Robe da chiodi

Ipocrisie leonardesche

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Il Giornale dell’arte presenta una ragionata anteprima della mostra londinese sugli anni milanesi di Leonardo (“la più importante dopo quella del 39 a Milano”). C’è l’elenco delle opere esposte, con prestiti davvero straordinari, in primis la Vergine delle Rocce parigina. Dalla presentazione si deduce che per non voler intendere e volere gli organizzatori della mostra hanno fatto finta che il libro di Alessandro Ballarin non sia ancora uscito. Lo si deduce dalle date della prima Vergine delle rocce, assegnata al 1486, quando Ballarin ha portato prove molto ragionate che la riferiscono ai primi mesi milanesi. Soprattutto si continua con l’anacronismo della Dama con l’ermellino che stilisticamente non ha senso portata così avanti (primi anni 90). Questa datazione è dettata oltre che da una lettura parziale dei documenti, da una sorta di non detta (e un po’ ridicola) pruderie: si dà per escluso che Ludovico potesse essersi fatto un’amante tredicenne. Invece le cose erano andate così e anche in questo caso Ballarin porta prove difficilmente smentibili. Ovviamente se ne può discutere, ma fa triste impressione questo andare avanti come nulla fosse. Del resto anche l’informazione ci mette la sua: perché il Giornale dell’arte, non ha detto ai suoi lettori dell’uscita di un libro di tanta importanza e che oltretutto rimedia almeno in parte all’umiliazione di vedersi scippati di una mostra come questa, che avrebbe dovuto essere tutta italiana, anzi tutta milanese? Forse perché Ballarin rompe qualche uova di troppo nel paniere degli esperti leonardeschi?

Mi consolo con questi due brani che mi son segnato dalla recensione di Gadda alla mostra del 39.
“Avvicinare Leonardo! Ci troviamo, davanti a lui, come alla sorgente stessa del pensiero. Qui la nativa acuità della mente si dà liberissima dentro la selva di tutte le cose apparite, dentro la spera di tutti i “phaenòmena”: a percepire, a interpretare, a computare, a ritrarre: a profittare per “li òmini”: del profitto di ragione e verità”.
“Fantasioso […] può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto percorre bene spesso ogni possa dell’arte (nel senso di tecnica) e del secolo suo: […] appare anche confermata una misura di ragione, un rigore dell’osservazione: una conoscenza faticata e vissuta, e infine assai propria, di molte cose della natura. Non arbitrio o giuoco; ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravvedute verità”.

Written by gfrangi

Settembre 10th, 2011 at 8:38 am

Ma siete mai entrati nel sito degli Uffizi?

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Non è stata un’estate di grandi tour questa per me. Così mi sono divertito a girare per musei via Ipad (grazie Steve!). Non per musei italiani, perché si entra regolarmente in siti che se non sono morti sono in letargo per la pausa estiva: impressione tristissima, a volte davvero deprimente. Tutto l’opposto se si va sui siti di musei esteri. Anche quelli più sussieguosi, come per esempio la National Gallery di Londra, offrono spettacoli visivi che sono un piacere. C’è stabile il ciclo sul quadro del mese, indagabile anche visivamente in maniera spettacolare. Ci sono tre mostre in corso tutte ben illustrate. C’è la presentazione degli eventi futuri. E poi si passa di sala in sala in quella che è la parte stabile sel sito. Insomma, se nessuno ti richiama ci va dentro un’ora buona di navigazione. L’Alte Pinakotek di Monaco offre meno soddisfazioni, ma è pur sempre un bel vedere. L’Home page del Prado presenta le mostre in corso. C’è tra l’altro la trasferta della Deposizione di Caravaggio, ben presentata con un video. E tutte le opere sono visibili, a volte ingrandibili con particolari da capogiro. Bellissima la sezione A fondo, dove una serie di capolavori sono analizzati con testi molto curati e particolari da non credere. Andando oltre si entra nel museo, seguendo gli autori o andando per sale. Al sito del Louvre c’è l’opera del giorno, c’è una più classica possibilità di ricerca delle 30mila opere esposte, con immagine e breve scheda. C’è una selezione di opere in alta definizione, sullo stile di Googleartproject, per ora non visibile da Ipad ma solo su pc. Tornare in Italia è a questo punto come tornare all’età della pietra. Persino i domini dei musei sono complicati, in quanto brera.it è un sito under costruction di amici di Gianni Brera. Se andate su brera.com, vi trovate sul sito di una finanziaria che in home page presneta il cortile della pinacoteca… Quello della pinacoteca è un dominio in subordine: brera.beniculturali.it . Il sito è poi tutto all’osso, e la visita virtuale che viene annunciata e davvero virtuale, in quanto costituita da piantina e opere fotografate come francobolli. E non pensiate che scrivendo uffizi.it entriate nel sito del più importante museo italiano. Nient’affatto. Entrate nel sito di un sito commerciale d’arte dove si vendono le opere di un ceeto Gioacchino Chiesa. Se invece per caso arrivate su uffizi.com vi trovate in un sitaccio turistico- commerciale dedicato al museo. Insomma due domini usurpati, senza che nessuno abbia da ridire… Per entrare agli Uffizi bisogna fare un cammino più tortuoso: http://www.uffizi.beniculturali.it ( e non è detto che sia il primo ad apparire nella ricerca google). Il sito è scarno, mette insieme tutti i musei di Firenze e prevede una sezione Visita il museo che funziona così: elenco sale, elenco opere esposte, rimando per maggiori specifiche al centro di documentazione, in cui se va bene vengono elencate le foto presenti in archivio. Ho tentato di aprirne un paio ma mi sono arreso dopo vari tentativi. In compenso si leggono bene tutti i dtai della società che ha sviluppato il sito (indirizzo, telefono, manca solo la partita Iva).
Non vado oltre. Ma lancio una modesta proposta: invece di inseguire il sogno della Grande Brera se almeno la dotassimo di un sito che fa venire un minimo di desiderio di metterci piede?

