Robe da chiodi

McDonald's al Louvre, Gioconda e patatine

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McDonald’s sbarca al Louvre. Dove sta lo scandalo? Il più grande museo del mondo fa otto milioni di visitatori all’anno. Cioè 26mila al giorno. È diventato fenomeno più di massa di un centro commerciale. Una volta che s’è messo su questa dimensione, aprire le porte ad altri marchi di massa è diventata quasi una formalità. McDonald’s, dopo Starbucks s’è posizionato nei grandi spazi aperti sotto la Piramide di vetro. Sarà Gioconda e patatine: ce ne faremo purtroppo una ragione. È l’omologazione, bellezza.

Per consolare gli inconsolabili ho pensato a questo gioco: passare in rassegna tutti le più belle (e un po’ selettive) caffetterie dei musei, andando a memoria mia. La preferita, per me, è quella di Palazzo Madama a Torino. S’affaccia con grandi vetrate sulla piazza, ha belle poltrone, è poco frequentata, si fa forte dell’arte pasticcera sabauda. Segue la caffetteria degli Uffizi, certo meno tranquilla, ma con spettacolare terrazza su Palazzo Vecchio. Strepitosa anche la terrazza di palazzo Caffarelli, ovvero del bar dei Musei Capitolini a Roma (quando non è affittata per cerimonie private). Sempre a Roma, a piano terra, ma con soffitti alti 10 metri è la caffetteria del Museo nazionale d’arte Moderna. Milano si salva con il bar-design della Triennale, affacciato sul parco. Venezia soffre gli spazi angusti ma al Museo Correr c’è un angolo di caffè di sapore settecentesco. Di nuovo a Torino, fa la sua bella figura il bar lungo, appoggiato nel verde al museo di arte contemporanea di Rivoli. Capodimonte a Napoli e i Vaticani a Roma, sono da bocciare. Non apro il file dei musei esteri, perché non è sufficientemente aggiornato: ma ricordo l’emozione al Kunsthistorisches di Vienna dove si mangia e si beve avendo Caravaggio a un tiro di schioppo.

(A Brera, museo magico, amato ma un po’ abbandonato a se stesso, non si può bere un caffè. Chi tutto e chi niente… Sbarcasse Starbucks tirerebbe su il morale a tutti…)

Ma ora dite la vostra!

Brunelleschi, bevendo un caffé agli Uffizi

Brunelleschi, bevendo un caffé agli Uffizi

Written by giuseppefrangi

Ottobre 6th, 2009 at 11:39 pm

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Caravaggio-Bacon, qualche pensiero eretico

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Visto che l’immenso battage della mostra romana alla Galleria Borghese si sta traducendo come previsto in un moltiplicatore di banalità via stampa e tv, vi rimando a una riflessione fatta per degli amici. È solo l’inizio di un pensiero da sviluppare.

Written by giuseppefrangi

Ottobre 2nd, 2009 at 10:28 am

Beato Angelico, e noi pensavamo che fossero fiori…

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Ti sembra di averli guardati a sufficienza e invece non li hai mai guardati abbastanza. L’altro giorno leggendo un affascinante libro appena tradotto in italiano (Abscondita, 2009; ma il libro è del 1990) di Georges Didi-Huberman dedicato a Beato Angelico ho scoperto che nell’affresco bellissimo del Noli me tangere a San Marco, i fiori del prato non sono buttati lì per caso. Lo studioso francese si è incuriosito dal modo con cui Beato Angelico li aveva dipinti: «sono macchie, più o meno regolari, fatte con il bianco di San Giovanni e, al di sopra, con il rosso. È un colore vivace, una terra rossa, che produce sulla parete leggerissimi rilievi; l’effetto ritmico di scansione ne risulta accentuato». Un modo strano di dipingere i fiori, nota Didi-Huberman. Che poi nota come anche le stimmate sul piede di Cristo appoggiato su quel prato, siano dipinte «esattamente alla stessa maniera». Continuando l’osservazione nota che i fiori sono a gruppi di cinque, proprio come le stimmate. Beato Angelico opera quello che Didi-Huberman definisce uno «slittamento del segno iconico». Cioé «posso senz’altro affermare che le stimmate di Cristo, secondo il BA, sono i fiori del suo corpo». Ma altrettanto legittimamente si potrebbe affermare che «Cristo è qui rappresentato nell’atto emblematico di “seminare” le sue stimmate nel giardino del mondo terreno».

