Robe da chiodi

Lo sguardo grande di Basilico

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Gabriele Basilico è grande in ogni senso. Grande come fotografo, ovviamente. Grande come sguardo, perché le sue sono immagini generose, precise ma mai pedanti. Grande come cuore , perché si coglie immediatamente che c’è una sorta di gratitudine verso tutti i luoghi davanti ai quali pone l’obiettivo. La mostra aperta a Milano all’Unicredit pavillon rende tutte queste molteplici dimensioni della grandezza di Basilico (una grandezza che è tutto meno che retorica). È una mostra che fa leva sui grandi formati, visti in spazi adeguati. Che si articola per prospettive visive e tematiche e non topografiche, facendo capire che per Basilico è l’idea di città che lo interessa, non una città piuttosto che l’altra. La città come condensazione dell’umano, come luogo reso bello dal fatto che qui si annida in modo irriducibile la vita, in tutte le sue forme, impreviste, non calcolate. Ci sono alcune considerazioni che mi sono annotato. Si vedono tante foto di Basilico prese da un punto di vista alto: lui ci ha sempre abituato al punto di vista marciapiede, quello che dimostra che. In c’è bisogno di prospettive speciali per scoprire la bellezza di una città. Ma qui lo vediamo esercitarsi in sguardi (Montecarlo, Napoli, Bari, Mosca…) colti dalla cima dei palazzi più alti. Sono sguardi rotanti, come a voler tirar dentro nell’obiettivo, con un movimento a spirale, tutta la città. Mi vien da pensare che nell’occhio di Basilico si erano impresse le immagini di Boccioni, altro grande artista innamorato delle città e della vita che sprigionano. Le viste dall’alto non sono solo vedute più larghe, sono prospettive più esplicitamente e dichiaratamente innamorate: mi vien da pensare che Basilico voglia aver voluto a curiosare nell’occhio di Dio. Cioè vedere le città come potrebbe vederle Dio…
Altro pensiero sulla foto di Basilico che amo di più, la più testoriana (non a caso volle esporla a Casa Testori per la prima edizione di Giorni Felici nel 2009). È la vista notturna di un gruppo di palazzi periferia. Che sia profonda notte lo dimostra non solo il nero del cielo, ma anche il fatto che non ci siano finestre illuminate. Ma notavo l’effetto straniamento che dà la facciata invece in piena luce, come sotto le luci di un riflettore. Non so dove Basilico abbia “rubato” tutta quella luce, e non voglio neanche saperlo. So che il silenzio degli uomini che dormono è vegliato da una luce potente. So che quella luce è un po’ come un bagno d’oro che racconta tutta la dignità di cui quella casa è testimone. So che la luce restituisce tutto il senso protettivo che la casa assicura a chi la abita. Quella foto è una “beatificazione” dell’idea di casa. Senza clamori, senza retorica, senza enfasi.
Infine, nella sala in alto, dove sono raccolte le foto dei porti, una parete mette in fila tre immagini con una linea di orizzonte che continua da una inquadratura all’altra. E quella linea lascia un grande spazio al cielo. Mi ha colpito questo amore di Basilico per il cielo. Quasi un bisogno di cogliere una dimensione di immensità che si armonizza con il microcosmo fitto che contrassegna la terra. Le foto di Basilico hanno sempre un respiro, che è un respiro affettivo prima che fisico. E queste foto con i grandi cieli sono lì come a farcelo scoprire e a farci guardare con un altro sguardo anche tutte le altre.