Ps: un’amica attenta, stellamaris, mi segnala la classifica dei musei al mondo stilata sui parametri klout (che misurano la capacità di crearsi pubblico con i socialmedia). Ovviamente non c’è ombra di museo italiano. Il vincitore è la Smithsonian di Washington: impressiona visitare il sito, vedere i numeri di traffico (500mila follower in twitter) una cinquantina di diverse pagine in facebook, per segmentare il pubblico a seconda degli interessi. Ma mi ha colpito soprattutto la motivazione con cui spiegano questo loro impegno. C’è davvero da imparare (invece che continuare nei soliti piagnistei).
«For the Smithsonian to remain a vital institution at this important time in our history, we need to fully engage younger generations with our collections and our knowledge. We need to use new digital technologies to their fullest potential so that we can fulfill the Smithsonian’s 19th-century mission—‘the increase and diffusion of knowledge’— in a thoroughly 21st-century way for the benefit of all Americans and people around the globe».
(a proposito: lo Smithsonian per i suoi siti è ricorso al suffisso .edu Una buona idea).

Written by gfrangi

Settembre 3rd, 2011 at 10:06 am

Ci vorrebbe un workshop su e “con” Leonardo

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Ieri incontro su Leonardo e l’acqua al Diocesano. Tanta gente, oltre ogni mia aspettativa. E tanta gente che vedevo stupita del racconto assolutamente elementare che ho provato a tracciare sul tema. Un’esperienza che mi ha portato a capire alcune cose. La prima: Leonardo è uno dei pochissimi grandi del passato che noi viviamo come un file ancora aperto. È uno che non ha mai chiuso i conti, per questo ce lo ritroviamo più vivo che mai davanti a noi. La seconda: che Leonardo è un genio dell’osservazione. Osserva e poi descrive con tutti gli strumenti che ha a disposizione: dal disegno alla parola. In questo è davvero sistematico. La terza: è un genio frammentario. Leonardo vive con il taccuino in mano e raccomanda ai suoi allievi di fare altrettanto. Un modo per annotare e approfondire la conoscenza degli spezzoni di realtà che incontra. Ma i taccuini non diventano mai trattati. Non vengono mai sistematizzati in un insieme. Per questo ci lascia in eredità un’immensa quantità di file aperti. Davvero come l’acqua “non ha mai requie” (parole sue). La quarta: guardando vicino, osservando l’infinitesimale, aveva una capacità di visione che ancora lascia affascinati. L’osservazione circoscritta diventa con lui un metodo per spalancare orizzonti. La quinta: l’osservazione ha una mortivazione nella ricerca di verità. Rimando alle grandi parole di Gadda: «Fantasioso, certo, può dirsi il suo peregrinante ingegno, in quanto precorre bene ogni possa dell’arte ( nel senso di tecnica) e del secolo suo: ma da qui, questo riscontro, appare anche confermata una misura di ragione, un rigore dell’osservazione: una conoscenza faticata e vissuta, e infine propria, di molte cose della natura. Non arbitrio o gioco: ma un lento cammino della indagine, verso lontane, forse, ma già intravedute verità».
Bisognerebbe davvero riaprire il file Leonardo. Il libro di Ballarin offre l’occasione, oltre che un’infinità di spunti. È il momento giusto (in particolare per Milano) per un workshop su e “con” Leonardo.

