Robe da chiodi

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La tela, una geometria attiva

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Per il catalogo della mostra Arte e architettura curata da Massimo Ferrari e Claudia Tinazzi alla Casa del Mantegna di Mantova (sino al 12 giugno) ho scritto questa riflessione. il catalogo è impaginato e stampato, benissimo, da Corraini.

Qual è la prima cosa con cui un pittore fa i conti nel momento in cui si mette davanti alla superficie che attende di essere dipinta? Leon Battista Alberti in quel breve, celebre inciso nel trattato Della pittura, dimostra di aver idee chiare. Così chiare da sembrare quasi un’ingiunzione. Scrive l’Alberti: «La prima cosa nel dipingere una superficie, io vi disegno un quadrangolo di angoli retti grande quanto a me piace, il quale mi serve per un’aperta finestra dalla quale si abbia a vedere l’istoria». Quindi la prima cosa (o la cosa che viene prima?) è quello spazio concreto – tela, tavola, porzione di muro – che l’artista si trova davanti. Uno spazio con coordinate che esistono prima di ogni pensiero, e che si innestano sui pensieri fondativi dell’immagine. Le linee che delimitano lo spazio non semplici componenti tecniche, ma sono fattori che entrano nel gioco. Sono una geometria attiva, con cui l’artista si trova a che fare in ogni passo della composizione. Attiva, in quanto nell’apparente sottrarsi da ogni altra funzione che non sia quella di contenitori neutri dell’immagine, in realtà trasmettono energia. Mandano impulsi continui, rappresentano linee di forza, in particolare grazie all’asimmetria delle rispettive misure. Non è un caso che gli artisti fatichino sui formati quadrati: in quei casi le dimensioni si neutralizzano e si rischia la calma piatta sulla tela (il quadrato è invece il formato perfetto per i “monocromisti” che devono cercare l’annullamento di ogni dialettica dentro lo spazio pittorico: vedi il Quadrato nero di Malevich, 1915).

Tutto questo per sottolineare come il primo problema con cui un pittore si trova a che fare è un problema di ordine architettonico. Se ci si sottrae da questo primo terreno di battaglia il quadro rifluisce in un esercizio di stile, in performance espressiva; nel peggiore dei casi in illustrazione. Ne sa qualcosa uno come Edouard Manet, uno “nato pittore”, con la grazia del colore e della materia che gli fluiva meravigliosamente, senza bisogno di sforzi, dalle mani. Una grazia “tentatrice” che lui per primo sapeva di dover tenere sotto sorveglianza. In uno dei suoi capolavori, uno dei grandi quadri dell’800 europeo, Le Balcon (1868), Manet ingaggia una vera battaglia con le linee ortogonali della tela. Impagina il quadro, tracciando una geometria decisiva con gli incroci di linee verticali (le persiane verdi delle finestre) e orizzontali (la ringhiera del balcone), per arrivare a liberare la magica area centrale: quell’interno buio, che neanche il sole abbagliante di una piena estate riesce a perforare. È quel buco-tomba da cui il protagonista fuoriesce, come notò Georges Bataille, quasi novello Lazzaro.
Manet è il primo grande artista moderno che ha coscienza di come la pittura sia arrivata alla fine di una lunga stagione. E come quindi lui, artista, non potesse più contare sull’illusione che la tela avesse una terza dimensione. Secoli di pittura avevano costruito la loro fortuna e grandezza, su questo sfondamento spaziale che per primo Giotto aveva concretizzato in potente realtà visiva. Poi, l’energia intellettuale che aveva generato la necessità e la credibilità di quella soluzione si era svaporata, ed è era rimasta solo come effetto scenografico, a volte anche iperbolico e affascinante (la migliore pittura del 700 europeo la si può leggere in questa chiave).