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Written by gfrangi

Gennaio 17th, 2016 at 2:26 pm

Natale con Kandinskij

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Una linea che precipita in un punto. Un segno grafico perfetto, un equilibrio impeccabile. Wassily Kandiskij, “Free curve to the point, accomanying sound of geometric curves” inchiostro su carta, 1925. Indubbiamente una meraviglia, che non finisci di guardare, a dispetto dell’essenzialità. Me si può festeggiare il Natale davanti ad un’immagine (scelta da Cl come immagine del Natale 2915) così apparentemente muta? Il Natale è la festa più semplice che ci sia: un bambino che nasce, povero e di fatto profugo. Nasce nonostante tutto. È semplice rappresentarlo, ci si può sbizzarrire in varianti, ma alla fine la storia è quella. E così è stato per secoli. La ripetizione è parte della commozione con cui gli uomini hanno vissuto e fatto memoria di quel fatto. Ma la ripetizione si è per secoli innescata su una capacità di fondo di “reinventare” la forma della narrazione di quel fatto. Di farla salire nel tempo, di portarla al qui ed ora senza tradirne il cuore. Senza questa capacità di reinvenzione quell’immagine resta relegata al buon folklore. Bello, popolare, commovente, ma marginale. Ora, da quanto tempo l’arte non sa reinventare, nel senso di farne forma cosciente al passo con il presente, quell’immagine? Tanto, tanto tempo. Nel 900, che pur non ha dimenticato il soggetto religioso e cristiano, i casi si misurano sulle dita di una o forse due mani. È comunque se qualche residuo resta è nella forma del Madonna con il Bambino, non del presepe e della nascita. La narrazione del fatto si è eclissata. Perché? Forse perché è venuta meno la coscienza universale della portata di quel fatto? Forse si è rotto il filo di coscienza che lega il fatto accaduto all’attimo presente? O forse è soprattutto una incapacità di lettura da parte nostra? Uno schematismo che ci tiene prigionieri di una buona e bella tradizione, fatta di immagini tenere e reiterate? Forse il segno del Natale oggi può essere colto fuori dalla mera rappresentazione, in forma di domanda, di attesa. In forma di un tracciato che è riflessione sul destino (sottolineo che nel titolo la curva è definita “libera”: un’attrattiva che non limita la libertà). Può essere riassunto nella nudità della sua dinamica. Magari inconsapevolmente. Senza che chi l’ha messo su carta abbia pianificato nulla, perché l’arte, come quel bambino, alle fine è una sorpresa di Dio. Del resto anche i pastori non avevano pianificato nulla. Però erano stati liberi di cercare…

Written by gfrangi

Dicembre 26th, 2015 at 11:17 am

La pittura, il “chiodo” di Gianni Dessì

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Questo dialogo con Gianni Dessì è stato pubblicato su Alias del 6 dicembre

Cosa vuol dire per un artista ragionare sull’essere artista? Ad esempio può voler dire spostarsi di 8mila chilometri e provare rappresentare sotto altri cieli chi si è e che cosa ci si sta a fare. Rappresentarlo a se stesso e agli altri. È la rotta che Gianni Dessì ha seguito lo scorso anno e che lo ha portato da Roma a Pechino per realizzare una triplice installazione. Sono tre teste di dimensioni monumentali («Per toglierle da una dimensione naturalistica», spiega Dessì). Sono dichiaratamente autoritratti, anche se le questioni fisiognomiche sono le ultime a cui lui abbia prestato attenzione. Quello che gli premeva era mettere nero su bianco, dar visibilità ed evidenza al “sine qua non” dell’essere artista.

Ecco allora il percorso, scandito appunto in tre “stazioni”, con chiarezza estremamente meditata e quindi quanto mai persuasiva. Prima stazione, una grande testa in bronzo dipinto di rosso, con una griglia impreziosita da un filo dorato davanti agli occhi: “il vedere”, come atto che crea una relazione; l’atto del vedere nell’artista s’avvale di una griglia, attraverso la quale il disegno s’insinua e prende forma (annota Dessì: «L’arte si è infilata in un intellettualismo che si astrae dalle cose. Io invece penso che si debbano “ficcare” le mani nelle cose»). Segue poi la seconda stazione, la più poetica: una testa più monumentale delle altre perché appoggiata su un piedistallo. Dalla bocca, soffiando, riempie e dà forma a una sfera perfetta, bianca, d’acciaio. Una bolla in bilico sulle labbra dell’artista, resa leggera e quasi aerea dal suo fiato. «È il respiro dell’opera», ci dice Dessì. «la sua capacità vitale creare forme e nuove geometrie. È l’aura che riesce a far vibrare attorno a sé, che fa pensare, che commuove». Infine alla terza stazione c’è la grande testa gialla, marchiata frontalmente da un rettangolo nero: è la dinamica del dentro e del fuori, «un dentro che segna e che rivela, che si staglia nitido nell’asperità della materia». L’arte è un “dentro” che accetta la sfida di venire a galla, di uscire allo scoperto, di non restare più soltanto “dentro”. Il titolo dell’installazione non è un dettaglio: “Tre per te”. Chi è quel “te”? Può essere innanzitutto l’appassionato magnate e collezionista cinese che ha commissionato a Dessì quest’opera, George Wong; collezionista con particolare vocazione a raccogliere arte italiana. Ma il “te” è anche lo spettatore, cioè chiunque passi di da quel grande edificio di Pechino, contenitore di un po’ di tutto, davanti al quale l’opera è stata collocata. Dessì: «È dedicata a Gorge Wong che l’ha voluta ma è dedicata anche a chiunque passa di là». Come a dire l’arte non può essere per me se non c’è anche un “per te”. E ogni tanto davanti a questo prezioso e indispensabile “altro” è necessario scoprire le carte, per riaffermare le ragioni e la legittimità del fare.
L’arte, sembra voler dire Dessì, oggi ha sempre bisogno di un riesame, di incrociare la sua ragion d’essere. Di meditare sul proprio statuto.

