«Van Gogh? Lui si è avvicinato alla verità fin quasi a toccarla. Con i grandi artisti è sempre così: si tratta di una “approssimazione”. La pittura è un linguaggio a sé, una lingua a parte. Nessuno è capace di parlarne. E perché parlarne poi? Guardiamola piuttosto…». È una delle risposte di Francis Bacon a Franck Maubert, critico francese dell’Express. I dialoghi tra i due sono stati pubblicati ora in un libretto di Laterza. Manca l’asciuttezza quasi da interrogatorio di polizia propria delle interviste di Bacon a David Sylvester, ma ci sono spunti di sorprendente interesse e profondità.
La creazione. «La creazione è una necessità assoluta che fa dimenticare tutto il resto. Io non pensavo che mi sarei mantenuto grazie alla pittura, volevo solo chiarire delle cose con me stesso. La creazione è come l’amore, non ci si può fare niente. È una necessità. In quel momento, non si capisce come le cose accadano. L’importante è che accadano. Per se stessi e basta. Dopo ci si può divertire a trovare delle spiegazioni… Per quanto mi riguarda, la pittura serve soprattutto a me stesso, se poi uno ci può vivere, tanto meglio».
Il realismo clinico. «Io volevo fare una pittura “clinica” nella mia accezione del termine. I più grandi oggetti artistici sono “clinici”. In inglese si dice clinical. Quando adopero la parola “clinico”, voglio indicare il realismo più assoluto. In effetti è impossibile parlarne». “Clinico” significa freddo? «Una sorta di realismo, ma non necessariamente freddo; è un atteggiamento, è come tagliare qualcosa. Ma è innegabile che in tutto ciò ci sia della freddezza e della distanza. A priori non ci sono sentimenti. E paradossalmente questo può provocare un enorme sentimento. “Clinico”significa essere il più vicini possibile al realismo, essergli vicini nella parte più profonda di sé. Il realismo è qualcosa che sconvolge».