Premetto: con tutto il rispetto che si deve a un’opera moralmente ineccepibile, non mi riesce proprio di amare il Quarto stato di Pellizza da Volpedo. Ora il quadrone è tornato in prima pagina per l’idea abbastanza bizzarra di spostarlo dalla casa che – bella o brutta che sia – gli hanno appena confezionato. Ho sempre avuto una certa ritrosia a razionalizzare questa mia freddezza, limitandomi a pensare che l’avere il Quarto stato come quadro bandiera di una nostra stagione storica, fosse assai meno eccitante che avere la Grande Jatte di Seurat, per citare un altro quadro di quelli di cui non “si può fare a meno”.
Ma in questo week end ho letto il libretto che Massimo Onofri ha dedicato al quadro di Pellizza, e ho trovato convincenti elementi per razionalizzare il poco entusiasmo. Onofri cita il drastico giudizio di Grubicy: «Perché il Quarto stato non è nato da un’emozione estetico = pittorica ma da una cerebrazione filosofico – umanitaria e quindi opera, come arte, nata=morta». C’è anche un riscontro oggetivo a questo giudizio di Grubicy, perché come dimostrato tutti i personaggi che Pelizza mette in posa, a partire dall’amata Teresa (la mamma con il bambino al centro), sono quasi tutti destinati a repentine e tragiche fini. Tanto che Onofri parla di un quadro ecatombe (e non dimentichiamo come finì il suo autore, pochi anni dopo). È un quadro che viene in avanti, ma che davanti non ha futuro. Che non sa darsi uno sguardo sul destino. Questo lo rende ancora più struggente al nostro sguardo: il problema sorge quando lo si trasforma in quadro bandiera. Allora diventa veicolo di retorica. Oppure, peggio ancora, di nevrosi.
Chiudo con il drastico giudizio che ne diede Boccioni: «Pellizza tra campi e lavoratori piange… Le scoperte italiane che dovevano derivare da impressionismo e divisionismo si impantanano e visi intristiscono esaurendosi». Giudizio drastico cui contrapponeva la parabola di Balla: «Solo, a Roma, diverso e feroce, stava Balla…»- E forse mi vien da dore che la celebre foto di gruppo dei futuristi (non per niente fatta propria dal grande Schifano) è la vera icona bandiera a cui conviene attaccarsi…
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Il Quarto stato, il quadro ecatombe
1 maggio, da Pellizza sino a Jeff Koons
Giustamente tempo fa l’amico Flaviano Zandonai dal suo Blog lamentava il fatto che quando un giornale pubblica un articolo di riflessione sul tema del lavoro il corredo iconografico sia sempre il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo. Non è possibile che l’arte in oltre un secolo non abbia sviluppato un’altra immagine del lavoro efficace ed emblematica quando quella? Il lavoro rappresentato da Pellizza sembra aver poco a che vedere con la realtà del lavoro di oggi.
Qualche esempio in realtà c’è. Ma è sparuto. Ho in mente le opere di Fernand Leger, prima metà del 900, con i suoi operai costruttori: un inno un po’ sognante alle “magnifiche sorti e progressive”. Ma nessuno, a mia conoscenza, che abbia sviluppato un’immagine capace di diventare “simbolo” della stagione del lavoro flessibile e immateriale.
È come se questo lavoro non avesse più una sua immagine, una sua energia identitaria, ma fosse una specie di buco nero nella coscienza collettiva. Più che per una sua presenza, il lavoro parla in assenza. Ho in mente le stupende foto di Gabriele Basilico, tra le Milano delle fabbriche dismesse. Monumenti di una stagione eroica, di una cultura industriale con tante contraddizioni dentro ma una grande energia umana che le aveva fatte essere.
Oggi il lavoro è anonimo, è muto, senza un volto. E l’arte che non ha il coraggio di entrare nel merito di questa sfida, rischia di ridursi a essere la ciliegina su una società pensata e modellata come un grande parco giochi.
In una recente intervista a Jeff Koons, uno dei più ricercati e quotati artisti viventi, si può trovare una ragione di questa disatnza tra l’arte e il lavoro. Koons spiegava, con grande sincerità, come è organizzata la produzione delle sue opere: «Il lavoro artistico è il gesto, l’idea. Creo le immagini delle mie opere al computer e i miei assistenti le realizzano al mio posto. Vengono create delle mappe molto elaborate e preparati i colori in modo che non debbano prendere nessuna decisione: sono la mia estensione». Il lavoro ormai è una dimensione eterea e immateriale. È un’idea non un azione. È uno stato e non un agire.
PS. Come immagine del lavoro ho una preferenza assoluta e forse poco moderna. Ma credo che commuova chiunque. È il San Giuseppe falegname di Georges De La Tour. La fatica di Giuseppe è una fatica lieta. Gesù ragazzino gli fa luce in una complementarietà che racchiude tutta la bellezza della vita. (anche il “lavoro” di Jeff Koons avrebbe bisogno di una presenza così…)