bapiedi

La cosa mi sembra di per sé stupefacente, per la poesia che evoca. Ma c’è un’altra sottolienatura che mi sembra ancora più importante: è stupefacente l’intelaiatura concettuale che regge questi capolavori del nostro passato. Nulla è a caso. Il problema è che il nostro sguardo è viziato dall’istintività e non sa più affondare nella verità di queste immagini. E questo accade anche se lo sguardo è di simpatia o di sintonia religiosa con le immagini che guardiamo.

Written by giuseppefrangi

Settembre 28th, 2009 at 10:37 pm

Il cardellino in bilico di Hokusai

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hokusai-cardellino-e-ciliegio-piangenteSentite questa. Un mio caro amico si reca a vedere la mostra di Monet a Milano e resta un po’ stranito davanti a un’opera di Hokusai, Cardellino e ciliegio-piangente, xilografia policroma del 1834. Gli sembra che non sia appeso nel senso giusto perché il cardellino è in equilibrio precario, non si capisce come possa stare in quel modo sul ramo («sembra un acrobata in bilico su un filo; ma cardellino mica fa l’equilibrista»). Incuriosito va a sfogliare il catalogo e vede che in effetti è riprodotta come a lui sembra più naturale. Decide di togliersi una soddisfazione e chiede alla custode di quella sala se nessuno ha notato niente di strano in quell’opera di Hokusai. Lei risponde che in effetti è vero ma che mancano pochi giorni alla chiusura e quindi  raddrizzarlo adesso suonerebbe un po’ come una beffa. E aggiunge: « Se è per questo, avevano anche appeso al contrario un grande quadro  di Monet quello con le nuvole che si riflettono nell’acqua sotto le ninfee. Avevano messo l’acqua al di sopra, pensando che fosse il cielo. Per fortuna se ne sono accorti subito».

Morale: il cardellino è nato così, appeso al niente, proprio dalla fantasia di Hokusai. Nel catalogo è stato riprodotto rovesciato (sciatterie a cui siamo purtroppo allenati). Il mio amico si è divertito e ha capito che l’occhio giapponese guarda al mondo con coordinate diverse dalle nostre. La custode si è tolta una piccola soddisfazione. Io forse ho capito che questo occhio galleggiante sulle cose è l’aspetto di Hokusai che più può aver interessato Monet.

(Purtroppo nella breve indagine ho scoperto anche una cosa orrenda: l’home page del sito della mostra ha un effetto che con il mouse fa agitare l’acqua delle Ninfee, e le fa sembrare tutte di gelatina. Non c’è limite al peggio).

Written by giuseppefrangi

Settembre 22nd, 2009 at 10:44 pm

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Bacon pittore clinico

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«Van Gogh? Lui si è avvicinato alla verità fin quasi a toccarla. Con i grandi artisti è sempre così: si tratta di una “approssimazione”. La pittura è un linguaggio a sé, una lingua a parte. Nessuno è capace di parlarne. E perché parlarne poi? Guardiamola piuttosto…». È una delle risposte di Francis Bacon a Franck Maubert, critico francese dell’Express. I dialoghi tra i due sono stati pubblicati ora in un libretto di Laterza. Manca l’asciuttezza quasi da interrogatorio di polizia propria delle interviste di Bacon a David Sylvester, ma ci sono spunti di sorprendente interesse e profondità.

La creazione. «La creazione è una necessità assoluta che fa dimenticare tutto il resto. Io non pensavo che mi sarei mantenuto grazie alla pittura, volevo solo chiarire delle cose con me stesso. La creazione è come l’amore, non ci si può fare niente. È una necessità. In quel momento, non si capisce come le cose accadano. L’importante è che accadano. Per se stessi e basta. Dopo ci si può divertire a trovare delle spiegazioni… Per  quanto mi riguarda, la pittura serve soprattutto a me stesso, se poi uno ci può vivere, tanto meglio».