Written by gfrangi

Settembre 1st, 2011 at 4:55 pm

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Il Quarto stato, il quadro ecatombe

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Premetto: con tutto il rispetto che si deve a un’opera moralmente ineccepibile, non mi riesce proprio di amare il Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Ora il quadrone è tornato in prima pagina per l’idea abbastanza bizzarra di spostarlo dalla casa che – bella o brutta che sia – gli hanno appena confezionato. Ho sempre avuto una certa ritrosia a razionalizzare questa mia freddezza, limitandomi a pensare che l’avere il Quarto stato come quadro bandiera di una nostra stagione storica, fosse assai meno eccitante che avere la Grande Jatte di Seurat, per citare un altro quadro di quelli di cui non “si può fare a meno”.
Ma in questo week end ho letto il libretto che Massimo Onofri ha dedicato al quadro di Pellizza, e ho trovato convincenti elementi per razionalizzare il poco entusiasmo. Onofri cita il drastico giudizio di Grubicy: «Perché il Quarto stato non è nato da un’emozione estetico = pittorica ma da una cerebrazione filosofico – umanitaria e quindi opera, come arte, nata=morta». C’è anche un riscontro oggetivo a questo giudizio di Grubicy, perché come dimostrato tutti i personaggi che Pelizza mette in posa, a partire dall’amata Teresa (la mamma con il bambino al centro), sono quasi tutti destinati a repentine e tragiche fini. Tanto che Onofri parla di un quadro ecatombe (e non dimentichiamo come finì il suo autore, pochi anni dopo). È un quadro che viene in avanti, ma che davanti non ha futuro. Che non sa darsi uno sguardo sul destino. Questo lo rende ancora più struggente al nostro sguardo: il problema sorge quando lo si trasforma in quadro bandiera. Allora diventa veicolo di retorica. Oppure, peggio ancora, di nevrosi.
Chiudo con il drastico giudizio che ne diede Boccioni: «Pellizza tra campi e lavoratori piange… Le scoperte italiane che dovevano derivare da impressionismo e divisionismo si impantanano e visi intristiscono esaurendosi». Giudizio drastico cui contrapponeva la parabola di Balla: «Solo, a Roma, diverso e feroce, stava Balla…»- E forse mi vien da dore che la celebre foto di gruppo dei futuristi (non per niente fatta propria dal grande Schifano) è la vera icona bandiera a cui conviene attaccarsi…

Written by gfrangi

Agosto 30th, 2011 at 6:33 am

Perché Warhol finì nelle braccia di Leonardo

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Piccola conversazione su Andy Warhol e Leonardo al Museo Diocesano di Milano. Il punto di contatto è ovviamente il ciclo dell’Ultima cena del 1986, presentato al Palazzo delle Stelline nel gennaio 1987. Mi pare evidente che i due sono agli antipodi: tanto Leonardo va in profondità, tanto Warhol resta programmaticamente in superificie. Uno va in verticale, l’altro in orizzontale. Uno apre a un’infinità di dimensioni, l’altro è sempre sintonizzato sulla dimensione unica. Uno provoca vertigini e spaesamento, l’altro consolida certezze condivise. Leonardo è un pittore di ombre. In Warhol non c’è mai ombra di ombre (a meno che l’oggetto non sia l’ombra stessa, come nello straodinario ciclo Shadow). Eppure si incontrano. E l’incontro assume dimensioni di un lavoro che nella storia di Warhol non conosce paragoni, con quasi un centinaio di opere. E allora qual è il punto di interesse, o meglio di attrazione? Mi sembra di scorgerne due. Il primo è in quella natura di Warhol a schierarsi con i pittori che creano immagini capaci di diventare icone. L’icona è una sorta di sintesi dell’immagine originaria, una sua semplificazione prodotta dalla sua diffusione di mano in mano. Leonardo come il Raffaello della Madonna Sistina si prestano a questo tipo di “filtraggio”. Michelangelo con la sua imperiosità invece è poco metabolizzabile: e infatti Warhol non ci si imbatte mai.
Il secondo motivo d’attrazione sta nella figura di Cristo che Leonardo mette al centro della Cena. Un’immagine che Warhol intercetta come aveva intercettato altre icone mediatiche, da Marylin Monroe a Liz Taylor. Ma qui il volano mediatico non c’è. Non è l’attualità a mettergli davanti il volto da trasformare in “icona”. Nel caso dell’Ultima Cena è lui che cerca e trova questo volto di 500 anni prima (anche se il progetto Last Supper nasce dalla committenza di un grande gallerista come Alexander Iolas). È stato calcolato che Warhol, comprese le versioni in cui ha usato il volto di Cristo come multiplo, lo abbia affrontato ben 444 volte. In quel momento della sua vita, con il corpo minato, e il senso di una morte non lontana (Warhol muore un mese dopo l’inaugurazione milanese), questo incontro con il volto di Cristo suggerisce evidentemente altre ipotesi di lettura. Come quella che recita l’immaginetta che gli amici hanno distribuito al suo funerale: «Concedi Signore alle anime dei tuoi servitori defunti la remissione dei loro peccati; perché attraverso suppliche, possano ottenere il perdono che annosmepre desiderato».

