Sentite che coincidenza. Il settimanale Panorama mi chiede un articolo su una mostra curiosa che si apre a Udine a metà novembre: verrà ricomposto un celebre quadro di Tiepolo, dipinto per un palazzo veneziano e poi tagliato per renderlo appetibile al collezionismo inglese, probabilmente già a metà 700. Risultato, la tela di quattro metri oggi è divisa tra Edimburgo (Il ritrovamento di Mosè) e Torino, Museo Agnelli (il fantastico Alabardiere con grande paesaggio di montagne innevate viste dalla laguna). Per trovare qualche spunto, apro il bellissimo libro di Alpers e Baxandall su Tiepolo e trovo questa lettura: il taglio del quadro non va semplicisticamente spiegato con ragioni di misure e di mercato, ma con la difficoltà a recepire la novità di Tiepolo. Che non costruiva più quadri attorno a un centro, ma mentalmente si era assestato su un modello compositivo nuovo, che sottrae a chi guarda un punto di osservazione prestabilito e lo induce quindi a muoversi per sperimentare vari punti di vista. Non a caso, scrivevano Alpers e Baxandall, i grandi capolavori di Tiepolo sono in ambienti di transito. È lì che lui si trova a proprio agio: la Galleria del Palazzo Arcivescovile, l’anticamera di Palazzo Clerici e soprattutto l’immenso soffitto di cielo che si svela salendo lo scalone del Palazzo di Würzburg. È la modernità di Tiepolo quindi che non è stata compresa e ha “legittimato” il taglio della tela ora ricomposta in un’unica cornice a Udine.
Il giorno dopo prendo in mano il nuovo stupendo libro intervista a David Hockney (A bigger message, Einaudi) e a pagina 181 trovo la stessa identica osservazione sul Tiepolo di Würzburg, il capolavoro che si dischiude man mano che ci si muove («E i personaggi non sembrano mai fuori posto. Funzionano da ogni angolazione», dice Hockney). Evidentemente il problema del Tiepolo tagliato non era di essere troppo grande ma di essere già troppo nella modernità.
Quando la pittura fa camminare. Tiepolo e Hockney
Michelangelo e le dita di Dio
Il 31 ottobre di 500 anni fa veniva svelata la Volta Sistina di Michelangelo. Mi piace ricordare la scoperta che fece anni fa Carlo Ossola, grande filologo, e che mi sembra emblematica per capire la vastità di quest’opera. Ossola aveva trovato come la fonte della scena madre della Sistina, la creazione di Adamo, fosse l’Inno liturgico del Veni Creator Spiritus. L’idea del dito di Dio che toccando quello di Adamo gli infonde l’anima, deriverebbe proprio da un verso dellì’Inno. Canta infatti l’Inno: «Tu, septiformis munere, digitus paternae dexterae»; «Dito della paterna destra irradia i tuoi sette doni divini». Ma non solo. Michelangelo segue alla lettera il dettato dell’Inno anche per quanto riguarda l’altra poderosa mano di Dio, che va a premere sulla gola del bambino che sta alle sue spalle. «Sermone ditans guttura» recita infatti il Veni Creator. «Susciti Parola alla voce»: Dio infondendo l’anima in Adamo la arricchisce con il dono della Parola, spiegava Ossola. Mi sembra davvero che la Volta Sistina è tutta raccolta nella potenza certa di quelle due dita di Dio.
Tu septifórmis múnere,
dígitus patérnæ déxteræ,
tu rite promíssum Patris,
sermóne ditans gúttura.
Dito della mano di Dio,
promesso dal Salvatore,
irradia i tuoi sette doni,
suscita in noi la parola.
