Robe da chiodi

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Jean Clair, i creativi e i creatori

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«Oggi ci sono tanti creativi e nessun creatore». Lo ha scritto Jean Clair nel primo volume della sua autobiografia appena pubblicata da Gallimard. Premetto che condivido zero della demonizzazione che Jean Clair fa dell’arte contemporanea, da lui liquidata come fenomeno nichilista e distruttivo di ogni memoria. Mi sembra la condanna emessa da una persona di grande intelligenza ma prigioniera della nostalgia di un passato. La posizione di Jean Clair poi nella sua drasticità finisce con l’essere anche schematica. Detto questo credo che quella sua affermazione da cui ho preso spunto contenga qualcosa di molto vero. Oggi siamo in una stagione ricca di creativi ma senza creatori. Per Jean Clair questa suona come una condanna: questo è un tempo abbandonato da Dio.
Io penso invece che come diceva Sant’Ambrogio ogni tempo è buono. E che sta all’uomo capire in che senso è buono. Il nostro ad esempio lo è perché continua ostinatamente a cercare, a mettersi in cammino, a tentare strade senza avere davanti un “creatore” che gliele spiani. Per dirla più concretamente, oggi per quanto riguarda l’arte, non ci sono in giro dei “giganti”. Non ci sono “numeri primi”, cioè personalità che hanno fatto punto a capo. E hanno ricominciato la storia. Non c’è Picasso, non c’è Matisse, non c’è Duchamp, non c’è Mondrian…
Oggi è un altro tipo di tempo. Più frammentato, fitto di mille e mille tentativi. Di uomini e donne, che non potendo avvalersi della leva di un genio, mettono in campo quel di cui Dio li ha dotati: la creatività. Non sono affatto nichilisti anche se non usano linguaggi ortodossi. Anzi spesso la loro dedizione all’umano commuove, perché sono come compagni di strada. Menestrelli che seminano impreviste frammenti di poesia lungo il cammino. Oggi è una stagione in cui l’arte può solo procedere per traiettorie orizzontali. Non le è data la verticalità. Ma la verticalità non è cosa che gli uomini si possono dare da soli. È condizione che appartiene al mistero della storia. Per questo la condanna di Jean Clair suona come irrealistica, oltre che ingiusta. Il genio (il creatore) non è certo esito di uno sforzo né di un buon retroterra. Il genio è il genio e per definizione non prevede condizioni.
Questo nostro invece è un tempo fragile, e insieme generoso. Un tempo ad intensità diffusa. Un tempo senza giganti destinati a segnare i tempi che verranno. Comunque un bellissimo tempo.

Ps: a meno che Clair intenda per “creatore” il creativo che la pensi giusta. Cioé richiamato all’ordine. Ma questo è un creatore senza rischio e senza vertigine. Un creatore che conserva e non crea nulla.

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Febbraio 5th, 2016 at 6:28 pm

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La pittura, il “chiodo” di Gianni Dessì

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Questo dialogo con Gianni Dessì è stato pubblicato su Alias del 6 dicembre

Cosa vuol dire per un artista ragionare sull’essere artista? Ad esempio può voler dire spostarsi di 8mila chilometri e provare rappresentare sotto altri cieli chi si è e che cosa ci si sta a fare. Rappresentarlo a se stesso e agli altri. È la rotta che Gianni Dessì ha seguito lo scorso anno e che lo ha portato da Roma a Pechino per realizzare una triplice installazione. Sono tre teste di dimensioni monumentali («Per toglierle da una dimensione naturalistica», spiega Dessì). Sono dichiaratamente autoritratti, anche se le questioni fisiognomiche sono le ultime a cui lui abbia prestato attenzione. Quello che gli premeva era mettere nero su bianco, dar visibilità ed evidenza al “sine qua non” dell’essere artista.