Written by gfrangi

Agosto 24th, 2011 at 10:33 am

Ancora su Ballarin. Contro la tracotanza dei documenti

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Dal libro di Ballarin su Leonardo a Milano mi sono segnato questa riflessione, pagina 256, a conclusione del saggio sul Ritratto di Cecilia Gallerani (la Dama con l’ermellino).

«Da una parte vedo una disinvoltura, che a volte si esprime con toni di tracotanza, nel mettere sul tavolo i dati storici e documentari, in qualche caso neppure completi, e senza neppure avere fatto il possibile per comprenderne il significato, e comunque sempre con la presunzione di una loro assolutezza, di una loro autosufficienza rispetto alla serie dei documenti figurativi; dall’altra si capisce che lo storico dell’arte non si ritiene più capace, partendo dal documento figurativo correttamente acquisito in campo ad un’analisi formale dell’opera iuxta propria principia ed in relazione al contesto delle altre opere di quell’autore e delle opere degli altri autori che gli stanno intorno, di interferire nella serie storico-documentaria, verificandone la completezza e la plausibilità delle informazioni, interrogando il vuoto che per solito circonda la puntualità del dato archivistico, cioè il tanto non detto – perché interrogarsi sul che cosa il documento non ha detto è il modo migliore per capire il poco che ha detto -, inducendo eventualmente il ricercatore d’archivio ad un nuovo controllo della serie stessa, ed infine, se questo è il caso, procedendo autorevolmente per conto proprio, contro la stessa documentazione archivistica, nella costruzione del risultato».

Postilla: la pagina (241) in cui Ballarin legge l’opera lasciando sullo sfondo i documenti, è una pagina di straordinaria bellezza e un vero “affondo” nella grandezza di Leonardo.

Written by gfrangi

Agosto 21st, 2011 at 10:50 pm

Perché Giacometti amava i fotografi e i fotografi amavano lui

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Bella, lineare e semplice la mostra che Coira ha organizzato per presentare la donazione di uno straordinario gruppo di foto tutte con Giacometti come soggetto. A Coira Giacometti morì nel 1966, e quindi il nesso con la citale dei Grigioni è un nesso quanto mai logico. Le foto sono quasi tutte di grande interesse, alcune bellissime, e ripropongono una vecchia questione. Credo che nessun artista del 900 sia stato tanto fotografato quanto Giacometti. Un fatto strano se si pensa che è, per me, un artista agli antipodi del narcisismo. Basti pensare alle scelte del suo abbigliamento, immutabile negli anni e nelle stagioni: camicia, cravatta e giacca di tweed. Perché tutti i più grandi fotografi cercavano Giacometti e perché lui non chiudeva le porte a nessuno, neanche a quelli molto meno grandi? La prima risposta è semplice ed è legata in parte alla seconda: perché era un artista dalla presenza potentemente suggestiva e si rendeva sempre disponibile senza atteggiamenti da star. La seconda risposta invece è legata a una questione centrale della personalità di Giacometti. Cioè a quella che io ritengo essere la sua natura “trasparente”: non nasconde nulla di sé. È un grande senza ambiguità. Esporsi agli obiettivi di chiunque, accettare le intromissioni anche nel momento in cui è al lavoro, svelarsi sempre è nel dna della sua natura di artista. Una natura spalancata, senza zone d’ombra. Giacometti è l’artista più pubblico del Novecento, perché concepisce il creare come un bisogno individuale di entrare e esplorare mondi che non gli appartengono. Ma vuole capire, non impossessarsene. Mi sembra di scorgere in lui una spinta a condividere, a lavorare per tutti e non solo per sé.
Per questo la cifra umana che emerge dalle foto è quella di una generosità nel concedersi all’obiettivo, ma anche al rapporto con le persone. Per questo dalle foto viene fuori un personaggio che è impossibile non sentire amico. “Giacometti è stata una delle persone più intelligenti e limpide che abbia conosciuto, serio verso se stesso e severo verso il proprio lavoro”, ha detto di lui Cartier-Bresson, che gli fece negli anni decine di foto memorabili. Una inedita e meravigliosa, anni 40, è tra le rivelazioni della mostra di Coira. Si vedono l’artista e la moglie Annette scendere a rotta di collo, ridendo come ragazzini che hanno combinato una birichinata, dalla scaletta di legno che nel cortile di Hyppolite-Maindron portava dallo studio alla loro stanza. Un’immagine di una simpatia umana che conquista, un’immagine che documenta quella complicità amorosa con Annette, la moglie costretta a quella strenua vita da bohème. Una complicità che resisteva nel tempo ome testimonia un’altra foto scattata da Paola Salvioni Martini nel 1962 sulla porta della casa di Stampa: un abbraccio di slancio, appassionato e felice, pieno di una stima che va ben oltre i rovesci o i contrattempi della vita.