La Madonna di Piccoli, con abito firmato Zara
Oggi a Bergamo presentiamo Pentecostés, il volumetto che raccoglie storia e fotografie dell’opera che Gianriccardo Piccoli ha realizzato lo scorso anno nella parrocchia di Portovejo, in Ecuador. Il volumetto raccoglie un racconto straordinario del vescovo che ha voluto quest’opera, Valter Maggi, un intervento di Silvano Petrosino che ha collaborato alla messa a punto dell’iconografia e un mio intervento. Ci sono tante cose che colpiscono nell’impresa di Piccoli, cominciando dalla generosità umana che ci ha messo. Ad esempio, la rappresentazione di Maria, sfida davanti alla quale nel 900 in pochi si sono misurati.
Piccoli l’ha inseria al centro della composizione, a braccia aperte (accogliendo un suggerimento di Silvano Petrosino); un gesto che dissolve immediatamente ogni cripticità nella resa di quell’evento prodigioso ma nient’affatto esclusivo. Le braccia aperte evocano il senso di una chiamata a partecipare, a stare vicini al cuore infiammato di Maria, tanto infiammato da aver arrossato la garza: lo Spirito Santo è per tutti e non per pochi.
La Madonna con il suo candore è davvero il perno, non solo geometrico, dell’opera. Lo è per via di quel mix di antico e di contemporaneità che si intravede nella sua postura. L’antico è in quel suo rifuggire da ogni atteggiamento ad effetto; in quel suo intrinseco pudore; in quella tranquillità piena di certezza. Il contemporaneo invece è nel suo stile, nell’eleganza semplice ma al passo con i tempi, nell’attenzione a ciò che anche l’apparenza comunica: non è un caso che a posare sia stata una ragazza reale, conterranea di Piccoli. E che sull’abito, purché fosse bianco, abbia avuto diritto di scelta lei: come confida Piccoli, si è presentata con abito con cinta alta, firmato Zara. Paolo Vi avrebbe senz’altro trovato in questa Madonna, vestita di una purezza contemporanea.
i segni di quella capacità di rendere l’immagine sacra “accessibile e comprensibile, anzi commovente”, di cui aveva parlato nel bellissimo discorso agli artisti del 7 maggio 1964.
Immaginate, la Pietà Rondanini a San Vittore
Quando sabato ho letto su Repubblica del progetto di portare per qualche mese la Pietà Rondanini a San Vittore mi sono detto che non ci poteva essere, in questo momento, un’idea più bella per Milano. La Pietà messa al centro panopticon da cui si partono i sei raggi e dove ogni domenica si dice la Messa, è un gesto dove la dimensione umana e quella artistica arrivano a coincidere. Non c’è bisogno di spiegare un granché: ma è un’operazione in cui vedo un doppio disvelamento. Innanzitutto il disvelamento della condizione disumana in cui oggi sono stipati mille e passa detenuti a San Vittore, cioè in un carcere che è nel cuore della città. Dall’altra il disvelamento di uno dei più grandi capolavori della storia della scultura, che oggi se ne sta infossato e dimenticato dietro quel malaugurato muro, al Castello Sforzesco.
Non voglio aggiungere altro, perché sarebbe solo retorica: ma ipotizzare la Pietà con quella Madonna inarcata a reggere il corpo del figlio in quel preciso luogo, incrocio di migliaia di storie di passione, mi sembra un’immagine di una potenza e di una commozione che ha pochissimi paragoni. Mi auguro davvero che Milano sia determinata e appassionata nel sostenere questo progetto.