Ecco allora il percorso, scandito appunto in tre “stazioni”, con chiarezza estremamente meditata e quindi quanto mai persuasiva. Prima stazione, una grande testa in bronzo dipinto di rosso, con una griglia impreziosita da un filo dorato davanti agli occhi: “il vedere”, come atto che crea una relazione; l’atto del vedere nell’artista s’avvale di una griglia, attraverso la quale il disegno s’insinua e prende forma (annota Dessì: «L’arte si è infilata in un intellettualismo che si astrae dalle cose. Io invece penso che si debbano “ficcare” le mani nelle cose»). Segue poi la seconda stazione, la più poetica: una testa più monumentale delle altre perché appoggiata su un piedistallo. Dalla bocca, soffiando, riempie e dà forma a una sfera perfetta, bianca, d’acciaio. Una bolla in bilico sulle labbra dell’artista, resa leggera e quasi aerea dal suo fiato. «È il respiro dell’opera», ci dice Dessì. «la sua capacità vitale creare forme e nuove geometrie. È l’aura che riesce a far vibrare attorno a sé, che fa pensare, che commuove». Infine alla terza stazione c’è la grande testa gialla, marchiata frontalmente da un rettangolo nero: è la dinamica del dentro e del fuori, «un dentro che segna e che rivela, che si staglia nitido nell’asperità della materia». L’arte è un “dentro” che accetta la sfida di venire a galla, di uscire allo scoperto, di non restare più soltanto “dentro”. Il titolo dell’installazione non è un dettaglio: “Tre per te”. Chi è quel “te”? Può essere innanzitutto l’appassionato magnate e collezionista cinese che ha commissionato a Dessì quest’opera, George Wong; collezionista con particolare vocazione a raccogliere arte italiana. Ma il “te” è anche lo spettatore, cioè chiunque passi di da quel grande edificio di Pechino, contenitore di un po’ di tutto, davanti al quale l’opera è stata collocata. Dessì: «È dedicata a Gorge Wong che l’ha voluta ma è dedicata anche a chiunque passa di là». Come a dire l’arte non può essere per me se non c’è anche un “per te”. E ogni tanto davanti a questo prezioso e indispensabile “altro” è necessario scoprire le carte, per riaffermare le ragioni e la legittimità del fare.
L’arte, sembra voler dire Dessì, oggi ha sempre bisogno di un riesame, di incrociare la sua ragion d’essere. Di meditare sul proprio statuto.

La stessa cosa accade, questa volta su scala minima all’ingresso della mostra di Gianni Dessì alla Galleria milanese Progettoarte-Elm. Il visitatore è accolto una piccola opera, vagamente impertinente. Con i suoi 61cm per 30 occupa la parete grande. La didascalia ci dice che la tecnica è olio su cartoncino telato, ma aggiunge anche due altre voci: “cordino e chiodo”. Il cordino è attaccato agli angoli alti del cartoncino, e lo regge grazie al chiodo che in alto chiude il triangolo. Il cartoncino, dice la stessa didascalia, è “su muro”: in questo modo vien ribadito in maniera incontrovertibile che l’allestimento è parte costituiva dell’opera. E che il chiodo è condizione indispendabile perché quella pittura esista. Quella pittura, o forse tutta la pittura. Gianni Dessì parla con un affetto del tutto particolare di questa piccola opera semplice e senza pretese. «È una piccola cosa», racconta. «Un omaggio a Mario Schifano, da cui ho preso anche il titolo, “con anima”. Il chiodo è parte pienamente espressiva, perché regge l’evidenza della pittura sul muro e rende palese la sua gravità. Il senso dell’omaggio sta nel fatto che Schifano era un posseduto dalla pittura: quello era il suo vero demone. Non la possedeva, ne era davvero posseduto. Per questo è come se avesse rinnovato fiducia nella pittura, dandole una nuova possibilità in tempi per lei sostanzialmente ostiliL la pittira che ritrovava un suo senso nel far crescere i riverberi tra le cose».

C’è un ripetuto accento tautologico nel lavoro recente di Dessì. Troviamo un quadro intitolato “Sulla tela”; un altro è “Interno”, e lascia emergere una forma che sembra la crociera del telaio; “Nel mezzo”, opera grande in vetro resina e tempera sempre “su muro”, cita se stessa e insieme la forma che rappresenta. Non si tratta di sofisticati giochi linguistici, ma di un’accorata ricerca di un luogo, del “luogo”: quello della pittura. Un’altra parte di opere presenti alla mostra milanese, invece si presenta “senza titolo”. «“Senza titolo” significa che la pittura non parte da un mio progetto. Non ha un nome. A volte il nome esce fuori, perché è l’azione stessa del dipingere che lo fa emergere e me lo fa trovare. Io allora assisto con sorpresa al manifestarsi delle immagini e a volte al loro riconoscimento. Per esempio, il “senza titolo rosso” mi ha fatto pensare alla mitologia, a Diana, all’immagine ghiacciata del bosco». E infatti il nome di Diana ha fatto capolino nel titolo, con pudore, messo tra parentesi.