Il realismo clinico. «Io volevo fare una pittura “clinica” nella mia accezione del termine. I più grandi oggetti artistici sono “clinici”. In inglese si dice clinical. Quando adopero la parola “clinico”, voglio indicare il realismo più assoluto. In effetti è impossibile parlarne». “Clinico” significa freddo? «Una sorta di realismo, ma non necessariamente freddo; è un atteggiamento, è come tagliare qualcosa. Ma è innegabile che in tutto ciò ci sia della freddezza e della distanza. A priori non ci sono sentimenti. E paradossalmente questo può provocare un enorme sentimento. “Clinico”significa essere il più vicini possibile al realismo, essergli vicini nella parte più profonda di sé. Il realismo è qualcosa che sconvolge».

Written by giuseppefrangi

Settembre 21st, 2009 at 7:10 pm

Hirst, scherzetti perfetti

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Qualche giorno fa i quotidiani si sono occupati dello scherzetto perfetto che un ragazzino inglese di 17 anni, noto solo con il soprannome di Cartrain, aveva fatto all’artista oggi più famoso (se la fama è da rapportare al valore delle oepre sul mercato) del mondo. L’artista è Damien Hirst, quello, per intenderdi che aveva messo uno squalo in formaldeide e che era stato lanciato negli anni 90 da Charles Saatchi. Cartrain ha violato il mito prima clonando l’idea di una sua opera famosa e miliardaria, “For the love of God”, un teschio tempestato di diamanti. Hirst lo aveva citato in giudizio, ottenendo la fine della perfomancce beffarda. Cartrain ha lasciato passare un po’ di tempo e poi ha consumato una vendetta nel suo stile: ha rubato le matite colorate di Damien Hirst, che eranmo state esposte come un’opera d’arte. Poi aveva affisso per Londra un cartello in cui minacciava di temperarle. La storia si è conclusa con l’irruzione degli agenti della squadra “arte e antichità” di Scotland Yard a casa di Cartrain per sequestrare l’oggetto del furto.

Dal provocatore e dissacratore Damien Hirst ci si poteva aspettare un atteggiamento diverso. Magari un po’ più di ironia. Così non è stato. Gli artisti sono ormai come star, prendere o lasciare.

Ma la storia non finisce qui, per fortuna nostra e di Damien Hirst. È di ieri infatti la prtesentazione della nuova mostra che l’artista inglese ha aperto in una città imprevista, Kiev, ospite di una fondazione la Viktor Pinchuk Foundation, che ha finalità sociali, in quanto si occupa del recupero di ragazzi border line e colpiti dall’Aids. Hirst ha annunciato di aver donato 400mila euro alla fondazione (il che può essere una operazione di marketing personale), ma, quel che più conta, ha montato una mostra che sgombra ogni equivoco sulla sua statura. Tra le sale c’è anche un trittico che fa sobbalzare dalla sedia chi sente il vuoto lasciato da un gigante dell’arte come Francis Bacon. Del resto era stato proprio Bacon, prendendo tutti in contropiede, a designare il giovanissimo Hirst, visto in una piccola galleria londinese, come suo erede. Ora si capisce quel che Bacon aveva visto in Hirst. Le vie dell’arte a volte sono complicate e piene di interrogativi, ma a volte per fortuna riservano grandi sorprese.

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Written by giuseppefrangi

Settembre 15th, 2009 at 11:35 am

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Strafalcioni michelangioleschi