Fare mostre in tempo di crisi
È stato utile lo scambio di vedute promosso dall’assessorato alla Cultura di Milano di Stefano Boeri sull’organizzazione delle mostre in tempo di crisi. Il “modello Bramantino”, mostra a budget basso, con ridotto spostamento di opere, ingresso gratuito e quindi grandissima fruizione da parte del pubblico ha rappresentato una novità che meritava di essere approfondita insieme a tutti gli operatori, in particolare quelli privati. Per la cronaca rimando ai tweet di Giulia Zanichelli (@giuzan, 19 ottobre)). C’è un punto sollevato da Enrica Pagella, direttrice di Palazzo Madama a Torino, che mi sembra “il punto” oggi da affrontare: cioè quello del pubblico. Ha detto Pagella che c’ è un «dovere imperativo di incontrare la domanda del pubblico», che non vuole dire assecondarla «ma farsi attraversare dalla domanda». Bellissima indicazione, soprattuttto perché viene da un funzionario pubblico che potrebbe starsene al riparo (non è un caso che Pagella sia stata nominata direttore dell’anno 2012). Farsi attraversare vuol dire indagarla, conoscerla e saperla interpretare provando a fornire così delle risposte che rappresentino anche un salto di qualità rispetto alla domanda stessa. Mi sembra una formula molto chiara e coraggiosa, che costringe ad uscire dall’angolo “sicuro” dello specialismo, obbliga a immaginare soluzioni nuove e coraggiose che stimolino il pubblcio ad un percorso di crescita e consapevolezza. I numeri del sistema torinese dicono che il coraggio viene ampiamente premiato
Ci si può chiedere in che senso la mostra di Bramantino abbia seguito questa logica. A me pare che un elemento vincente sia stato quello di aver saputo incrociare un artista di mezzo millennio fa con una sensibilità e uno sguardo contemporanei. Cioè di aver fatto un grande sforzo per far salire interesse e curiosità verso un autore che poteva essere soprattutto materia per specialisti, facendo leva su alcuni fattori che erano costitutivi della sua identità artistica, in primis la straordinaria bizzarria iconografica ben sintetizzata dall’immagine del manifesto con il rospo/demonio di scorcio a pancia in su. La stessa piena visibilità restituita agli arazzi nella Sala della Balla andava nella direzione di risucchiare lo sguardo dei visitatori verso la miriadi di particolari fantastici e fuori da ogni canone (la donna con il burka nella misteriosa scena che rappresenta il mese di febbraio è un po’ l’emblema), e quindi di far salire interesse e fascinazione per Bramantino.
Cosa significa questo? Che forse bisogna avere il coraggio e l’energia intellettuale per trovare, concependo mostre su artisti del passato (ma non solo quelle), un punto di incrocio con l’oggi. Il che non vuol dire trovare scorciatoie che accostino opere antiche con opere moderne… Ricorderò sempre come nell’introduzione al Caravaggio 1951 fosse questa la tensione sottesa al lavoro di Roberto Longhi. Tant’è che la sua lettura di Caravaggio insisteva poprio su questa capacità di riportare tutto al suo “oggi” (sottolineato con i corsivi nel testo…). Poi era stato quasi automatico, data la grandezza del personaggio, che l’oggi di Caravaggio si riversasse a piene mani sull’“oggi” di chi si metteva in coda a vedere quella mostra.
Non chiudiamo Bacon nella gabbia esistenzialista
Una mostra che sembra anche bella e fine, ma suggerisce un approccio sbagliato a Bacon. È quella che si è aperta alla Strozzina di Firenze, con curatori preparati e autorevoli e una selezione di opere di Bacon non scontate. È invece purtroppo molto scontato il tentativo di rinchiuderlo nella gabbia esistenzialista, circondandolo con una serie di epigoni contemporanei che mi sembra gli facciano più che altro il verso. Su Bacon perdura quest’equivoco che limita la vastità della sua esperienza: si continua a vederlo come se la sua pittura fosse la documentazione di processi di disfacimento, sino ad arrivare ad un vero strabismo che colpisce anche interpreti attentissimi: Marco Vallora sulla Stampa ad esempio parla di una pittura centrifuga (propria di dinamica di dissoluzione) mentre è assolutamente evidente che pochi artisti siano centripeti come Bacon. I suoi quadri hanno tutti un epicentro, che è insieme punto generativo delle forme e punto in cui le forme precipitano. È un fattore così esplicito, che Bacon a volte sente la necessità di rimarcarlo indicandolo con delle frecce inserite nella composizione. Bacon è un artista di un’irriducibilità biblica, quindi ciò che di più lontano si possa pensare da una temperie esistenzialista. È artista di certezze fisiche e feroci. Tra queste c’è quella che riguarda il corpo, anzi la carne dell’uomo. Bacon ne individua sempre il punto che sfugge ad ogni possesso, quel “luogo” in cui le fibre si generano avendo già in sé l’informazione della propria finitezza. Tutti i suoi quadri sono strategicamente costruiti per convergere su quel punto, in cui la pittura stessa assume una bellezza scandalosa, che come Bacon sempre rimarcava, era esito raggiunto ma fuori dal suo controllo. Una pittura che lì si fa insieme buio e splendore. Che registra il precipizio della creaturalità che generandosi porta già dentro l’implicito della propria morte. Nulla di pacifico, perché questo destino suscita scandalo, eccita alla lotta, incendia le forme. Ma tutto avviene dentro un ordine e una capacità di controllo del contesto che è misura della grandezza di Bacon; in un certo senso, di una sua struttura classica.