«Il titolo, quando c’è, lo trovo alla fine, non all’inizio. Perché se dovessi semplicemente fare il quadro che “so”, quello che ho nella mia mente, che ci starei a fare?», continua Dessì, approfondendo il ragionamento iniziato. «Ogni volta invece cerco il quadro che non so, cerco l’altrove che ti si affaccia, imprevisto nella sua modalità di palesarsi. A volte è possibile che l’immagine resti in filigrana, e deve cercarla anche chi si ferma a guardarla, allo stesso modo di io che la faccio. A volte può accadere che la pittura ti chieda di violare anche l’integrità della superficie. Se non si accetta questo scarto – che è poi il mistero della pittura – resta solo lo stile. Ma lo stile non interessa più a nessuno, nemmeno a me che ne sono l’autore. Lo stile per me è la pittura che si accontenta di andare in folle. È pittura che si mette al riparo dall’imprevisto».

Nell’arte di Dessì è facile scorgere un’anima teatrale, certamente rafforzata dalle sue numerose incursioni per realizzare scenografie in particolare per Peter Stein (Parsifal, 2002 e Il Castello del duca Barbablù, 2008), sino alla recentissima collaborazione per le scene e i costumi de Il suono giallo di Alessandro Solbiati, ispirato al testo originale di Wassilij Kandinsky. Così gli viene da pensare al supporto –tavola, tela, ma anche scultura – come ad un palcoscenico, allestito perché qualcosa vi “accada”. Dessì conferma questo parallelo, e rivela un altro punto di contatto: il tempo. «Il teatro», dice, «è un luogo che incrocia un tempo: il tempo sulla scena cade dentro un “divenire”. Nella pittura invece il tempo cade dentro l’attimo che fa affiorare l’immagine; è un gesto che incontra l’immagine e la mette in parallelo con la vita e con le cose che si incontrano, quasi per verificarne la tenuta».

Se ci sono Pechino e Milano nella recente agenda di Dessì, Roma resta il luogo per antonomasia del suo agire e del suo pensarsi.
La Roma a cui ha legato tutta la sua biografia umana e artistica e a cui continua a guardare, quasi con gratitudine, come ad una matrice insostituibile. «Roma per me è la storia. Non una storia che ti tiene in ostaggio con la sua grandezza, ma una storia al contrario che ti libera, perché ti dice che non sei immortale, che tutti siamo eredi e che abbiamo a che fare con la metamorfosi di quello che abbiamo ereditato. Roma è un argine al deserto della modernità. È il luogo in cui le forme hanno sposato le idee e i desideri degli uomini, anche fossero stati i desideri di potere».
Ed è in questa Roma di oggi ferita, assediata e logorata che Dessì continua a lavorare, aggirandosi attorno a quell’unico pensiero: cosa è, cosa dovrebbe essere lo sguardo di un artista. E per suggestione si pensa a quella sua familiarità con il giallo, quel giallo che solca frontalmente il bellissimo Ritratto in ceramica raku in mostra a Milano. Lo sguardo è lievemente e poeticamente orientato verso l’alto. E sentendo Dessì se ne capisce il perché: «Il giallo è colore che sollecita il tutto. È il materializzarsi di una visione che si avvicina all’accecamento. Forse ha a che fare con un sogno. Quello dell’infinito».

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Dicembre 24th, 2015 at 11:14 am

Perché l’arte contemporanea ha fatto breccia al Meeting

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Ci sono tante riflessioni che si possono fare in merito al successo davvero inatteso della mostra portata al Meeting di Rimini sull’arte contemporanea (20mila visitatori in sei giorni, cataloghi esauriti in quattro…). Provo a riassumerne alcune.