Written by gfrangi

Agosto 20th, 2011 at 3:31 pm

Il Leonardo di Ballarin, un libro che è come un mondo

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Ho approfittato della sosta ferragostana per una lettura che durante l’anno sarebbe complicata: il Leonardo a Milano di Alessandro Ballarin. Ovviamente è solo un inizio di lettura di un’opera immensa (quattro volumi, 2900 pagine, 2700 illustrazioni, 22 chili di peso…). Ho letto le 200 e passa pagine dedicate alla questione delle due Vergini delle rocce e la prima parte della Corte e il castello. È raro che la lettura così specialistica riesca a prendere l’attenzione anche di un non specialista. Ballarin attorno a questa vicenda, che fotografa un momento straordinario della vita di Milano ma non solo di Milano, avanza con una completezza di sguardo che lascia stupefatti. Non lresta inevaso niente e non restano zone d’ombra nel suo percorso. Se è il caso apre capitoli di dimensioni tali che da soli costituirebbero affascinanti saggi (ad esempio quello sul battistero di san Johannes ad fontes a Milano, che sorgeva dove poi Azzone costruì la cappella palatina – oggi san Gottardo in Corte: affondo importante per scavare nelle ragioni e nell’iconografia della prima Vergine delle Rocce, quella parigina. Qui il significato battesimale è molto esplicito).
Ma ci sono due aspetti dello “stile Ballarin” che da profano non specialista mi piace sottolineare. Primo, la scelta di procedere senza note. Tutto è testo, e tutto è necessario. Una scelta inedita, ma che non inficia la leggibilità del testo: infatti il contenuto delle note sono trasformati in incisi che scorrono nella lettura senza soluzione di continuità. La scelta è dettata dall’idea che tutto è necessario per arrivare a uno sguardo completo sulla vicenda. Ma la scelta credo sia motivata anche da un altro fattore, che coincide con la seconda osservazione che da profano mi sento di fare. Si avverte leggendo che Ballarin, mentre scrive, ha davanti una platea di studenti e deve rendere ragione loro, ad ogni passo, delle tesi che presenta. Non c’è spazio per le note mentre si fa una lezione… E Ballarin da questo punto di vista si dimostra un maestro perfetto che usa uno stile piano, un andamento persuasivo, che non lascia ombre nei suoi interlocutori, anche se chiede loro la pazienza di seguirlo nei percorsi che non conoscono scorciatoie. Porta i suoi interlocutori dentro “quel” mondo, passo dopo passo, pensiero dopo pensiero. Mi piace, ad esempio, come a volte gli capiti di infilare nel testo raccomandazioni che sono proprie da “maestro”. Ne ho in mente due.
“Chiunque a proposito, dovrebbe conoscere le pagine nelle quali Pier Desiderio Pasolini, scrivendo dell’adolescenza di Caterina Sforza, racconta l’assassinio del padre, quel giorno, attingendo ai testimoni oculari ed alle fonti: pagine di bellissima scrittura e di forte tensione drammatica” (pag. 293; Caterina è figlia di Galeazzo Maria Sforza, il primogenito di Francesco, ucciso nel 1476).
“… rimando il lettore alla lettera 426 della citata raccolta di Rubinstein, del 18 settembre ( 1479) al medesimo Morelli, dove Lorenzo (il Magnifico), ancora febbricitante per un attacco di terzana, svolge una serie di riflessioni generali sulla nuova situazione che si è venuta a creare a Milano e in Italia con il rientro di Ludovico a Milano. È una pagina che dovrebbe essere antologizzata nei manuali di storia e che tutti dovrebbero conoscere. È una sapienza politica che egli spera di poter mettere a disposizione di Ludovico attraverso il suo ambasciatore” (pag. 285).

