È stato utile lo scambio di vedute promosso dall’assessorato alla Cultura di Milano di Stefano Boeri sull’organizzazione delle mostre in tempo di crisi. Il “modello Bramantino”, mostra a budget basso, con ridotto spostamento di opere, ingresso gratuito e quindi grandissima fruizione da parte del pubblico ha rappresentato una novità che meritava di essere approfondita insieme a tutti gli operatori, in particolare quelli privati. Per la cronaca rimando ai tweet di Giulia Zanichelli (@giuzan, 19 ottobre)). C’è un punto sollevato da Enrica Pagella, direttrice di Palazzo Madama a Torino, che mi sembra “il punto” oggi da affrontare: cioè quello del pubblico. Ha detto Pagella che c’ è un «dovere imperativo di incontrare la domanda del pubblico», che non vuole dire assecondarla «ma farsi attraversare dalla domanda». Bellissima indicazione, soprattuttto perché viene da un funzionario pubblico che potrebbe starsene al riparo (non è un caso che Pagella sia stata nominata direttore dell’anno 2012). Farsi attraversare vuol dire indagarla, conoscerla e saperla interpretare provando a fornire così delle risposte che rappresentino anche un salto di qualità rispetto alla domanda stessa. Mi sembra una formula molto chiara e coraggiosa, che costringe ad uscire dall’angolo “sicuro” dello specialismo, obbliga a immaginare soluzioni nuove e coraggiose che stimolino il pubblcio ad un percorso di crescita e consapevolezza. I numeri del sistema torinese dicono che il coraggio viene ampiamente premiato
Ci si può chiedere in che senso la mostra di Bramantino abbia seguito questa logica. A me pare che un elemento vincente sia stato quello di aver saputo incrociare un artista di mezzo millennio fa con una sensibilità e uno sguardo contemporanei. Cioè di aver fatto un grande sforzo per far salire interesse e curiosità verso un autore che poteva essere soprattutto materia per specialisti, facendo leva su alcuni fattori che erano costitutivi della sua identità artistica, in primis la straordinaria bizzarria iconografica ben sintetizzata dall’immagine del manifesto con il rospo/demonio di scorcio a pancia in su. La stessa piena visibilità restituita agli arazzi nella Sala della Balla andava nella direzione di risucchiare lo sguardo dei visitatori verso la miriadi di particolari fantastici e fuori da ogni canone (la donna con il burka nella misteriosa scena che rappresenta il mese di febbraio è un po’ l’emblema), e quindi di far salire interesse e fascinazione per Bramantino.
Cosa significa questo? Che forse bisogna avere il coraggio e l’energia intellettuale per trovare, concependo mostre su artisti del passato (ma non solo quelle), un punto di incrocio con l’oggi. Il che non vuol dire trovare scorciatoie che accostino opere antiche con opere moderne… Ricorderò sempre come nell’introduzione al Caravaggio 1951 fosse questa la tensione sottesa al lavoro di Roberto Longhi. Tant’è che la sua lettura di Caravaggio insisteva poprio su questa capacità di riportare tutto al suo “oggi” (sottolineato con i corsivi nel testo…). Poi era stato quasi automatico, data la grandezza del personaggio, che l’oggi di Caravaggio si riversasse a piene mani sull’“oggi” di chi si metteva in coda a vedere quella mostra.
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Fare mostre in tempo di crisi
Correte a vedere Bramantino
Domani ultima visita guidata con Giovanni Agosti alla mostra di Bramantino. Da non perdere.
È una mostra che è destinata a lasciare un segno per almeno tre motivi che mi sono molto chiari.
La prima: ha fatto riemergere un grande artista lombardo (il più grande scrive Agosti in catalogo) con un’operazione che non è solo di recupero storico culturale, ma posizionandolo in modo interessante rispetto all’oggi. Lo sperimentalismo di Bramantino, quella sua vena eclettica son fattori che lo rendono molto leggibile da uno sguardo cinetmporaneo. Il grande manifesto con il rospo a gambe all’aria (che sta per Lucifero) dell’(ex) trittico dell’Ambrosiana (immagine qui sopra) è un un po’ l’emblema di quel che volevo dire. Un po’ bizzarro, un po’ inquietante, figlio di una struttura mentale che oggi avrebbe amato frequentare i terreni della fantasy. (E Bramantino è contemporaneo anche per quelle sue ossessioni architettoniche che ne fanno creatore di topos ideali per Aldo Rossi).
Secondo: è una mostra che ha portato a riscoprire due lughi straordinari del Castello, la Sala del Tesoro dove l’Argo Bramantiniano vegliava sulle montagne di oro di Ludovico il Moro e la sala della Balla, liberata dall’assedio delle vetrine e con gli arazzi sistemati in una prospettiva spettacolare (lasciando piena visibilità alle stramberie della fantasia bramantiniana).
Terzo: la mostra ci lascia in mano uno dei migliori e più chiari cataloghi che abbia mai visto. Agile (anche nel prezzo), chiarissimo, completo senza mai essere pedante; con una qualità di immagini rara, anche per la scelta orami purtroppo desuete di fare una campagna fotografica nuova per le opere esposte: lo stesso occhio (quello di xcxcxc) le guarda tutte, garantendo un’omogeneità a cui non siamo più abituati. Un catalogo che davvero è un caso scuola, per la qualità, ma in particolare per l’attenzione al “pubblico” con cui è stato pensato: basti guardare le schede che sono in due corpi differenti, corpo grande per la parte che affronta l’opera nel suo insieme e corpo più piccolo per tutta la vicenda critica, ad usum degli specialisti.