Manet, che pur aveva tutte le qualità per tessere altre iperboli pittoriche, è invece il primo a costringersi dentro un nuovo rigore. Accetta l’arretramento nella bidimensionalità, per cui le linee di confine del quadro riprendono ad emettere input potenti. Non si sottrae al dato di fatto della piattezza della superficie su cui lavora. Semmai la trasforma in un sovrapporsi di visioni come per un rimbalzo di specchi, con geometrie sotto controllo ma immagini dagli equilibri e dai rapporti del tutto disorientanti.
Il capolavoro di Manet, come si è detto, ha come epicentro compositivo e “drammaturgico” una finestra. Rispetta perciò alla lettera l’indicazione di Leon Battista Alberti. Il quadro è dunque il corrispettivo di una componente architettonica, con in aggiunta un delicato problema cui tener testa: la provenienza della luce. È Matisse il primo a coglierlo con sistematicità, in tutta la sua portata, con un ribaltamento coerente che fa della tela/finestra la fonte luminosa. La luce non è più alle spalle, o dalla parte di chi dipinge, ma viene dall’altra parte, sta dalla parte della tela. È quello il luogo generativo, che illumina anche lo spazio in cui il pittore si è sistemato (che ci fosse curiosità di indagare attorno a quel mistero nella violazione poetica e sistematica che Lucio Fontana ne avrebbe fatto con i suoi tagli?)
Così quel piccolo oggetto architettonico, porzione di spazio piatto, sigillato nella sua ortogonalità (ortogonalità magari rinforzata anche dalla crociera posteriore), svela tutta la sua natura fantasmatica e potente. Che è stringente ma non deterministica. Anzi, innesca la libertà del pittore, e lo chiama a realizzare quello che Guillaume Apollinaire descrive con parole impagabili: «La finestra si apre come un’arancia incantevole frutto della luce».

Written by gfrangi

Maggio 30th, 2016 at 6:12 pm

Immaginando il Mantegna estremo

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La mostra di Mantegna a Parigi si chiude naturalmente con l’ultimo capitolo della parabola del grande Andrea. È un capitolo drammatico, quasi punteggiato di angoscia. C’è tra l’altro uno straordinario risvolto aneddottico: Mantegna aveva scelto la cappella di San Giovanni Battista, nella colossale chiesa mantovana di Sant’Andrea, come luogo della propria sepoltura. Nell’atto di concessione datata 11 agosto 1504 si dà via libera al pittore di recintare all’esterno della cappella una piccola zona di terreno, per ricavarsi uno spazio dove costruirsi una cella e poter meditare vicino a luogo che ne avrebbe accolto le spoglie per il resto dei tempi. Nel contratto si dice che a Mantegna era concesso di coltivare, su quel fazzoletto di terreno, anche un orto. Insomma, lì ci viveva, la tomba diventa già la sua casa: una scelta in cui anche la biografia sembra allinearsi, sintonizzarsi alla grandezza creativa di Mantegna.
battesimo Vien da immaginarlo, meditare solitario sul suo declino, sul venire meno delle forze che gli avevano permesso per tutta la vita di tenere teso sino allo spasimo l’arco della propria energia creativa. Ciò che mi affascina di Mantegna è questa sua oltranza espressiva, a volte così determinata feroce da farcelo sentire straordinariamente contemporaneo. È un artista sempre ad altissimo voltaggio mentale: per questo emoziona il pensarlo in quei mesi di rapido declino sentire l’affievolirsi progressivo del segnale creativo, con la mano che trovava dietro di sé input sempre più flebili e offuscati.

Lo straordinario Battesimo per la cappella di San Giovanni Battista nella sua magrezza quasi scheletrica è un quadro fantasma, un lacerto fantastico, con quell’idea del dialogo teso tra Giovanni e Gesù e la figura misteriosa in primo piano con secchiello e corde. La vita sfiancata, vien meno, e intanto il grande Andrea se ne stava lì fuori, nella celletta improvvisata a familiarizzare con il proprio sepolcro.

Written by giuseppefrangi

Dicembre 14th, 2008 at 9:36 pm

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