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14035-martyrdom-of-st-peter-michelangelo-buonarrotiAvendo dovuto lavorare per un articolo giornalistico sul restauro della Paolina, mi sono trovato a toccare con mano la confusione di un libro di larga diffusione pubblicato da un editore accreditato. È la biografia di Michelangelo di Antonio Forcellino, uscita nel 2005 per Laterza. A parte l’estemporaneità molto arbitraria a livello di interpretazione delle opere e del personaggio (un Michelangelo spiritualista, cattolico dissidente, antipapalino: lui che era alla testa di tutti i più importanti e ricchi cantieri pontifici…), il libro ha errori, individuati persino da un occhio dilettante come il mio. Si dice che il restauro del 1930 contò 80 giorni lavorativi per i due affreschi della Paolina. Mi parevan pochi, nell’arco di sei anni. Sono andato a fare una verifica: sono 85 più 87. Si dice che Giotto nella predella del Polittico Stefaneschi, per “chiudere” lo spazio lasciato aperto in alto dalla Crocifissione di San Pietro (un problema compositivo per tutti gli artisti) escogitò la soluzione geniale di mettere due cavalieri che avanzano a coprire il vuoto. Nient’affatto: i cavalieri ci sono ma stanno in basso a riempire lo spazio già pieno dalle braccia aperte di Pietro. Sopra ci sono gli angeli e le sagome delle due piramidi: la piramide di Caio Cestio, già presunta tomba di Remo, e la meta Romuli, la piramide in Borgo distrutta nel 1496 e presunta tomba di Romolo. Pietro infatti, secondo una tradizione, era stato crocifisso sul Gianicolo e poi sepolto in Vaticano (l’ho scoperto leggendo un preciso articolo di Arnold  Nesselrath sull’Osservatore Romano). Giovanni Andrea Gilio, che criticò la Conversione di san Paolo per la sua idea più bella (Cristo «che par che si precipiti dal cielo con atto poco honorato»), viene presentato come monsignore, e non come il teorico censore che proprio nell’anno dlela morte di Michelangelo, il 1564, pubblicò il suo malevolo Dialogo degli errori de’ pittori per scatenare la polemica contro i nudi della Sistina. (Guardate che bello il particolare della Crocifissione di San Pietro).

Written by giuseppefrangi

Settembre 9th, 2009 at 6:48 pm

Mostre autunnali, di data e di fatto

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Un utile calendario sul sito di Repubblica elenca le mostre della prossima stagione. La crisi si sente: sono in gran parte cose in tono minore, che a volte sembrano rimediate per non tenere chiuse le sedi. C’è il confronto Bacon Caravaggio alla Borghese, ma mi sembra più una cosa per fare qualche fuoco d’artificio nel segno degli artisti da scandalo, che una cosa convinta. Rischia di essere uno schematismo facile, che ostruisce la comprensione dell’uno e dell’altro. Hopper a Milano è una mostra quasi da centro commerciale: del resto è stata lanciata in stile centro commerciale, con quei patetici manifesti con le foto dei fans dell’artista americano, attaccati in giro per la città. A Roma a Palazzo Venezia, per una mostra insulsa intitolata il Potere e la Grazia spostano addirittura il Van Eyck di Palazzo Madama a Torino: auguriamoci che sia solo un falso annuncio.

Provo a segnare le mostre che non perderei. 1. I disegni di Michelangelo architetto a Roma, ai Musei Capitolini. Se n’era vista una tre anni fa a Vicenza. C’è di mezzo il Museo Buonarroti. Sarà seria. 2. Calder a Palazzo dell Esposizioni: non lo amo, nella sua leggerezza un po’ gratuita ma s’ha da vedere. Mi confermerò nell’idea che in Melotti c’è infinitamente più poesia. 3. Gli Sforza a Vigevano. Non ne so molto, ma quanto meno è l’occasione per tornare dopo tanto tempo in una delle piazze più belle d’Italia. 4. Sarebbe poi bello andare sul Pollino a vedere le grandi installazioni di Kapoor, Penone e Höller. Ma ci van troppi chilometri.

Written by giuseppefrangi

Settembre 3rd, 2009 at 5:36 pm

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Bacon si lavava i denti con il Vim

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Dall’articolo di Barbara Briganti, su Repubblica, dedicato allo studio di Francis Bacon, 7 di Reece Mews (oggi ricostruito e conservato al Museo di Dublino):

«Delle sue tendenze omosessuali e sadomasochistiche non fece mai mistero. Del suo strano e anticonvenzionale narcisismo neppure. Sotto i pantaloni strettissimi ed il sempiterno giubbotto di cuoio nero, cimelio giunto a Dublino insieme al materiale dello studio, indossava a quanto pare calze a rete e biancheria femminile. Il volto, forse liftato, era pesantemente imbellettato, i capelli tinti con il lucido da scarpe e i denti, sempre secondo la leggenda accuratamente coltivata dell’ artista maledetto e fuori da ogni schema, lavati col vim. Questa era la mitologia, meticolosamente costruita, che aureolava Francis Bacon. Ne facevano parte l’aneddotica sul suo passato, gli amori tragici, le frequentazioni losche e le infinite provocazioni. Da questo punto di vista lo studio di Reece Mews, così come la Conversazione con Bacon, pubblicata da chi ha avuto la fortuna di poterla documentare, sono profondamente rivelatori della vera essenza del suo operato. O forse no».