Bacon non è un pittore inquieto. È un pittore tragico, semmai. Che è cosa molto diversa. Perché l’inquietudine è un’esperienza di cui l’io resta in balìa, mentre il tragico è esperienza oggettiva in cui l’io è chiamato ad avere un’eroica lucidità. È per questo che il Bacon brutalizzatore dei corpi, alla fine sapeva ricomporli in forme di sconvolta ma assoluta bellezza?
Giri di danza con Picasso
Per fortuna c’è Picasso. È il primo pensiero che mi è venuto uscendo dalla mostra che ha restituito finalmente Palazzo Reale di Milano alla sua dignità. Sono i quadri traslocati dal museo parigino dell’Hotel Salé, quindi il gioco è stato facile. Ma averli sotto casa è pur sempre una bella sensazione; e l’allestimento sobrio e spazioso studiato da Lupi, Migliori e Servetto scandisce il percorso con un ritmo che esalta l’individualità delle opere e crea degli insiemi in cui nessun quadro si accavalla sull’altro. Insomma Picasso è messo in condizioni ideali per colpire e affondare ogni nostra più riposta riserva nei suoi confronti.
Qualche piccola nota. Guardate quanti quadri tra quelli in mostra siano datati al giorno/mese/anno. Fatti in un lampo, con una facilità/felicità che sembra perdurare ancora davanti ai nostri occhi. L’indicare il giorno di esecuzione è un gesto di spavalderia, come una sfida al tempo per dimostrare di essere stato più veloce di lui. Così facendo Picasso scassa le regole che tengono il presente lontano da quel passato. La data indicata è sempre un “appena ieri”.
È evidentemente meravigliosa la sala degli anni 20 con le Donne che corrono sulla spiaggia (notate l’apertura a compasso di braccia e gambe della donna in secondo piano: uno slancio totale e senza riserve verso la vita); a fianco c’è uno dei quadri più belli della mostra, la Danse Villageoise. Un lui e lei, di una potente gioventù, allacciati in una danza d’altri tempi: ma qui Picasso va oltre l’esercizio di forza che gli riesce sempre in maniera paurosamente facile. Nello sguardo del ragazzo infila qualcosa che non era nel copione: lui non guarda lei, a cui pure è allacciato con un gesto che dichiara un affetto senza tentennamenti. Lui scruta davanti a sé, con una venatura di controllatissima inquietudine. Si legge in profondità come uno struggimento sul suo volto. Scruta il futuro, la strada che lo attende, i passi da fare. Non si crogiola nella felicità del presente, pur avendone tutte le ragioni. Gli è istintivamente chiaro che il vero senso di quell’istante è di svelare una promessa: e a quella lui guarda. Davvero un grande quadro, memorabile per l’idea di uomo che sa esprimere (un’idea che sarebbe piaciuta a Péguy; a proposito, avete notato che quel casuale alone azzurro attorno al volto sembra un’aureola mediterranea…)
Ed è bellissima la sala che segue, la più delicata perché arriva dopo gli anni top, quelli a cui Picasso era riuscito di mettersi nella scia di Giotto e Masaccio. La sala ha solo quattro quadri, tutti improvvisamente sgorganti colori a piene mani. Sono quattro finestre spalancate sulla bellezza femminile; corpi annodati con una felicità che va oltre ogni impudicizia e mette per una volta a tacere la prepotenza sessuale di Picasso. Quattro canti accesi dalla luce di quel sole che s’affaccia alle spalle del Nu à Boisgeloup.
