Una linea che precipita in un punto. Un segno grafico perfetto, un equilibrio impeccabile. Wassily Kandiskij, “Free curve to the point, accomanying sound of geometric curves” inchiostro su carta, 1925. Indubbiamente una meraviglia, che non finisci di guardare, a dispetto dell’essenzialità. Me si può festeggiare il Natale davanti ad un’immagine (scelta da Cl come immagine del Natale 2915) così apparentemente muta? Il Natale è la festa più semplice che ci sia: un bambino che nasce, povero e di fatto profugo. Nasce nonostante tutto. È semplice rappresentarlo, ci si può sbizzarrire in varianti, ma alla fine la storia è quella. E così è stato per secoli. La ripetizione è parte della commozione con cui gli uomini hanno vissuto e fatto memoria di quel fatto. Ma la ripetizione si è per secoli innescata su una capacità di fondo di “reinventare” la forma della narrazione di quel fatto. Di farla salire nel tempo, di portarla al qui ed ora senza tradirne il cuore. Senza questa capacità di reinvenzione quell’immagine resta relegata al buon folklore. Bello, popolare, commovente, ma marginale. Ora, da quanto tempo l’arte non sa reinventare, nel senso di farne forma cosciente al passo con il presente, quell’immagine? Tanto, tanto tempo. Nel 900, che pur non ha dimenticato il soggetto religioso e cristiano, i casi si misurano sulle dita di una o forse due mani. È comunque se qualche residuo resta è nella forma del Madonna con il Bambino, non del presepe e della nascita. La narrazione del fatto si è eclissata. Perché? Forse perché è venuta meno la coscienza universale della portata di quel fatto? Forse si è rotto il filo di coscienza che lega il fatto accaduto all’attimo presente? O forse è soprattutto una incapacità di lettura da parte nostra? Uno schematismo che ci tiene prigionieri di una buona e bella tradizione, fatta di immagini tenere e reiterate? Forse il segno del Natale oggi può essere colto fuori dalla mera rappresentazione, in forma di domanda, di attesa. In forma di un tracciato che è riflessione sul destino (sottolineo che nel titolo la curva è definita “libera”: un’attrattiva che non limita la libertà). Può essere riassunto nella nudità della sua dinamica. Magari inconsapevolmente. Senza che chi l’ha messo su carta abbia pianificato nulla, perché l’arte, come quel bambino, alle fine è una sorpresa di Dio. Del resto anche i pastori non avevano pianificato nulla. Però erano stati liberi di cercare…
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E se questo fosse il presepe secondo Fontana?
Se la dimensione del Natale è quella di essere una sorpresa, anche nell’immagine che lo racconta o che ne restituisce il senso, cerchiamo sempre questa stessa dimensione di sorpresa. Un’immagine che abbia in sé qualcosa di inatteso. Quest’anno devo la sorpresa a Lucio Fontana. Nei tre volumi appena usciti da Skira che raccolgono tutta la sua opera su carta a pagina 154 -155 sono pubblicate le quattro varianti un Ambiente spaziale del 1960 di stupefacente bellezza e semplicità (per vederlo bene cliccate sull’immagine qui sopra). Il “concetto” dell’opera è semplice: un grande e spesso segno nero di china, traccia un arco che abbraccia quasi tutto il foglio; è un arco imperfetto, che ha una evidente funzione protettiva più che di sostegno di una struttura. Un arco – abbraccio, insomma; o un arco grembo, come se l’ambiente spaziale da definire fosse proprio quello: un grembo. Al centro dello spazio c’è una grande cosa rossa: un solido geometrico che però è smussato da tante irregolarità, così da sembrare il contenitore di qualcosa che è pronto ad irrompere, e che scuote da dentro il solido, al punto di arroventarlo. Il rosso a china infatti è rosso vivo, rosso ardente. La disomogeneità nella stesura restituisce l’idea di un solido pulsante: e i fori che compaiono sulla sua superficie e non sul resto della foglio, alludono a qualcosa che sta accadendo dentro.
Che l’architettura dell’arco richiami l’irregolarità della grotta, luogo protettivo per antonomasia nel racconto del Natale, non penso proprio sia una forzatura. Chi è pittore ha per forza nell’occhio e nel cervello quella “forma” maturata in secoli di storia. Una “forma” che è generativa, non solo per ciò che al suo interno è storicamente accaduto; ma che è anche generativa di intuizioni espressive, per chi da artista ha provato a immaginarla e rappresentarla. Che poi il rosso balzi all’occhio come una sorpresa di cui non capiamo bene né gli esatti contenuti né tanto meno la portata, ma da cui non stacchiamo né l’occhio né la mente, è altrettanto palese.
È tutto semplice in questa carta di Fontana, ma è tutto anche irriducibile. Come qualcosa che scalda lo sguardo, e che contenga la promessa di non spegnersi mai. Proprio come il Natale.
Natale con Agosti. Ballano il bue e l'asino
Avevo chiesto tempo fa a Giovanni Agosti di indicarmi un quadro che ai suoi occhi e per la sua storia personale rappresentasse lo spirito del Natale. La sua risposta mi ha sorpreso: «Quando mi hai chiesto quella cosa riguardo al Natale ci ho pensato su un po’. Poi mi è affiorato dalla memoria una Natività di Tullio Garbari, un pittore non troppo amato oggi. È conservata al povero Museo comunale di Arte Moderna di Milano, quindi non lo si può vedere. Ricordo che mi aveva colpito perché esprimeva bene, con semplicità, il senso della felicità del Natale. Era un senso di gioia esplicitamente espressa, una gioia quasi irrefrenabile. Tant’è vero che c’erano gli angeli che ballavano. Ma soprattutto ballavano il bue e l’asino. Quello è il particolare che mi aveva colpito: il Natale per Garbari era quella festa che faceva ballare anche il bue e l’asino!» (cercherò al più presto l’immagine vera).