1. L’arte contemporanea si è dimostrata in grado di far breccia in un pubblico normale sostanzialmente digiuno da frequentazioni con mostre e biennali varie in parte anche più o meno prevenuto. Perché fa breccia? L’arte contemporanea ha come caratteristica quella di dover trovare sempre nuove formule per dire cose che sono molte volte cose di sempre. Ma in questo scovare formule nuove produce un effetto spiazzamento che colpisce, che sollecita emotivamente, che mette in movimento intelligenze e sensibilità. Tra i commenti, tanti, che hanno costellato la mostra, uno mi è sembrato particolarmente azzeccato: l’esperienza della mostra provocava una sorta di “decentramento” nelle persone. È quello suscitato da chi ammette di essere stato portato a vedere le cose da un punto di osservazione del tutto imprevisto, ma molto più acuto e profondo di quanto prevedessimo. Uno sguardo, quello suggerito dagli artisti, che non smantella il nostro ma lo rimette in movimento. Alla ricerca. Tener vivo il fuoco, come recitava il titolo, vuol dire proprio questo. Per tenerlo vivo non ci si può ripetere, si deve essere sempre nuovi… È il pubblico ha capito il fascino di chi si prende il rischio di inoltrarsi nel “nuovo”.

2. Se ha fatto breccia è anche grazie al dispositivo della mostra prevedeva una narrazione delle opere, che quindi invece di blindare le opere nell’enigmaticità di linguaggi critici incomprensibili, forniva delle chiavi, delle ipotesi per entrarci. Non era un dispositivo critico, quindi, ma semplicemente narrativo, che poi lasciava al visitatore la libertà di approfondire e di farsi coinvolgere.

3. L’arte è sempre stata “bene comune” anche quando principi e papi ne incameravano il meglio nei loro palazzi. Ma le chiese, le piazze hanno sempre parlato a tutti, e per tutti. Bernini ha riplasmato Roma cambiando l’immaginario della città. Michelangelo il David lo ha messo in piazza. Giotto e Masaccio erano fruibili da tutti. Ora non si vede perché nel nostro tempo, che vorrebbe essere il più democratico ed egualitario, l’arte debba essere diventata materia di pochi. Affare per un’élite. Roba da cerchio magico. La mostra di Rimini riporta l’arte davanti allo sguardo e al giudizio dell’uomo comune. La rimette in piazza. Credo ci sia da guadagnarci per tutti.

Written by gfrangi

Agosto 29th, 2015 at 6:23 pm

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I quadri, anche a costo della fame

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Non è nuova ma è bello rileggerla. La ripropone oggi Tomaso Montanari, in un articolo sul Corriere del Mezzogiorno. L’aveva usata anche il Fai per una campagna soci nel 2009.

Epigrafe nel portico della Pieve del borgo bergamasco di Dossena, a 40 km dalla sua terra di Caravaggio dove si legge: «In tempi di dura carestia, al popolo di Dossena qui adunato a suono di campana, venne offerto frumento in cambio dei suoi qaudri. Ma la forte gente di questa terra a una voce il baratto rifiutò. Ed i suoi quadri prescelse e la sua fame».256px-Dossena_epigrafe-1

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Settembre 3rd, 2014 at 8:43 am

