Sotto il titolo (molto bello) “Christo, transiti sull’acqua per cucire l’utopia”, è uscita una mia recensione alla mostra bresciana dedicata ai progetti d’acqua di Christo. Oggi inizia la settimana di The Floating Piers: appuntamento a cui guardiamo non sensa emozioni…
Se migliaia di persone sono annunciate per avventurarsi a percorrere le attesissime Floating Piers, le passerelle galleggianti, che dal 18 giugno Christo distenderà sulle acque del Lago d’Iseo, ben più sparuto è il pubblico che si incontra tra le sale di Santa Giulia a Brescia, dove è ospitata una magnifica mostra dedicata a tutti i progetti realizzati sull’acqua dallo stesso Christo (Water Projects, sino al 18 settembre; catalogo Silvana). La mostra è azzeccata perché perfettamente complementare alla grande installazione che unirà la costa bresciana alle due isole di Montisola e San Paolo. Sulla passerella si sperimenterà il «miracolo» di camminare sulle acque, in mostra si scoprono invece i meccanismi che regolano questi come gli altri «miracoli» di Christo. Non è uno svelamento inopportuno, come quello di chi ti rivela il finale di un film, è un’occasione per una comprensione più profonda e non meno empatica.
La mostra bresciana, curata da Germano Celant, è un percorso attraverso i Water projects realizzati da Christo e da sua moglie Jeanne-Claude, morta nel 2009. Ci sono grandi plastici che rendono bene l’idea, anche fisica, di questi interventi su contesti naturali. Ci sono in particolare i disegni progettuali che Christo realizza e con i quali finanzia le sue imprese (o meglio le «loro» imprese perché l’artista si concepisce ancora come un unicum creativo con sua moglie: oggi sta realizzando solo idee concepite insieme a lei). Sono disegni evidentemente funzionali a studiare soluzioni e a visualizzare le modifiche che gli interventi comporteranno in quei contesti. Ma sono soprattutto delle palestre dove Christo libera le proprie visioni, quasi volesse cercare di stabilizzare delle situazioni che per sua scelta sono invece sempre strettamente temporanee.
In questi disegni (la selezione in mostra è di qualità altissima) c’è dunque un oltranzismo visivo, una dilatazione di orizzonti, un’arditezza di prospettive che restituiscono la vertigine e l’audacia dei suoi interventi. Spesso accade che il disegno sposi anche i materiali dell’installazione e si trasformi così in collage, in immagine che si «auto impacchetta» creando dei corti circuiti affascinanti: quasi incroci tra Burri e Diebenkorn.
La mostra, che nella prima sezione documenta gli inizi della coppia Christo e Jeanne-Claude, dall’esordio nel 1961 al porto di Colonia con Stacked oil barrels, barili di petrolio ammucchiati a formare delle strutture, decolla nel momento in cui tocca l’acqua. Il primo atto è stato Running Fence e ha rappresentato un momento emblematico: infatti nell’immaginazione di Christo e Jeanne-Claude l’infinita barriera di tessuto che avrebbe attraversato per oltre 39 km le colline dell’entroterra californiano usciva dalle acque dell’oceano, proprio come se l’opera avesse una natura simile a quella di una creatura mitologica. Ci vollero quattro anni, tra 1972 e 1976, per realizzare quell’installazione, gran parte spesi per superare problemi burocratici, per strappare permessi e convincere i proprietari dei terreni del fascino del progetto.
L’arte di Christo e Jeanne-Claude è infatti un’arte che si gioca tutta tra slanci visionari e utopici, è un lavoro paziente e quasi monacale di cucitura. Innanzitutto la cucitura fisica e concreta degli immensi tessuti che sono materia prima di ogni loro intervento, ma anche la cucitura metaforica di tutti i soggetti diversamente coinvolti. Per quanto a volte sia destabilizzante nelle forme che assume, l’arte della coppia è sempre frutto di una ricerca paziente di consenso per ottenere quello spazio di libertà senza condizionamenti, che è la chimica base delle loro installazioni. Per Christo e Jeanne-Claude non deve esserci limite all’utopia, e per questo non agiscono attraverso strappi o provocazioni ma al contrario con un’opera a volte sfinente di convincimento.
Per garantirsi questa libertà hanno messo a punto un modello economico che li ha sempre resi autonomi da qualsiasi soggetto esterno, anche «alleato»: quindi niente sponsor e niente finanziamenti pubblici. Come scrive Celant nell’introduzione al catalogo la loro è «l’affermazione di un’organizzazione autogestita e autofinanziata stabilita sin dal 1961, un tentativo di rifiutare l’inclusione in gruppi e tendenze, per affermare la propria identità».