Ma è come sempre solo una tappa. Alla fine degli anni 30, altro giro di danza: Picasso già torna a dipingere corpi come con la clava, a smontarli per possederli, o meglio per dimostrarne l’interiore potenza…
Correte a vedere Bramantino
Domani ultima visita guidata con Giovanni Agosti alla mostra di Bramantino. Da non perdere.
È una mostra che è destinata a lasciare un segno per almeno tre motivi che mi sono molto chiari.
La prima: ha fatto riemergere un grande artista lombardo (il più grande scrive Agosti in catalogo) con un’operazione che non è solo di recupero storico culturale, ma posizionandolo in modo interessante rispetto all’oggi. Lo sperimentalismo di Bramantino, quella sua vena eclettica son fattori che lo rendono molto leggibile da uno sguardo cinetmporaneo. Il grande manifesto con il rospo a gambe all’aria (che sta per Lucifero) dell’(ex) trittico dell’Ambrosiana (immagine qui sopra) è un un po’ l’emblema di quel che volevo dire. Un po’ bizzarro, un po’ inquietante, figlio di una struttura mentale che oggi avrebbe amato frequentare i terreni della fantasy. (E Bramantino è contemporaneo anche per quelle sue ossessioni architettoniche che ne fanno creatore di topos ideali per Aldo Rossi).
Secondo: è una mostra che ha portato a riscoprire due lughi straordinari del Castello, la Sala del Tesoro dove l’Argo Bramantiniano vegliava sulle montagne di oro di Ludovico il Moro e la sala della Balla, liberata dall’assedio delle vetrine e con gli arazzi sistemati in una prospettiva spettacolare (lasciando piena visibilità alle stramberie della fantasia bramantiniana).
Terzo: la mostra ci lascia in mano uno dei migliori e più chiari cataloghi che abbia mai visto. Agile (anche nel prezzo), chiarissimo, completo senza mai essere pedante; con una qualità di immagini rara, anche per la scelta orami purtroppo desuete di fare una campagna fotografica nuova per le opere esposte: lo stesso occhio (quello di xcxcxc) le guarda tutte, garantendo un’omogeneità a cui non siamo più abituati. Un catalogo che davvero è un caso scuola, per la qualità, ma in particolare per l’attenzione al “pubblico” con cui è stato pensato: basti guardare le schede che sono in due corpi differenti, corpo grande per la parte che affronta l’opera nel suo insieme e corpo più piccolo per tutta la vicenda critica, ad usum degli specialisti.
Tre pensieri random su Vermeer
Vermeer e Roma. Mi fa sorridere l’idea di Vermeer (e soprattutto degli altri “piccoli” olandesi) sia approdato a Roma. Loro furono antitetici a quello che era Roma in quei decenni. Tutti centripeti, tanto la Roma berniniana era centrifuga; tutti focalizzati su un microcosmo, mentre a tutto a Roma era macro. Un po’ claustrofobici contro la trionfante ariosità della città papalina. Due mondi che più lontani non si potrebbero immaginare. C’è una curiosa intervista sul Corriere della Sera a uno storico belga, Jan De Maere, che per spiegare Vermeer racconta il risucchio verso il privato che la società olandese subì con l’austerità protestante, dopo il 1627. Ci si veste di nero, chi è rimasto cattolico la cappella se la fa in casa, «si dà massima importanza all’essere normali, al controllo sociale». E fa un esempio: «Per esempio era scontato non chiudere le tende di casa, così da mostrare a tutti la propria vita, nulla andava nascosto». In fondo nella pittura olandese dei petits maîtres i quadri sono come quelle finestre spogliate di tende. Si vede dentro tutto. Anche Vermeer s’adatta a quello schema. Il che non gli impedisce di trovare punti di fuga. Come ha scritto Ungaretti, la pittura di Vermeer è tutta un “qui”, «ma a me pare che quel “qui” sia una vastità».