La stessa cosa accade, questa volta su scala minima all’ingresso della mostra di Gianni Dessì alla Galleria milanese Progettoarte-Elm. Il visitatore è accolto una piccola opera, vagamente impertinente. Con i suoi 61cm per 30 occupa la parete grande. La didascalia ci dice che la tecnica è olio su cartoncino telato, ma aggiunge anche due altre voci: “cordino e chiodo”. Il cordino è attaccato agli angoli alti del cartoncino, e lo regge grazie al chiodo che in alto chiude il triangolo. Il cartoncino, dice la stessa didascalia, è “su muro”: in questo modo vien ribadito in maniera incontrovertibile che l’allestimento è parte costituiva dell’opera. E che il chiodo è condizione indispendabile perché quella pittura esista. Quella pittura, o forse tutta la pittura. Gianni Dessì parla con un affetto del tutto particolare di questa piccola opera semplice e senza pretese. «È una piccola cosa», racconta. «Un omaggio a Mario Schifano, da cui ho preso anche il titolo, “con anima”. Il chiodo è parte pienamente espressiva, perché regge l’evidenza della pittura sul muro e rende palese la sua gravità. Il senso dell’omaggio sta nel fatto che Schifano era un posseduto dalla pittura: quello era il suo vero demone. Non la possedeva, ne era davvero posseduto. Per questo è come se avesse rinnovato fiducia nella pittura, dandole una nuova possibilità in tempi per lei sostanzialmente ostiliL la pittira che ritrovava un suo senso nel far crescere i riverberi tra le cose».

C’è un ripetuto accento tautologico nel lavoro recente di Dessì. Troviamo un quadro intitolato “Sulla tela”; un altro è “Interno”, e lascia emergere una forma che sembra la crociera del telaio; “Nel mezzo”, opera grande in vetro resina e tempera sempre “su muro”, cita se stessa e insieme la forma che rappresenta. Non si tratta di sofisticati giochi linguistici, ma di un’accorata ricerca di un luogo, del “luogo”: quello della pittura. Un’altra parte di opere presenti alla mostra milanese, invece si presenta “senza titolo”. «“Senza titolo” significa che la pittura non parte da un mio progetto. Non ha un nome. A volte il nome esce fuori, perché è l’azione stessa del dipingere che lo fa emergere e me lo fa trovare. Io allora assisto con sorpresa al manifestarsi delle immagini e a volte al loro riconoscimento. Per esempio, il “senza titolo rosso” mi ha fatto pensare alla mitologia, a Diana, all’immagine ghiacciata del bosco». E infatti il nome di Diana ha fatto capolino nel titolo, con pudore, messo tra parentesi.

«Il titolo, quando c’è, lo trovo alla fine, non all’inizio. Perché se dovessi semplicemente fare il quadro che “so”, quello che ho nella mia mente, che ci starei a fare?», continua Dessì, approfondendo il ragionamento iniziato. «Ogni volta invece cerco il quadro che non so, cerco l’altrove che ti si affaccia, imprevisto nella sua modalità di palesarsi. A volte è possibile che l’immagine resti in filigrana, e deve cercarla anche chi si ferma a guardarla, allo stesso modo di io che la faccio. A volte può accadere che la pittura ti chieda di violare anche l’integrità della superficie. Se non si accetta questo scarto – che è poi il mistero della pittura – resta solo lo stile. Ma lo stile non interessa più a nessuno, nemmeno a me che ne sono l’autore. Lo stile per me è la pittura che si accontenta di andare in folle. È pittura che si mette al riparo dall’imprevisto».