Altra ricaduta decisiva di questa ansia utopica è la provvisorietà delle loro opere. Sono tutti interventi rigorosamente a tempo, destinati a essere cancellati a una data prefissata: gran parte degli interventi (come anche The Floating Piers) si regolano su una sorta di misura aurea di sedici giorni. In questa scelta Celant vede «una presa di distanza dall’establishment che domina il sistema istituzionale dell’arte, nonché il suo mercato, che sostengono un tipo di circolazione dell’oggetto a sfavore dell’idea e del risultato pubblico e sociale». I disegni, che seguono le logiche di mercato e che sono la risorsa attraverso cui Christo finanzia i suoi progetti, sono quindi in realtà come schegge di un’utopia che un giorno si è concretizzata e che sopravvive nella forma di queste carte piene di slancio visionario.
La mostra ci fa accarezzare la dimensione di queste utopie attraverso dei grandi plastici che rendono in modo più fisico i dettagli e il fascino spiazzante delle installazioni. Come accade per quello che forse è il più bello e il più liberamente poetico di tutti gli interventi concepiti dalla coppia, cioè Sorrounded Islands, realizzato nella baia di Miami tra 1980 e 1983. In quel caso undici piccole isole sono state circondate da 690mila mq di propilene rosa fluttuante sulle acque, esteso per 61 metri dalle coste. «Sono le nostre ninfee di Monet», disse Christo. Ninfee utopiche, immensi fiori galleggianti, che gli automobilisti o i passeggeri dei treni potevano vedere dai ponti che attraversano la baia e che la barche potevano solo accostare. Sul tessuto potevano «atterrare» solo gli uccelli, che finivano con il creare ulteriori movimenti leggeri, quasi imprevista rivincita della natura, in quel contesto così violentemente e anche volgarmente antropizzato.
Naturalmente se l’esito è sempre semplice e fruibile, il backstage degli interventi di Christo e Jeanne-Claude è di una complessità impressionante. Ce ne si rende conto nell’ultima sala dedicata all’installazione in fieri sul lago d’Iseo, utile premessa all’esperienza delle passerelle galleggianti, che saranno aperte e «camminabili» dal 18 giugno al 3 luglio. Qui, oltre ai grandi disegni progettuali, oltre al plastico che rende le dimensioni e soprattutto restituisce le studiatissime geometrie dell’intervento, sono esposti i dispositivi concreti che rendono possibile un’installazione che vuole portare chi la prova sulla soglia del sogno. Sono le ancore, le asole studiatissime dei tessuti, i ganci, le grandi viti che tengono legate le boe permettendone però i movimenti. Sono le cuciture provate sull’immenso tessuto giallo-sole che rivestirà gli oltre tre chilometri della passerella. Tutti dettagli a cui Christo guarda in modo scientifico ma anche con una sorta di devozione e riconoscenza e che vengono esposti non solo come «cimeli» ma quasi rivendicandone una forza estetica.
L’arte della coppia bulgaro-francese (erano nati lo stesso giorno, il 13 giugno 1935, uno a Gobrovo, l’altra a Casablanca ma da genitori transalpini) è arte nata dalla determinazione con cui inseguono una loro idea, senza mai piegarla a condizionamenti. Ma è anche arte che vive come fenomeno collettivo, come movimento sincrono di grandi squadre di persone che mettono in campo le loro competenze, ma che in qualche modo partecipano e si lasciano permeare dall’essenza poetica di quell’idea. Anche in questo Christo e Jeanne-Claude si sono sempre posti come straordinari cucitori, come maestri di un’orchestra i cui suoni sono costituiti dall’agitarsi dei colori, come pure dai movimenti dell’acqua e del vento.
Ultimo soggetto dell’orchestra è il pubblico chiamato a vivere, anzi a toccare le loro installazioni («sono esperienze tattili», dice Christo). È il pubblico il destinatario di questi «sconvolgimenti gentili del contesto che ci viene dato in prestito» (parole dell’artista). È il pubblico che sul Lago d’Iseo sperimenterà fisicamente una dimensione di bellezza («A tema delle nostre opere c’è sempre la bellezza. La bellezza ha bisogno di situazioni uniche, in un certo senso inimmaginabili. È questo che noi cerchiamo nella vita»). Una bellezza «in transito» che alla fine vivrà nella forma di un alone, di una scia visiva, di un’impronta nella memoria, quasi di uno struggimento.