Si sa che Vermeer ha un bel debito verso Marcel Proust, che nella Prisonniére definì la Veduta di Delft il più bel quadro del mondo. «Una piccola ala di muro gialla (“petit pain de mur jaune”), di cui non si ricordava, era dipinta così bene da apparire, a guardarla isolatamente, simile ad una preziosa opera d’arte cinese, di una bellezza che basta a se stessa». La cosa risaputa è che quel muro giallo non esiste e su questo “giallo” Lorenzo Renzi aveva scritto (edizione Il Mulino) un bellissimo libro cercando di non di risolverlo ma di spiegarne le ragioni. «Il solo muretto in predicato è quello all’estrema destra (in particolare quello centrale della serie della sequenza di tre muri), ma il colore giallo è quello del tetto inondato di sole. Proust deve avere associato il muretto di sinistra con il colore del tetto di destra». Un errore di superficialità? No, scrive Renzi: «Proust si documentava non per scrupolo di esattezza ma di verità». È a suo modo una chiave per capire Vermeer, che pur inseguendo un’esattezza, non si lascia mai definire da quella. È proprio ciò che lo distingue dai Petits maîtres. La sua è un’esattezza che scappa, che sfugge sempre di mano. Imprendibile come il pulviscolo nell’aria.
Vermeer e Picasso. Un terzo pensiero bizzarro mi veniva mettendo in fila alcuni dati materiali della vita di Vermeer: lentissimo a dipingere, un catalogo di poche decine di quadri, un mercato locale, una vita alle prese con problemi economici, una vita per altro breve, e anche molto riservata, monogamo, un’eredità di poco conto. Rovesciate tutti questi dati e avrete il profilo di Picasso, l’altro mattatore dell’autunno espositivo…
Dodici motivi più che sufficienti per amare Picasso
Me ne sono segnati 12, di motivi. Ma potrebbero presto diventare di più. Magari li aggiungete voi. È un gioco, ma serve a farsi un’idea più chiara sul perché Picasso, che piaccia o non piaccia, riesce sempre a essere (o a sembrarci) il più grande.
1. È un genio bambino, bambino sino all’ultima pennellata della sua vita.
2. Ha la baldanza del semplificatore nell’era tristissima delle complessità.
3. Non riesce ad essere ideologico neanche quando si propone di esserlo.
4. Riesce ad essere di nuovo masaccesco, senza avere più il mondo di Masaccio
attorno a sé (per conferma vedi immagine qui sopra).
5. Non ha dovuto scrivere niente per spiegare quel che era.
6. È un artista sessualmente irrefrenabile, senza mai essere vizioso.
7. Ha un ego gigantesco, ma lo rovescia in prodigalità espressiva. Cioè non tiene
il suo ego per sé.
8. È uno che costruisce anche quando distrugge (questa l’ha detta lui di sé).
9. Per lui l’arte non è mai fatica, nel senso che tutto gli riesce magnificamente
facile.
10. Non aveva mai bisogno di arrivare primo per dimostrare di essere il primo.
11. Non ha mai ceduto alla tentazione di fare della pittura una religione (né di
fare pittura religiosa).
12. Più che dipingere, ha scaraventato figure e forme sulla tela.