Robe da chiodi

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Mostre 2016, la mia classifica

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Un bilancio di un anno di mostre, con pochi spostamenti e tanti “vuoti”. Mi manca il nuovo allestimento della Galleria Nazionale di Cristiana Collu, che intuisco pieno di magie. Credo sia indimenticabile la sala manzoniana della mostra di Isgrò nella sede staccata di Casa Manzoni a Milano. Mi resta impressa l’emozione della mostra di Andrea Di Marco in coppia con le foto di Ghirri. Ci sarebbe voluto posto anche per Mondino a Villa Croce. E per la sorpresa di Antonio Calderara a Lugano. Comunque sia questa è la mia classifica 2016.

1.Bacon a Montecarlo. Personalmente la mostra dell’anno. Un senso di grandezza che ormai è raro respirare. Bacon è un artista sovrastante, che attraversa il suo mezzo secolo senza mai venire a patti con niente e con nessuno. Una forza ancora intatta, che esplodeva negli spazi dilatatissimi e fieristici del Grimaldi Forum.

2. Sigmar Polke a Palazzo Grassi a Venezia. In un certo senso è l’opposto di Bacon perché è un artista che può declinare la sua grandezza fagocitando ogni stile. Un artista per questo imprendibile, libero da ogni definizione. Linguisticamente splendido ed enigmatico.

3. De Chirico, gli anni ferraresi, al Palazzo dei Diamanti. Impressionante la sequenza di opere serratissime e concentrate su un unico problema degli anni dieci nella sua Ferrara. De Chirico mette sul tappeto quelle che saranno le questioni di un intero secolo. Il senso di un artista futuribile, reso da una selezione quasi completa dei lavori di quei tre anni “in apnea” creativa.

4. Christo a Brescia. È stato l’anno di Christo con la magia di The Floating Piers. La mostra dedicata ai suoi progetti sull’acqua o che hanno avuto l’acqua come oggetto è stato un modo complementare e intelligente di accompagnare il grande evento. Mostra dal percorso affascinante in cui spiccavano le grandi tavole progettuali di Christo, veri gioielli capaci di travalicare la dimensione progettuale.

5. L’accoppiata delle mostre concepite da Guido Beltramini a Venezia (Aldo Manuzio) e Ferrara (Orlando Furioso). In entrambi i casi si tratta di mostre concepite imperniandole su una vera sceneggiatura. Il visitatore si muove come dentro una rappresentazione scenica, con un copione che si snoda senza falle. La forza di questo modello di mostre è la capacità di stabilire nessi che allargano la scena. L’aldina con la prima messa a stampa delle Georgiche di Virgilio ha come “nesso” la nuova visione del paesaggio di Giorgione.

6. L’Image Volèe alla Fondazione Prada. Mostra, o meglio metamostra, perché mette a tema il rifluire dell’arte dentro l’arte. Percorso raffinato, ritmato alla perfezione da Thomas Demand. A ben vedere la mostra alla fine si è rivelato una sua opera d’arte, una spettacolare installazione a firma sua.

7.Armin Linke al Pac. Altra mostra molto installativa, che dialoga quasi con venerazione con lo spazio che l’ha accolta. Linke non tocca i muri di Gardella, ma usa lo spazio come luogo di transito, allestendo le opere come nella provvisorietà di un atelier. Il tema è ciò che non si vede, ciò che sta dietro la scena. Allestimento concettualmente perfetto rispetto al tema.

8. Perugino e Raffaello a Brera. Mostra minima, perché costituita di un quadro (il Perugino arrivato da Caen) e dal capolavoro “clonato”, lo Sposalizio di Raffaello. Mostra minima, ma mostra modello di come si possa fare un’operazione intelligente e anche attrattiva spostando un solo quadro. Una mostra che segnala anche la resurrezione di Brera, uno degli eventi espositivi di quest’anno.

9. Kentridge da Lia Rumma a Milano. Come per Christo è una mostra di appoggio per l’installazione realizzata lungo i muraglioni del Tevere a Roma. Un artista capace di grandi narrazioni, di un respiro epico e corale, pur nella singolarità a volte eclettica dei suoi linguaggi.

10. Le sculture del Sacro Monte a Casa Testori. Altra mostra minima, con due sole opere, ma con un doppio impatto. Emotivo, perché le due sculture gaudenziane arrivavano nella casa di colui che le aveva scoperte. Critico, perché ha permesso un ragionamento ravvicinato su quel capolavoro enigmatico che è la statua del soldato: in partenza data a Gaudenzio, oggi invece messa in dubbio.