Nell’arte di Dessì è facile scorgere un’anima teatrale, certamente rafforzata dalle sue numerose incursioni per realizzare scenografie in particolare per Peter Stein (Parsifal, 2002 e Il Castello del duca Barbablù, 2008), sino alla recentissima collaborazione per le scene e i costumi de Il suono giallo di Alessandro Solbiati, ispirato al testo originale di Wassilij Kandinsky. Così gli viene da pensare al supporto –tavola, tela, ma anche scultura – come ad un palcoscenico, allestito perché qualcosa vi “accada”. Dessì conferma questo parallelo, e rivela un altro punto di contatto: il tempo. «Il teatro», dice, «è un luogo che incrocia un tempo: il tempo sulla scena cade dentro un “divenire”. Nella pittura invece il tempo cade dentro l’attimo che fa affiorare l’immagine; è un gesto che incontra l’immagine e la mette in parallelo con la vita e con le cose che si incontrano, quasi per verificarne la tenuta».

Se ci sono Pechino e Milano nella recente agenda di Dessì, Roma resta il luogo per antonomasia del suo agire e del suo pensarsi.
La Roma a cui ha legato tutta la sua biografia umana e artistica e a cui continua a guardare, quasi con gratitudine, come ad una matrice insostituibile. «Roma per me è la storia. Non una storia che ti tiene in ostaggio con la sua grandezza, ma una storia al contrario che ti libera, perché ti dice che non sei immortale, che tutti siamo eredi e che abbiamo a che fare con la metamorfosi di quello che abbiamo ereditato. Roma è un argine al deserto della modernità. È il luogo in cui le forme hanno sposato le idee e i desideri degli uomini, anche fossero stati i desideri di potere».
Ed è in questa Roma di oggi ferita, assediata e logorata che Dessì continua a lavorare, aggirandosi attorno a quell’unico pensiero: cosa è, cosa dovrebbe essere lo sguardo di un artista. E per suggestione si pensa a quella sua familiarità con il giallo, quel giallo che solca frontalmente il bellissimo Ritratto in ceramica raku in mostra a Milano. Lo sguardo è lievemente e poeticamente orientato verso l’alto. E sentendo Dessì se ne capisce il perché: «Il giallo è colore che sollecita il tutto. È il materializzarsi di una visione che si avvicina all’accecamento. Forse ha a che fare con un sogno. Quello dell’infinito».

Written by gfrangi

Dicembre 24th, 2015 at 11:14 am

Dondero l’angelo della fotografia

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Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Mario Dondero, Francis Bacon nello studio, 1961

Ieri è morto Mario Dondero, un grande fotografo, grande per il suo radicale antinarcisismo. Nel libro Electa pubblicato in occasione della grande mostra romana dello scorso anno c’era un breve intervento di Giorgio Agamben. Ve ne propongo un passaggio, per me straordinario.

Mario ha espresso una volta una certa distanza rispetto a due fotografi che pure ammira, Cartier-Bresson e Sebastião Salgado. Nel primo egli vede un eccesso di costruzione geometrica, nel secondo un eccesso di perfezione estetica. A entrambi oppone la sua concezione del volto umano come una storia da raccontare o una geografia da esplorare. Nello stesso senso anche per me l’esigenza che ci interpella dalle fotografie non ha nulla di estetico. È, piuttosto, un’esigenza di redenzione.
L’immagine fotografica è sempre più che un’immagine: è il luogo di uno scarto, di uno squarcio sublime fra il sensibile e l’intellegibile, fra la copia e la realtà, fra il ricordo e la speranza. A proposito della resurrezione della carne, i teologi cristiani si chiedevano, senza riuscire a trovare una risposta soddisfacente, se il corpo sarebbe risorto nella condizione in cui si trovava al momento della morte (magari vecchio, calvo e senza una gamba) o nell’integrità della giovinezza.
Origene tagliò corto a queste discussioni senza fine affermando che a risorgere non sarà il corpo, ma la sua figura, il suo eidos. La fotografia è, in questo senso, una profezia del corpo glorioso. È noto che Proust era ossessionato dalla fotografia e cercava con ogni mezzo di procurarsi le foto delle persone che amava e ammirava. Uno dei ragazzi di cui era innamorato quando aveva 22 anni, Edgar Auber, gli regalò, su sua insistente richiesta, il proprio ritratto. Sul verso della fotografia, scrisse in guisa di dedica: «Guarda il mio volto: il mio nome è Avrebbe Potuto Essere; mi chiamo anche Non Più, Troppo Tardi, Addio». La dedica è certamente pretenziosa, ma esprime perfettamente l’esigenza, così viva in ogni foto, di cogliere il reale che si sta perdendo per renderlo nuovamente possibile.
Di tutto questo la fotografia esige che ci si ricordi, di tutti questi nomi perduti le foto di Mario testimoniano, simili al libro della vita che il nuovo angelo apocalittico – l’angelo della fotografia – tiene fra le mani alla fine dei giorni, cioè ogni giorno.