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Il san Giuseppe innamorato

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L’opera che vedete è di Bernardino Luini (cliccate per ingrandirla), fa parte di un ciclo di affreschi dipinti per la chiesa milanese di Santa Maria della Pace (intorno al 1514), affreschi strappati e oggi custoditi alla Pinacoteca di Brera. Luini è un importante artista lombardo, che avremo la frotuna di poter conoscere bene grazie alla grande mostra curata da Giovanni Agosti e da Jacopo Stoppa, a Palazzo Reale di Milano, dal 9 aprile. Luini è un artista ha avuto l’avventura (o la disavventura…) di doversi ad un certo punto della sua vita sintonizzare con la rivoluzione che Leonardo aveva introdotto nei suoi lunghi anni milanesi. Per lui questo doversi misurare con la lingua pittorica di Leonardo, così fluida e così nuova, doveva essere una gran fatica. Così quando poteva, si metteva da parte e ripescava quel suo stile molto lombardo e molto popolare, che era stato travolto dalla moda del leonardismo. Gli affreschi di Santa Maria della Pace sono proprio uno di quei casi. La pittura è semplice, netta nei tratti, e non insegue gli effetti sfumati che dopo il Cenacolo erano diventati tendenza dominante a Milano ma non solo. Luini tra l’altro con quella semplicità ritrovata si sofferma nel racconto della vita di Giuseppe, su un momento che non si vede mai rappresentato: è quello di Maria e Giuseppe che dopo le nozze se ne tornano a casa. La scena, tutta verticale è assolutamente stupenda. I due sposi si tengono mano nella mano camminando verso Nazareth, ma l’aspetto indimenticabile dell’affresco di Luini è il modo con cui i due si guardano, come due sposi sereni e innamorati. Giuseppe sta parlando e sicuramente sta raccontando qualcosa di bello o divertente a Maria, che non si sottrae certo ma ammicca con un sottile sorriso di complicità.
La loro strana situazione non sembra davvero porre problema, né all’uno né all’altra. Senza calcolo, ma per un istinto sano, Luini ci dice che quel momento era un momento di assoluta, tranquilla normalità.
[Avevo scritto queste cose qualche mese fa nella rubrica Riquadri per il sito Piccole note. La riprendo ora, perché qualcuno ha voluto farmi un regalo per questo 19 marzo, mandandomi una paginetta di don Giussani, commovente perché dattiloscritta, e geniale per l’acutezza con cui entra nel profilo di san Giuseppe. Giussani dice quel che si tralascia sempre: che san Giuseppe è stato un uomo fortunato. «Sì, fortunato perché era innamorato di Maria e Maria lo era di lui… e questa relazione tra di loro aveva raggiunto una trasparenza tale da non aver bisogno del fatto fisico». Appunto, basta l’intesa di quello sguardo, la tenerezza di quel tenersi per mano. E poi l’andatura allegra propria di ogni uomo fortunato…]

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Marzo 19th, 2014 at 10:37 am

Lucca/2. Il Cristo pop di Berlinghieri

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Rapida visita mattutina alle chiese di Lucca. A parte la sorpresa per la bellezza di Matteo Civitali, il genius loci, resto un bel po’ a testa in su davanti alla facciata di San Frediano. Un mosaico enorme, clamoroso come uno stendardo che sventola sui tetti della città, abbagliante per la luce del sole. Lo assegnano alla bottega di Berlinghieri (morto a Luca nel 1235) e rappresenta Cristo nella mandorla, portato in alto da due angeli lievi, ma dalle dimensioni titaniche. In basso, la carrellata dei dodici apostoli a figura intera, messi tutti in riga, ma quanto mai agitati nelle pose e nei gesti. Pensavo che nella sua posizione e nella sua costruzione è un’immagine spavalda; come una manifesto di certezze. Non certezze imposte ma certezze vissute, verificate, condivise. Pensavo anche che è un’immagine che ha l’energia potente e persuasiva della semplicità. In questo è un’immagine assolutamente pop. Andy Warhol a vederla sarebbe impazzito di gioia. E forse anche d’invidia.

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Giugno 18th, 2013 at 5:19 pm

Marina Abramovic, sciamana un po’ troppo chic

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(se amate o ammirate la Abramovic non leggete quest post: mi odiereste..)
Non sono ancora andato a vedere la mostra di Marina Abramovic al Pac, né la sua puntuale appendice mercantile da Lia Rumma. Francamente non ne ho molta voglia: mi sembra di aver sentito e visto di tutto e di più. Inoltre devo aver frainteso qualcosa in merito all’Abramovic Method (è questo il titolo, non nuovo, che l’artista serbo-americana ha dato alla sua kermesse a Milano). Avevo capito, spizzicando qua e là nel fiume di articoli e interviste che hanno accompagnato l’operazione Abramovic, che il cuore del suo messaggio artistico fosse un’esperienza zen comunicata e allargata allo spettatore. L’artista che partecipa se stessa al visitatore («Il pubblico diventa performance e sperimenta le sue “installazioni interattive”», si spiega sul sito della mostra. «Le persone dovranno espandere i propri sensi, osservare, imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi»: francamente un po’ banale, non me ne voglia l’assessore Boeri…). Del metodo di Marina, senza aver visto la mostra (ammetto la scorrettezza, ma mi calo nei tanti che non la vedranno) ho capito piuttosto questo: che si è trattato di una magistrale strategia di invasione dei media, persin con appendice televisiva nel nuovo programma del lanciatissimo Fabio Volo. Non riesco a vedere molto spirito zen in questo iperpresenzialismo. Penso che neanche Cattelan saprebbe arrivare a tanto (lui che per altro sa farsi perdonare con l’ironia…).
La sacerdotessa Marina appare poi in centinaia di manifesti sparsi per la città, seduta su un tronetto aguzzo con i piedi appoggiati su mattonelle simil quarzo che danno l’effetto sospensione nel vuoto. Sinceramente, più che una sciamana mi sembra una sciura alla cassa. E poi, diciamocelo, Marina sa far troppo bene i calcoli per essere una sciamana…

