Andy Warhol è davvero un artista infinito. Ne ho avuto conferma un’altra volta vedendo la mostra in corso a Roma, alla Galleria d’Arte Moderna, sul suo rapporto con i giornali. L’hanno chiamata Headlines, ed è il “titolo” più giusto perché con la sua genialità elementare Warhol vede in questo elemento il punto chiave dell’informazione giornalistica: che al titolo affida l’immediatezza per affondare nella sensibilità dei lettori e attorno al titolo costruisce la propria struttura architettonica. In che senso Warhol è infinito? Perché è un artista che non si smette mai di scoprire e di conoscere. È un artista da cui continuano a scaturire cose nuove: non nel senso feticistico dell’inedito, bensì nella novità della prospettiva che spalanca. Il che è molto più interessante. La mostra di Roma è di grande impatto, imperniata sul quel grande trittico del Fate presto (titolo del Mattino di Napoli all’indomani del terremoto in Irpinia). Al centro del Trittico c’è la versione serigrafata bianco su bianco del prima pagina del Mattino, che rappresenta uno slittamento della cronaca verso quel luogo enigmatico che è il passaggio tra vita e la morte. Lo si guarda con il fiato sospeso, per la purezza, e per quella consistenza un po’ amniotica. Ma intanto nel percorso siamo passati per il primo celebre lavoro sul Daily Mirror: “129 dead in jet” del 1962: non ancora serigrafia, ma dipinto, quadro di dimensioni “urlate”, in cui i caratteri del titolo assai più che l’immagine diventano insieme messaggio e struttura. Assoluta elementarità che sprigiona un’energia comunicativa quasi primordiale. Come avrebbe spiegato in altra occasione Warhol, non era tanto il fatto che lo interessava, bensì l’artificio attraverso il quale il fatto diventa un’operazione di gestione della psicologia collettiva.
Di una bellezza e di un’intelligenza sorprendenti è la cartella realizzata all’indomani dell’assassino di John Kennedy: dispacci di agenzia riscritti e scanditi con il ritmo angoscioso delle notizia che scivolano verso un epilogo senza ritorno, alternate a straordinarie immagini virate in diverse monocromie. E Warhol spiega appunto di concepire questa sua operazione per liberare l’America dalla tristezza in cui era rimasta come schiacciata dalla morte di Kennedy. Poi appunto, il Trittico napoletano, che era stato preceduto mesi prima da un primo esaltante contatto con la città, su invito di un grande gallerista insieme a Beuys. Allora Warhol aveva affidato una piccola poesia, pubblicata proprio dal Mattino, un suo pensiero su Napoli: «Amo Napoli perché mi ricorda New York, specialmente per i tanti travestiti e per i rifiuti per strada. Come New York è una città che cade a pezzi, e nonostante tutto la gente è felice come quella di New York. Quello che preferisco di più a Napoli è visitare tutte le vecchie famiglie nei loro vecchi palazzi che sembrano stare in piedi tenuti insieme da una corda, dando quasi l’impressione di voler cadere in mare da un momento all’altro…».
Buono il catalogo Electa, completo e con una copertina felice. Solo due appunti volanti: il Trittico Fate presto presentato su tre pagine divise: quell’opera è un tutt’uno che non va “spaccato”. E la cartella su JFK che avrei impaginato così com’è stata esposta: rende molto di più il ritmo che Warhol aveva in testa.
Mostra vista in compagnia di Alessandro e Bea, intelligenti e complememtari nelle loro osservazioni. Con Bea ho capito meglio la funzione strategica del bianco e del nero nel Trittico, con Ale ho scoperto che quella prima pagina del Mattino aveva rappresentato un qualcosa di storico nel nostro giornalismo, con il direttore Roberto Ciuni che aveva sguinzagliato i giovani sulle zone del disastro, lasciando in panchina i vecchi inviati. Evidentemente Warhol ci aveva visto giusto anche in questo.