Written by gfrangi

Dicembre 14th, 2015 at 2:07 pm

Vedere El Greco con Doninelli

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El Greco_SanDemetrio_CollezionePrivata

ElGreco - polittico 1

L’amico Luca giustamente mi rimprovera di trascurare un po’ il blog… Ammetto, sono colpevole. Cerco piccola riparazione innanzitutto con qualche pensiero dalla trasferta di sabato l’altro, che proprio con Doninelli avevo fatto, per andare a Pordenone dove davano il premio Cavallini a Marc Fumaroli. Sul percorso ci siamo fermati alla mostra sul giovane El Greco a Treviso. La mostra è emozionante perché ti accompagna dentro la genesi, o meglio lo sbocciare (uno sbocciare per la verità abbastanza irruente ed esplosivo) di un genio. Nella stupenda tavoletta con il San Demetrio, dipinta quando ancora stava a Creta, si assiste all’energico districarsi dell’allora Domenico Theotokopoulos dalla griglia delle icone. Il Santi, agitandosi sul trono, sembra in realtà volersi divincolare da quell’obbligo di piattezza proprio della tradizione greca: come quei personaggi dei film d’animazione che escono dalla carta per entrare in un corpo 3D. È un passo irruente quello di El Greco, pur nelle dimensioni “micro” degli altaroli a cui i suoi committenti a Venezia lo costringono. È un artista che s’imbeve della libertà che Venezia gli dava per ricavarne poi una miscela fiammeggiante, eccitata all’inverosimile. Non c’è nulla di quella vocazione al “riposo” che era propria della suprema grandezza di Venezia. El Greco è inquieto. Le sue sembrano opere dipinte con la fiamma ossidrica; superficie pittorica che scotta al contatto. È una pittura-fuoco che con la maturazione El Greco trasformerà in “stile” facendone la propria cifra inconfondibile. Facendola “stile” la governa e tiene sotto controllo. In questa fase giovanile invece è più esposto al rischio di “bruciarsi”; al rischio di un risucchio che potrebbe rompere ogni equilibrio. Anche in un quadro più pacificato dal punto di vista compositivo come l’Adorazione dei Magi (ne ho parlato nella rubrica su Piccole Note), il pastore in primo piano perde non a caso l’equilbrio, ma tutta la scena ambientata su un paesaggio romano sembra comunque contratta in uno spasmo: gli stessi mantelli e vestiti sembrano un po’ il sismografo di questo smasmo.
Peccato che la mostra cada in modo ignominioso con la presentazione di due carte contestatissime di Bacon, per dire (senza che nessuno in realtà se lo sia chiesto) quale sia l’eredità del Greco nel 900…

Il diario della giornata prosegue con la tappa a Pordenone. Nel Duomo una pala giovanile (1515) della gloria locale, Giovanni Antonio de’ Sacchis, detto of course il Pordenone, mi colpisce per la sua antitetica capacità di pace. È un soggetto insolito, perché la tradizionale Madonna che tiene sotto il mantello i fedeli è affiancata da un San Giuseppe che tiene orgogliosamente in braccio Gesù Bambino, mostrandocelo. Lo tiene alla rovescia, senza preoccuparsi troppo delle buone maniere. Spavaldo come può esserlo un padre. Bellissimo.

Ultimo appunto: nel corso della premiazione, Vittorio Sgarbi legge una bellissima pagina di Fumaroli, in cui viene citato Gilles Deleuze a proposito di Bacon: «Il pittore è un macellaio, certo, ma egli sta nella sua macelleria come in una chiesa, con la carne macellata come Crocefisso». (la citazione è presa da questo libro di Deleuze)

Pordenone-Duomo-Pordenone

Written by gfrangi

Dicembre 9th, 2015 at 1:20 pm

Testori e Fontana, una libera affinità

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Sabato 21 a Varese al Castello di Masnago (ore 15) verrà presentato il catalogo della bella mostra Sacri Monti e altre storie, a cura di Claudia Tinazzi e Massimo Ferrari. Una sezione della mostra, alla Sala Verratti, mette a confronto in modo molto intelligente la Crocifissione di Testori del 1949 e un Crocefisso in ceramica di Fontana del 1947, tutt’e due con relativi disegni. Per capire quale sviluppo ha avuto l’idea di Sacro Monte. Per il catalogo ho scritto questo piccolo intervento.