Per completezza d’informazione: ho avuto grande ammirazione per la Abramovic. Ad esempio per quella tragica e rabbiosa di Balkan Baroque con cui vinse il Leone d’Oro a Venezia 1997. Per dire, che magari mi sbaglio su Marina a Milano, ma non sono prevenuto. E che quella che sento parlare e di cui sento parlare non mi sembra la stessa di 15 anni fa.

Written by gfrangi

Marzo 23rd, 2012 at 10:22 pm

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Bonito Oliva batte Jean Clair (ovvero: perché amare l’arte contemporanea)

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«Jean Clair non chiede più all’arte di essere domanda sul mondo, ma piuttosto una conferma del già dato e del già vissuto. La sua è una sfiducia nel futuro, vede l’arte come una minaccia». Per me si potrebbe chiudere qui, con queste parole di Achille Bonito Oliva, la polemica estiva lanciata dal Corriere della Sera dopo l’uscita in Francia del pamphlet (non il primo) di Jean Clair contro l’arte contemporanea (L’hiver de la culture). Mi sembra che Abo colga la questione, che va oltre una valutazione dei valori in gioco, delle furberie mediatiche a cui tanti artisti oggi ricorrono, dei giudizi che la storia poi darà. La questione è più radicale e riguarda il senso di fare arte oggi, il nesso con la vita del mondo e degli uomini. La prospettiva di Jean Clair è una prospettiva ultimamente accademica, che chiude fuori dalla porta le convulsioni del mondo e mette l’arte in una sorta di riparo morale e intellettuale. Francamente la trovo una prospettiva poco interessante. Non mi interessa che un pittore dipinga bene, mi interessa che la sua pittura si giochi con la vita del mondo. Non mi interessa una prospettiva in cui l’approdo del fare arte sia il muro privilegiato di un qualche collezionista “ben educato” ai valori dell’arte (e molto sensibile a quelli del mercato).
Mi guardo bene da chi propone qualsiasi ricetta schematica, perché in questo modo viene precluso all’arte la sua vera ragion d’essere: che, come dice Abo, è quella di “essere domanda”. E può essere domanda un grande quadro di Lucian Freud, come l’immenso cuore d’acciaio smaltato di rosso di Jeff Koons (in alto, nell’allestimento a Versailles). E mi fa sempre molto pensare il fatto che Francis Bacon, artista sempre parco di sentenze, avesse individuato in Damien Hirst il proprio erede…
Post scriptum: spesso mi capita di girare oper musei e gallerie con i figli e amici dei figli. Mi ha sempre colpito come la “grammatica” dell’arte contemporanea demonizzata da Jean Clair faccia invece facilmente breccia nella loro curiosità e metta in moto pensieri ed emozioni, sepsso non banali. Immagino che questa accada per affinità di linguaggi e per quell’apertura al futuro di cui parla Abo.

Written by gfrangi

Agosto 9th, 2011 at 8:21 am

Il cinema di Wenders e il teatro dei De Donati

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Pomeriggio in fuga tra Lugano e Como. A Lugano a villa Ciani ci sono le fotografie di Wim Wenders e di sua moglie Donata. Già l’idea del sodalizio mi piace. I loro sguardi non s’accavallano mai ma sono complementari. Lei fotografa il backstage (bella la serie con Antonioni, da sballo una foto di Milla Jovovic sul set di One million dollar hotel), lui invece blocca con le foto sequenze che vorrebbe non terminassero mai. C’è una stanza bellissima di foto retroilluminate, con i colori che accendendosi disfano le forme. I formati di Wenders sono ovviamente sempre quelli orizzontali del grande schermo: la serie di Buena Vista Social Club è incornicata in modo molto intelligente con dei grandi passepartout che si sviluppano tutti in verticale, aprendo in alto la finestra orizzontale dell’immagine. La fotografia magnifica che si vede qui sopra fa parte di quella serie: capisco che Wenders desiderasse che quella sequenza non passasse mai. C’è il senso del viaggio libero, c’è quello della storia; c’è la bellezza potente del mare, una bellezza strabordante ma amica. Soprattutto c’è un senso a quell’andare: si va sicuri verso una meta certa e desiderata.