Written by gfrangi

Dicembre 31st, 2016 at 4:25 pm

Iper Bacon a Montecarlo

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Vista la mostra di Francis Bacon al Grimaldi Forum di Montecarlo. Certamente, fino a questo punto, la mostra più bella dell’anno.
Oltre settanta opere, alcuni confronti molto pertinenti (Soutine e Giacometti, Picasso, un meraviglioso Rodin), un filo conduttore un po’ sciovinista ma che alla fine dimostra di tenere: il rapporto privilegiato di Bacon con la Francia.
Tra 1946 e 1949 aveva soggiornato a Monaco insieme a quello che era stato oltre che un suo amante anche uno dei suoi primi collezionisti. Sono anni cruciali, all’indomani di quello straordinario e spossante capolavoro che è Painting 1946, oggi al Moma di New York (che lo comperò già nel 1948…, prima sua tela a entrare in un museo): uno dei grandi quadri del 900. A Montecarlo però non c’è il Bacon museale. C’è il Bacon custodito dai grandi collezionisti privati di tutto il mondo, in molti casi collezionisti della prima ora. Quadri che non si vedono mai, alcuni addirittura inediti, come lo straordinario Study of bull dipinto nel 1991 e dedicato a Michel Leiris, il grande critico e curatore della mostra parigina del 1971, morto in quell’anno.

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Allestita in grandi spazi, con un respiro che è adeguato alla grandezza fisica e qualitativa delle opere, la mostra è una di quelle che non si dimenticano facilmente. Si segue un percorso che ha punti fermi (la violenza della pittura come riflesso della violenza della vita), ma che attorno a questo punto fermo si muove con oltranzismo e anche spesso con sperimentalismi (ad esempio, la peluria che Bacon a volte lascia, togliendo colore con uno straccio dove ha dipinto il corpo umano).
La forza di Bacon, visto nel suo insieme, è nel saper sempre spingere la tensione delle immagini e delle forme, al punto da far passare in secondo piano tutte le questioni stilistiche. D’altra parte il suo è il più grande atto di fede nella pittura di tutto il 900, perché scatena la pittura all’inseguimento del mistero della carne dell’uomo, in una stagione della storia in cui sul destino dell’uomo e della carne di cui è fatto, incombono rischi drammatici. È pittura che mentre implode in quel mistero sa guardarsi anche da fuori, dotarsi un’intelaiatura potente che ne garantisce sempre una piena intelligibilità (le famose gabbie di Bacon, che si generano dall’architettura della grande sedia che “ingabbia” l’Innocenzo X di Velazquez, presente in mostra con una copia francese ottocentesca). Qui sotto un dettaglio di Head IV, 1949: si vede il doppio gioco tra la memoria della sedia di Velazquez e la gabbia che Bacon ne ricava.

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La dichiarazione più intensa ed esplicita di questo atto di fede nella pittura è nel lavoro che Bacon fa attorno al quadro di Van Gogh (L’Autoritratto sulla strada di Tarascona, distrutto a Berlino dalle bombe della seconda guerra mondiale). In mostra sono presenti due varianti di questo lavoro, tra cui l’ultima (foto sopra). In questa serie Bacon si concede alla pura istintività vangoghiana, lascia che la composizione vada d’impeto. L’ultima versione si traduce in una sorta di incendio, folgorante, di un’intensità indimenticabile. In mostra “buca” da lontano lo spazio buio che contrassegna la prima sezione. Quel quadro sembra metafora della ambivalenza della pittura: che divora ma chiede a sua volta di essere divorata. Uno scambio furioso. Un quadro che è come avventurarsi in un roveto ardente, per intensità e per luminosità.
Alla fine della mostra resta impressa la sensazione di aver avuto davanti agli occhi qualcosa che incorpora una dimensione di vastità. Vastità come larghezza e anche come profondità. Vastità come espressione fisica e visibile della grandezza. Vastità che consiste in Bacon nell’osare ad oltranza, chiedendo alla pittura qualcosa che travalica la pittura stessa.

La mostra dura solo sino al 3 settembre. Poi si sposta modificata al Guggenheim di Bilbao. L’occasione è data anche dalla pubblicazione del monumentale catalogo ragionato a cura si Martin Harrison (cinque volumi, 1400 euro). Il catalogo della mostra, edizioni Albin Michel, è ricco, peccato che non si siano fatte schede delle opere e che l’elenco di quelle esposte non sia completo.

Written by gfrangi

Luglio 17th, 2016 at 5:31 pm