Unknown

«Questo groviglio di materie, superbamente glassate, come solo sapevano fare gli anonimi terracottisti Sukhotai nel XIV secolo; superbamente e, aggiungiamo, angosciantemente glassate, quasi l’invetriatura fosse un caramello sanguinante, sacrificale e insieme stellare».
Giovanni Testori a proposito della Via Crucis, 1947 di Lucio Fontana,
in Il Corriere della Sera, 2 ottobre 1988

1949. Gli affreschi che Giovanni Testori ha dipinto sulle vele della chiesa di San Carlo, in Corso Vittorio Emanuele a Milano, vengono scialbati. 1952. Nel concorso per la quinta porta del Duomo Lucio Fontana si vede scartato a favore di Minguzzi. Due sconfitte in uno stretto arco temporale, e in ancor più stretto spazio topografico. Testori, cattolico ancestrale e Fontana, cattolico molto “aereo” si trovano uniti curiosamente da uno stesso destino: essere scartati. Non si può dire che li leghi altro che questa coincidenza, in quanto le rispettive convinzioni artistiche divergono. Tanto erano corporali e centripete quelle di Testori, quanto erano aeree e centrifughe quelle di Fontana. Uno è tutto fisico, l’altro programmaticamente spaziale. Non si conoscono. Frequentano due Milano artisticamente diverse. Testori con Guttuso e Morlotti all’ombra di Picasso. Fontana con Beniamino Joppolo e Roberto Crippa in terreni vergini. Se Testori è artista che diversifica in mille altre attività intellettuali, Fontana è artista in esclusiva. Se Testori ha una memoria densa di substrati e di riferimenti, Fontana, appena rientrato dalla sua Argentina, è un po’ un uomo del mondo nuovo, ripulito da soggezioni nei confronti di ogni passato. Eppure in quel loro ignorarsi, in quel loro essere così geneticamente diversi, ecco che oggi scopriamo una episodica ma non casuale sintonia. Sono quegli incroci non calcolati e neppure calcolabili, che però finiscono con il rivelare, dei rispettivi protagonisti, risvolti che non si erano immaginati. Come due pianeti le cui orbite per un attimo sono tangenti l’una all’altra, e in questo modo si gettano, reciprocamente, luci inedite.

2015. In Sala Veratti a Varese Testori e Fontana per la prima volta si trovano ad essere esposti insieme, in forza della proposta più che persuasiva avanzata dalla curatrice Claudia Tinazzi, sulla base della recensione di un Testori folgorato nel 1988 dalla Via Crucis Niccoli. Il pretesto è il comune occuparsi del tema della crocefissione alla fine degli Anni 40. Per tutti e due non è un impegno né occasionale né rituale. Ma per Testori la crocefissione diventa un’icona che concentra e prende carico di tutto il dolore della storia. Per Fontana invece è come uno strappo che spinge oltre la storia. Ancora una volta sembrerebbe che la coincidenza iconografica vada poi a incocciare e infrangersi contro il muro delle differenze. Del resto anche i fogli esposti nelle bacheche parlano di linguaggi quasi incompatibili tra loro.

Nello stupendo ciclo dei “disegni ritrovati” del 1949, il segno forte, quasi urlato di Testori – come se i fogli fossero stati non disegnati ma colpiti con un coltello – si distanzia dal segno leggero, volante che Fontana sembra aver solo soffiato sulla carta. Il quadro che Testori ricava da quei disegni è una tela sotto assedio, stipata drammaticamente di simboli e di richiami alla Passione. Non c’è centimetro di spazio libero perché la pressione espressiva occupa tutto, si prende tutto. Sull’altro lato della sala il Crocifisso di Fontana, invece s’inarca dentro quell’incendio di ceramica, come per proiettarsi nello spazio esterno, per dimostrare di non essere ostaggio di quella, pur bellissima, materia. Ancora una volta tra Fontana e Testori va in scena il gioco degli opposti.

Eppure i due insieme, in quella sala, ci stanno benissimo. In qualche modo, misteriosamente, dimostrano di legare. Non credo però che ci sia categoria critica che possa spiegare questo insospettato affratellamento. La ragione è altrove, ed è più profonda di tutto ciò che li aveva tenuti lontani. La chiamerei una libertà senza complessi e senza riverenze (neanche di carattere ecclesiale). Una libertà rispetto all’obbligo di caricare di messaggi un soggetto pur così pregnante di significati. Tutt’e due se la giocano su un piano squisitamente personale: la Crocifissione è un “a tu per tu”, non è pretesto per far prediche al mondo. Ma questa libertà, che è soprattutto una grande libertà intellettuale, ha anche una cifra stilistica, intima, che la contrassegna. È quella di un barocco che riemerge dal profondo, come opportunità, come impeto che rompe gli schemi e mischia le carte. Un barocco che Fontana e Testori sentivano sulla loro pelle e che bruciava sulle loro dita, come un’eccitazione, una vibrazione incessante di vita: quindi non eredità culturale ma al contrario energia che affranca da ogni ingabbiamento culturale.