Poi Como. A San Giacomo esposto il Compianto di Caspeno di Covio, in Valtellina. Un gruppo dei fratelli De Donati, di inizio 500, restaurato e rimontato in modo diverso rispetto a prima del restauro. Il colpo d’occhio all’ingresso della chiesa è bellissimo e commovente. Il Compianto è posto in fondo all’abside e i colori sembrano balzar fuori dal fondo grigio-pietra di quei muri di memoria romanica. Il gruppo ha punti belli (le donne in particolare) e altri un po’ più stereotipati. Ma è l’insieme che cattura. Vedendo tanta gente entrare in chiesa e farsi avanti sin quasi a toccare il Compianto, mi veniva in mente come a volte le immagini facciano visibilmente breccia nell’umano delle persone e lascino dentro un segno più profondo di mille ragionamenti. Per questo la chiesa ci ha puntato tanto nei secoli passati. Una scelta di cui godiamo i benefici ancor oggi… Secondo pensiero: è bello che si sia proceduto al restauro (grazie a una banca attenta al territorio come il Credito Valtellinese), è ancora più bello che si sia pensata un’occasione così immediata e semplice per mettere il Compianto davanti agli occhi del grande pubblico. Potete vederlo sino al 17 luglio. Poi torna a Caspeno.

Written by gfrangi

Luglio 2nd, 2011 at 9:08 pm

Una riscoperta in periferia: il gioiello umile di Figini Pollini

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Che ne dite della facciata di questa chiesa? Per me è stata una scoperta, perché su tanti libri di architettura del 900 avevo visto immagini della stessa chiesa, ma solo dell’interno, per via delle grandi soluzioni che Figini e Pollini avevano escogitato. La chiesa è quella della Madonna dei Poveri a Baggio. Anno 1956. Una chiesa che sorgeva in mezzo alle case minime abitate allora dagli immigrati arrivati dal Sud (la media era di 60mila arrivi all’anno!). Questa chiesa nella sua disarmante semplicità si adegua al contesto, è “dei Poveri” nel nome e nella concezione. Mi hanno colpito l’equilibrio di tutti i rapporti, gli inserti di laterizio come tocco di bellezza svuotata di ogni enfasi, la solennità che pur nella sua radicale sobrietà la chiesa riesce a darsi. È una chiesa che sussurra la sua presenza nel tessuto della periferia. Sono un ammiratore, anzi, di più, sono un fans, del razionalismo esatto ma pacato di Figini e Pollini. Un razionalismo che non ha mai nulla di astratto né di intellettualistico. Penso che la facciata degli stabilimenti Olivetti ad Ivrea sia una delle cose più belle e umanamente civili del 900 italiano. Qui si confermano, con meno mezzi a disposizione. Ma con un’intelligente comprensione della funzione dell’edificio: che è quello di riuscire a raccordare la dimensione della povertà a quella della bellezza.

Da qui due riflessioni. Primo, qui c’è un suggerimento interessante a chi deve mettersi a progettare chiese oggi. Lo definirei un approccio affettivo. Sentire il luogo, il contesto; aver presente il volto di chi la frequenta; e i santi che la popoleranno. Una sorta di umile processo preliminare di osmosi.

Secondo, qui c’è lo spirito migliore di Milano. Un razionalismo ragionevole. Una bellezza con i piedi per terra. Una modernità inclusiva del meglio del passato (dovreste vedere il grigliato di mattoni che sul retro chiude l’abside). Di questo c’è da essere grati a Montini, che si era preso i rischi della modernità, suggerendo discretamente una strada da percorrere.

Un grazie agli amici di 30Giorni che mi hanno dato l’occasione di approfondire questa storia…

Written by gfrangi

Aprile 21st, 2011 at 8:31 am