore non è affatto metafora, è cuore di carne a tutti gli effetti. È richiamo persino brutale alla fisicità di Cristo. Non è un caso che la prima immagine del Sacro Cuore venne dipinta da Pompeo Batoni per la chiesa del Gesù di Roma su supporto di rame, perché fosse più agevole da rimuovere nel caso fossero arrivate reprimende ecclesiali. Era culto e immagine borderline, che poi ha conquistato come pochi altri un successo a livello di fede popolare oltre che tutti i crismi dell’ortodossia. Nella rappresentazione il Sacro Cuore appare sempre infiammato: infiammato perché destinato a infiammare il cuore di se ne lascia “toccare”. Ma non solo. Un contagio che toccò anche Lucio Fontana alle prese con questo soggetto per una grande ceramica oggi su un altare della chiesa di San Fedele di Milano. Mi ha sempre colpito quella grande pala dei nostri giorni, con la visione di Santa Margherita Alacoque (1673) da cui è nata la venerazione del Sacro Cuore. È ceramica infiammata da quell’impeto ingenuo e insieme geniale che caratterizza il Fontana scultore. Ci sono due particolari della storia di Santa Margherita che mi hanno sempre colpito. Il primo è che apparendo, Gesù aveva invitato la ragazza a riposare posando la sua testa sul suo petto; la seconda che il cuore che Gesù mostra è il suo ma è anche quello di Margherita: «Chiestole quindi il cuore… glielo restituì infuocato del medesimo incendio e per tutta la vita arse di quel fuoco…». Di chi è allora il cuore nelle mani di Gesù?