Written by gfrangi

Novembre 17th, 2015 at 9:34 am

Antonello – Foppa, uno scambio insensato

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Oggi avviene ufficialmente lo scambio tra Milano e Firenze: va agli Uffizi per 15 anni il San Benedetto di Antonello da Messina di proprietà della Regione Lombardia e custodito alla Pinacoteca del Castello. Va per unirsi alle altre due parti del polittico che sono dal 1996 nelle raccolte degli Uffizi. Milano si priva dell’unico Antonello nelle sue raccolte. Ma, cosa ancor più incomprensibile gli Uffizi si privano dell’unica opera di Foppa, Madonna con il Bambino e un angelo (1479/80) presente nelle raccolte. Come si legge nella scheda del museo, si tratta di «Opera entrata agli Uffizi nel 1975 per esercizio del diritto di acquisto proposto dall’ufficio Esportazione della Soprintendenza di Firenze e caldeggiato dal Soprintendente». Soprintendente che allora era Luciano Berti. Basta leggere Wikipedia per leggere la motivazione di quell’acquisto, a capire l’insensatezza di questo scambio: «andò a colmare un vuoto in galleria circa le opere si scuola lombarda prima di Leonardo».
Se gli Uffizi devono essere la pinacoteca “nazionale” italiana, da domani lo saranno un po’ meno… Da foppesco della prima ora la considero un’umiliazione.

Written by gfrangi

Novembre 1st, 2015 at 1:53 pm

Fontana, la fine senza fine

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Ragionavo sul magnifico Fontana che ha fatto 22milioni di euro l’Italian sale di Londra. Ragionavo a partire da quel titolo “imprendibile”: “Concetto spaziale. La fine di Dio”. Facendo la tara all’ironia con cui Fontana “proteggeva” sempre le sue opere, c’è la sensazione di un’intuizione leggera e profonda in quel titolo, che non riguarda il contenuto ma il contenitore. Cioè la struttura dell’opera diventa il tema, con quella sua fisionomia cosmica e quelle forature da proiettili di stelle. Intanto la fine di Dio non è una fine temporale, ma la fine di un’idea di raffigurabilità di Dio. Lo aveva intuito Gillo Dorfles: «Quest’ovo… può ben costituire il simbolo di una divinità sempre presente, sempre fecondante, sempre fecondata; e anche il simbolo che si viene a sostituire all’iconologia d’una antica figuralità ormai usurata e consumata; al posto dell’icona sacra il Sacro ovo la “fine di Dio” significa l’inizio di una semanticità nuova, quella d’un simbolo eterno, sempre innovantesi nella diversità delle sue accezioni nella molteplicità delle sue interpretazioni».
Fontana poi con quelle sue frasi che un po’ chiariscono è un po confondono il suo interlocutore aveva detto: «Per me significano l’infinito, la cosa inconcepibile, la fine della figurazione, il principio del nulla». Parla di infinito nel momento in cui dedica un quadro ad una “fine”… E allora quella fine di Dio inizia ad essere concetto davvero sfuggente, imprendibile, com’è imprendibile l’idea di Dio. Diventa qualcosa che assomiglia all’idea di sconfinamento dal dicibile. Fontana ha sempre la grazia di essere semplice, folgorante nella tenuta concettuale dei suoi quadri. Di puntare verso orizzonti grandi senza mai sovraccarico di retorica.
L’oggetto, nella sua fisicità, racconta di una fine che non conosce fine. Evoca un infinito.

