Bella, lineare e semplice la mostra che Coira ha organizzato per presentare la donazione di uno straordinario gruppo di foto tutte con Giacometti come soggetto. A Coira Giacometti morì nel 1966, e quindi il nesso con la citale dei Grigioni è un nesso quanto mai logico. Le foto sono quasi tutte di grande interesse, alcune bellissime, e ripropongono una vecchia questione. Credo che nessun artista del 900 sia stato tanto fotografato quanto Giacometti. Un fatto strano se si pensa che è, per me, un artista agli antipodi del narcisismo. Basti pensare alle scelte del suo abbigliamento, immutabile negli anni e nelle stagioni: camicia, cravatta e giacca di tweed. Perché tutti i più grandi fotografi cercavano Giacometti e perché lui non chiudeva le porte a nessuno, neanche a quelli molto meno grandi? La prima risposta è semplice ed è legata in parte alla seconda: perché era un artista dalla presenza potentemente suggestiva e si rendeva sempre disponibile senza atteggiamenti da star. La seconda risposta invece è legata a una questione centrale della personalità di Giacometti. Cioè a quella che io ritengo essere la sua natura “trasparente”: non nasconde nulla di sé. È un grande senza ambiguità. Esporsi agli obiettivi di chiunque, accettare le intromissioni anche nel momento in cui è al lavoro, svelarsi sempre è nel dna della sua natura di artista. Una natura spalancata, senza zone d’ombra. Giacometti è l’artista più pubblico del Novecento, perché concepisce il creare come un bisogno individuale di entrare e esplorare mondi che non gli appartengono. Ma vuole capire, non impossessarsene. Mi sembra di scorgere in lui una spinta a condividere, a lavorare per tutti e non solo per sé.
Per questo la cifra umana che emerge dalle foto è quella di una generosità nel concedersi all’obiettivo, ma anche al rapporto con le persone. Per questo dalle foto viene fuori un personaggio che è impossibile non sentire amico. “Giacometti è stata una delle persone più intelligenti e limpide che abbia conosciuto, serio verso se stesso e severo verso il proprio lavoro”, ha detto di lui Cartier-Bresson, che gli fece negli anni decine di foto memorabili. Una inedita e meravigliosa, anni 40, è tra le rivelazioni della mostra di Coira. Si vedono l’artista e la moglie Annette scendere a rotta di collo, ridendo come ragazzini che hanno combinato una birichinata, dalla scaletta di legno che nel cortile di Hyppolite-Maindron portava dallo studio alla loro stanza. Un’immagine di una simpatia umana che conquista, un’immagine che documenta quella complicità amorosa con Annette, la moglie costretta a quella strenua vita da bohème. Una complicità che resisteva nel tempo ome testimonia un’altra foto scattata da Paola Salvioni Martini nel 1962 sulla porta della casa di Stampa: un abbraccio di slancio, appassionato e felice, pieno di una stima che va ben oltre i rovesci o i contrattempi della vita.
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Perché Giacometti amava i fotografi e i fotografi amavano lui
L’allegria di Giacometti
Ci ha pensato su per 50 anni. E alla fine Paola Caróla, psicoanalista napoletana, ha raccontato in un libretto appena uscito la sua storia di modella per Alberto Giacometti. Leggendolo se ne capisce la ragione profonda: Paola Caróla vuole riscattare la figura di Annette, la moglie di Giacometti violentemente attaccata nella biografia di John Lord (un attacco che scandalizzò gli amici di Giacometti che avevano fatto un’inserzione sulla London Review of the books per difendere Annette. Tra le firme c’era anche Bacon). Paola Caróla posò alla fine degli anni 50, per un solo busto. Ma l’amicizia con i coniugi Giacometti si protrasse per molto tempo sino alle rispettive morti. Era una di casa: sono belle le descrizione dello studio a cui faceva da contrasto la stanza al piano di sopra, tenuta spartanamente linda da Annette: un quadro con le mele al muro, un letto un tavoilo sempre con fiori freschi al centro. È una stanza che rendeva Giacometti allegro. A volte si metteva a saltellare come un clown, a volte si concedeva complimenti molto canzonatori. La storia tra lui e Annette era una storia che reggeva anche ai tradimenti reciproci. «In fondo tra tutti i nostri amici siamo ancora la coppia che si intende meglio», aveva detto davanti a Martine Neeser, cugina di Annette. Scrive la Caróla: «A mio avviso la scultura era una sorta di intermediario tra marito e moglie, e allo stesso tempo oggetto di unione e diversità. Esprimeva la forza della loro reciproca appartenenza».
Quanto all’allegria, che per la Caróla era una componente strutturale di Giacometti, «nasceva dal concreto, da una limpidità di pensiero, da un discorso essenziale e diretto». E ancora: «Mi è successo di pensare che le sue sculture potessero essere ugualmente considerate come espressioni della soluzione al problema della solitudine, e dal vuoto che creano intorno a esse, cioé a partire dallo spazio che le determina, si stabilisce un legame con tutto ciò da cui esse sono separate».
(ho sempre pensato che fosse un amore e non un’ansia quello che muoveva Giacometti e che lo ha fatto smarcare dall’esistenzialismo in cui pure era immerso).
Nella foto: un abbraccio appassionato di Alberto ad Annette, a Stampa. Sotto, Paola Caróla con il busto di Giacometti.