Written by gfrangi

Agosto 16th, 2011 at 1:29 pm

Il bulino di Sciascia nel capolavoro di Durer

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Ho riletto ieri Il cavaliere e la morte di Sciascia. In cover c’era la grande incisione di Durer. Ed è straordinario vedere come la penna di Sciascia vada dentro l’opera del grande tedesco, esattamente come un bulino. Leggete questa pagina.

Stava intanto il Cavaliere la morte e il diavolo di Durer… gli parve prendesse, la Morte di Durer, un riflesso grottesco. L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della Morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la Morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte o di Guernica. E la Morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. “La morte si sconta vivendo”. Mendicante, lo si mendica. In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. Gagliardo alibi, nella vita degli uomini, tanto che si stava in quel momento tentando di fargli riprendere il vigore perduto: teologiche terapie d’urto, rianimazioni filosofiche, pratiche parapsicologiche e metapsichiche. Ma il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano far meglio di lui. E il Cavaliere: dove andava così corazzato, così fermo, tirandosi dietro lo stanco Diavolo e negando obolo alla Morte? Sarebbe mai arrivato alla chiusa cittadella in alto, la cittadella della suprema verità, della suprema menzogna? Cristo? Savonarola? Ma no, ma no. Dentro la sua corazza forse altro Durer aveva messo che la vera morte, il vero diavolo: ed era la vita che si credeva in sé sicura: per quell’armatura, per quelle armi.

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Written by gfrangi

Agosto 13th, 2011 at 10:16 am

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Bonito Oliva batte Jean Clair (ovvero: perché amare l’arte contemporanea)

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«Jean Clair non chiede più all’arte di essere domanda sul mondo, ma piuttosto una conferma del già dato e del già vissuto. La sua è una sfiducia nel futuro, vede l’arte come una minaccia». Per me si potrebbe chiudere qui, con queste parole di Achille Bonito Oliva, la polemica estiva lanciata dal Corriere della Sera dopo l’uscita in Francia del pamphlet (non il primo) di Jean Clair contro l’arte contemporanea (L’hiver de la culture). Mi sembra che Abo colga la questione, che va oltre una valutazione dei valori in gioco, delle furberie mediatiche a cui tanti artisti oggi ricorrono, dei giudizi che la storia poi darà. La questione è più radicale e riguarda il senso di fare arte oggi, il nesso con la vita del mondo e degli uomini. La prospettiva di Jean Clair è una prospettiva ultimamente accademica, che chiude fuori dalla porta le convulsioni del mondo e mette l’arte in una sorta di riparo morale e intellettuale. Francamente la trovo una prospettiva poco interessante. Non mi interessa che un pittore dipinga bene, mi interessa che la sua pittura si giochi con la vita del mondo. Non mi interessa una prospettiva in cui l’approdo del fare arte sia il muro privilegiato di un qualche collezionista “ben educato” ai valori dell’arte (e molto sensibile a quelli del mercato).
Mi guardo bene da chi propone qualsiasi ricetta schematica, perché in questo modo viene precluso all’arte la sua vera ragion d’essere: che, come dice Abo, è quella di “essere domanda”. E può essere domanda un grande quadro di Lucian Freud, come l’immenso cuore d’acciaio smaltato di rosso di Jeff Koons (in alto, nell’allestimento a Versailles). E mi fa sempre molto pensare il fatto che Francis Bacon, artista sempre parco di sentenze, avesse individuato in Damien Hirst il proprio erede…
Post scriptum: spesso mi capita di girare oper musei e gallerie con i figli e amici dei figli. Mi ha sempre colpito come la “grammatica” dell’arte contemporanea demonizzata da Jean Clair faccia invece facilmente breccia nella loro curiosità e metta in moto pensieri ed emozioni, sepsso non banali. Immagino che questa accada per affinità di linguaggi e per quell’apertura al futuro di cui parla Abo.

Written by gfrangi

Agosto 9th, 2011 at 8:21 am