Written by gfrangi

Ottobre 23rd, 2015 at 9:01 am

Doninelli, magia in copertina

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Sul tavolo il nuovo imperdibile romanzo di Luca Doninelli. Un libro che si presenta in modo molto cordiale nonostante la mole. Pagine ariose, corpo grande del carattere, consistenza morbida al tatto. Ovviamente attrae l’immagine di copertina: un’opera di Claudio Sacchi, artista rappresentante del “realismo magico”. Il titolo è Itaca e immagino sia il piccolo Telemaco che con la testa incoronata di fiori guarda verso il mare in uno degli infiniti giorni nell’attesa del ritorno del padre. La copertina è bella perché l’immagine dialoga bene col titolo, messo tutto maiuscolo, con caratteri in trasparenza al centro: Le cose semplici. È una copertina che accende la suggestione di chi osserva, che invoglia a trovare nelle pagine quello che il bambino sta scrutando nell’immagine dipinta. «Ma quello che avevo davanti era qualcosa di più», dice del resto la frase scelta per il retro della copertina. È questo “qualcosa di più” è la calamita che chiama dentro il lettore.
Dico questo perché di per sé il quadro è quello di un artista un po’ anacronistico. Sono andato a vedere il suo sito e come prevedibile ho trovato un artista un po’ fuori dalla storia, di gusto spesso discutibile, che sogna di stare in continuità con un passato ormai dissolto e che si è trasformato in un presente di tutt’altro stampo.
Fatto sta il suo quadro in copertina, scelto da Elisabetta Sgarbi, ci sta benissimo. S’accorda con il tono evocativo del titolo del romanzo. Persino la luce è quella giusta: non tanto di un’ora del giorno ma di un momento decisivo della storia. L’immagine poi richiama il fatto che la vicenda raccontata da Doninelli si gioca tra due sponde, con un grande mare in mezzo. Insomma, una copertina che ha qualcosa di magico.

Written by gfrangi

Ottobre 11th, 2015 at 11:40 am

Ragazzi, cos’è arte?

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Domanda: qual è il criterio per dire cos’è arte e cosa no?
È iniziato così, con una domanda a bruciapelo come questa, il dialogo con i ragazzi delle cinque classi dell’artistico del Sacro Cuore, a Chioggia, dove erano in (intelligente) vacanza studio perché hanno visto la Biennale.
È un dialogo che mi colpisce, perché si coglie tanta passione, tanta intelligenza e tanta apertura anche a ciò che non viene immediatamente capito.
La domanda un po’ spaventa, perché sembra ingenua, sembra chiedere uno schema in cui adagiarsi, in realtà colgo un desiderio esattamente opposto. È il desiderio di non farsi sfuggire qualcosa di prezioso, di non riuscire ad intercettare il senso di forme impreviste.

Non ci son formule per rispondere. C’è un’esperienza da costruire, in cui oggettività e sguardo soggettivo si trovino sempre in scambi, in movimento. L’oggettività è sempre un fattore di osservazione e di conoscenza. La soggettività è lo sguardo, la storia personale. L’opera d’arte infatti non è l’oggetto in sé ma l’intensità della relazione che determina. Non è un’astrazione che esiste indipendentemente da chi la guarda. E il guardarla implica pazienza, curiosità, consapevolezza che non c’è un punto di arrivo nella comprensione. Ci sono emozionanti salti in profondità, in un percorso di scoperte continue, perché dati oggettivi si aggiungono e sguardi mai uguali si posano.
Tra i dati oggettivi c’è anche lo sguardo degli altri: quello che gli altri hanno riconosciuto in quell’opera; c’è quello che quell’opera ha disseminato nella loro sensibilità. È sempre la curiosità che muove a fare domande, a capire perché un’opera sta lasciando un segno, anche se a prima vista non accende il nostro interesse.
Il giudizio estetico matura e si consolida dentro questo percorso che fa dialogare l’istintività (inevitabile, non va castrata, bisogna però indurla a lottare) con tutti questi elementi che costituiscono il “mondo” di quell’opera.
Cosa si scopre alla fine (che fine non è mai) di questo percorso? Che l’arte è una dimensione indagata da sempre, calata nel corpo del tempo presente e perciò espressa, incarnata dentro una forma sempre necessariamente nuova. L’arte è ogni volta una scommessa su questa forma, che non ha obblighi se non quella di costituirsi in forma e di non essere una forma che già è stata. L’arte è sempre un rischio, perché il terreno su cui si inoltra è per destino inesplorato.
PS: mi verrebbe da dire che queste forme hanno dentro un’anima. So che la formulazione è tremendamente banale. Ma come altro rendere l’idea che all’inizio di tutto c’è un fattore da cui si genera tutto? E questo fattore non è altro che la “sensibilità”, dono specialissimo e imprevedibile nei suoi sviluppi, che il padreterno ha fatto quel tipo d’uomo che chiamiamo artista.
(Yves Klein aveva molto chiara l’oggettività di questa condizione, al punto che per farsi capire, una decise di vendere solo un po’ di sensibilità a peso: l’arte era lì…)

Written by gfrangi

Ottobre 2nd, 2015 at 4:02 pm

Posted in pensieri

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