Immagine 1

Qui era lo studio di Bacon a Londra (A).


Written by giuseppefrangi

Agosto 31st, 2009 at 9:42 pm

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Se Matisse fosse impazzito sarebbe stato Monet

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Vista la (bella) mostra di Monet a Palazzo Reale di Milano. Qualche considerazione.

Monet e i giapponesi. Chiaro che li amasse, chiaro che il parallelismo proposto nella mostra sia pertinente. Ma poi, se guardi gli esiti, ti vien da dire: che c’entrano? Monet  affonda (nel senso che va al fondo) laddove Hokusai e soci restano sempre rigorosamente sulla superficie. Monet è gestuale, mentre i giapponesi sono zen: non si vede un segno. E allora c’è da chiedersi: perché Monet sentiva oggettivamente tanta affinità. Vedendo la mostra e osservando le date mi sono fatto un’idea. Monet realizza questo suo straordinario forcing finale mentre in Europa ne accadono di ogni. Lui muore nel 1926, s’è visto passare sotto gli occhi i fauve, i cubisti, i futuristi, gli astratti, i surrealisti, i dada e Duchamp… Lui non ha fatto una piega, ma è naturale che cercasse riparo in un altro mondo. Il Giappone è il palcoscenico sul quale lui si sente perfettamente a suo agio a continuare un film che poteva sembrare anacronistico. Quasi un Aventino (ce ne dimentichiamo spesso: ma sino agli anni 50 il Monet ultimo non era affatto considerato. C’è voluta la rivolta rancida degli informali per far capire quanto avesse visto lontano).

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Monet e Matisse. È l’unico parallelismo possibile in quell’Europa travolgente di inizio secolo. Matisse è un altro artista positive-thinking. Non aveva grilli avanguardistici per la tesa: o quanto meno, non erano mai grilli prevalenti. A Milano è esposto un quadro straordinario Les Agapanthes, 1914 (qui sopra), al quale si può riferire un pensiero geniale di Francesco Arcangeli, giustamente riportato in mostra. «Ora se io volessi riassumere l’effetto di un quadro come questo nel suo intero e nel suo particolare, direi che è una sorta di Matisse impazzito. Se Matisse  fosse diventato pazzo avrebbe dipinto un quadro come questo. Non ne ha dipinti. Matisse è grande perché è Matisse, però Monet verso gli 80 anni era tanto potente e tanto presente da dargli risposte di questo tipo».

Le scintille di Monet. Ma Arcangeli ha scritto una cosa ancora più grande su Monet. Un’intuizione chiave per capire le caratteristoiche della sua grandezza. Sentite: «…questa ripercussione della scintilla luminosa su una superficie che è la tela di un quadro, è di una potenza artistica e mentale che a mio parere è paragonabile soltanto all’invenzione della prospettiva in Filippo Brunelleschi ed è altrettanto sconvolgente. Non ha nulla da invidiare all’atto mentale di Brunelleschi… potrà sembrare un fatto istintivo invece riassume, in un battito della luce e dell’ombra, nel quadro immaginato come una finestra sul vero un principio luministico … che è già potenzialmente una visione di ordine universale di ordine cosmico». Una grande lettura che brucia ogni nella lettura istintiva di Monet.

Infine: scordatevi di capire Monet dalle riproduzioni. Ci sono pochi pittori più irriproducibili di lui (a dimostrazione che quella scintilla luminosa ha davvero dentro una potenza difficilmente catturabile). Quando si esce dalla mostra e si sfoglia il catalogo della Mostra (Motta), ti passa qualsiasi tentatzione di comperarlo. Sembra che abbiano messo in pagina un altro pittore…

Written by giuseppefrangi

Agosto 28th, 2009 at 2:51 pm